FOGLIO LAPIS - GIUGNO - 2010

 
 

Il problema dell’accoglienza e della tolleranza di stranieri e nomadi alla luce della diversità religiosa – Le violenze che a volte vengono perpetrate in nome della fede non traggano in inganno: l’analisi dei vari testi sacri delle rivela che tutti insistono sul dovere della solidarietà verso i “diversi” – Il fatto che simili aperture siano spesso contraddette dalla prassi non deve far dimenticare che su quella base davvero ecumenica è possibile superare, nel rispetto reciproco, ogni steccato

 

Uno dei problemi più ricorrenti della cronaca quotidiana è quello dell’accoglienza e della tolleranza nei confronti degli stranieri e dei nomadi, un tema che allarma gli stati per la vastità del fenomeno dell’immigrazione e mette alla prova la coscienza cristiana. L’anno scorso, nella prova scritta d’Italiano per l’esame di Stato delle Superiori, si è proposto di sviluppare una riflessione sulla "Percezione dello straniero nella letteratura e nell’arte". Sono stati offerti diversi documenti, tra i quali un passo del Deuteronomio in cui si pongono delle disposizioni legali a favore dello straniero (a proposito… quanti studenti avranno saputo collocare questo testo all’interno della letteratura ebraica?). Dopo aver considerato che il tema risponde pienamente alle direttive degli Obiettivi Scolastici di Apprendimento relativi all’insegnamento della religione nelle scuole secondarie superiori, abbiamo pensato di offrire qualche spunto di riflessione. 

Negli O.S.A. del secondo biennio, per esempio, il tema dell’accoglienza dello straniero si può configurare all’interno del capitolo «Giustizia e pace, libertà e fraternità nelle attese dei popoli e nell’insegnamento del cristianesimo»; tale capitolo è orientato a far acquisire agli studenti l’abilità indicata come «Accogliere, confrontarsi e dialogare con quanti vivono scelte religiose e impostazioni di vita diverse dalle proprie».
Negli Obiettivi Specifici del quinto anno troviamo un riferimento interessante nel «dialogo interreligioso e il suo contributo per la pace fra i popoli»; un obiettivo che deve rendere lo studente capace di «Riconoscere in situazioni e vicende contemporanee modi concreti con cui la Chiesa realizza il comandamento dell’amore».
Il tema dell’accoglienza dello straniero e in genere del nomade trova piena legittimità, sia all’interno del contesto giudaico-cristiano e della vita della Chiesa, sia nel quadro del dialogo interreligioso.

L’attualità e l’urgenza del tema induce le prospettive socio-religiose al dialogo e alla riflessione comune. Se è vero che, a volte, nei Testi fondamentali ci si imbatte in pagine di violenza e intolleranza, è anche vero che la migliore eredità delle Sacre Scritture (quella stessa che trova applicazione nelle costituzioni e nelle leggi degli stati moderni) è orientata alla protezione dei nomadi e degli stranieri. E ciò appare vero anche nella prospettiva delle tradizioni orientali. 

EBRAISMO

La storia del popolo di Israele è una storia di peregrinazioni. Anche dopo essersi stabilito nella Terra Promessa, Israele non perde la percezione della propria condizione “pellegrina”, dal momento che questa Terra appartiene a Dio ed Israele vi abita come ospite e forestiero. 

Per un altro verso, il Testamento esprime, a volte, atteggiamenti di ostilità e di opposizione nei confronti dello straniero dovuti al timore del nemico e alla difesa della propria identità. Più sovente, tuttavia, prevale un atteggiamento di apertura e di protezione: il forestiero è percepito come immagine stessa dell’ebreo errante, simile a lui nella condizione. Il secondo libro delle Cronache (2Cr 2,17) ci informa della presenza di ben centocinquantamila stranieri in Israele che lavoravano alle dipendenze del re Salomone nel X secolo a.C. per la costruzione del Tempio. 

Stando ai libri del Levitico e del Deuteronomio lo straniero, pur non avendo gli stessi diritti dell’ebreo (in quanto non può possedere la terra e vive come un dipendente) deve essere protetto e gli si deve riconoscere il diritto a raccogliere le spighe di grano rimaste dopo la mietitura (Lv 19,10; Dt 24,19-21). La sua condizione di fragilità e debolezza economica, gli attirano anche la simpatia e la protezione del Signore che “rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama lo straniero e gli dà pane e vestito” (Dt 10,18).

Di norma, tuttavia, i princìpi di fondo della Legge di Mosè che ispirano i rapporti sociali tra gli ebrei, devono applicarsi anche agli stranieri: “Non restare indifferente di fronte al sangue del tuo prossimo“ (Lv 19,16); “Amerai il prossimo tuo come te stesso “(Lv 19,18). 

Essere stati stranieri in terra d’Egitto comporta il dovere di proteggere e amare tutti gli stranieri che vivono in mezzo a loro. In diversi passi del testo biblico si esprime questo principio; per esempio in Es 22,20 : “Non opprimere lo straniero e non molestarlo, poiché siete stati stranieri in terra d’Egitto. In Dt 24,17-22 : Non lederai il diritto dello straniero o dell’orfano e non prenderai in pegno la veste dalla vedova; ma ti ricorderai che sei stato schiavo in Egitto e che di là ti ha redento l’Eterno, il tuo Dio; perciò ti comando di fare questo. Quando fai la mietitura nel tuo campo e dimentichi nel campo un covone, non tornerai indietro a prenderlo; sarà per lo straniero, per l’orfano e per la vedova, affinché l’Eterno, il tuo Dio, ti benedica in tutta l’opera delle tue mani. Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornerai a ripassare sui rami; le olive rimaste saranno per lo straniero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non ripasserai una seconda volta; i grappoli rimasti saranno per lo straniero, per l’orfano e per la vedova. E ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese d’Egitto; perciò ti comando di fare questo. 

CRISTIANESIMO         

Essere nel mondo pellegrini e stranieri come Cristo fu un sentimento comune per i cristiani delle origini, quando, malvisti e perseguitati, si riconoscevano come stranieri nel mondo, appartenenti ad una Chiesa pellegrina sulla terra, ma protesa verso la Patria celeste (1Pt 2,11-12; Eb 11,13-16). Ogni uomo entrava nel mondo come si entra in una città straniera dove si è destinati a soggiornare solo temporaneamente. Questa immagine della comunità cristiana come Chiesa pellegrina sulla terra troverà poi la sua formulazione definitiva nella Città di Dio di S. Agostino: solo qui si poteva conseguire una pace eterna e perfetta.

Anche nell’incontro (e scontro) con i barbari, l’insegnamento delle Sacre Scritture indicava la via maestra da seguire: così come insegna la parabola del Buon Samaritano (Lc 10,29-37), e altri episodi dei Vangeli (Lc 17,11-19; Mt 8,5-13; Lc 7,1-10), gli stessi stranieri potevano diventare degli autentici modelli di fede. 

Il rilievo tutto particolare affidato dalla tradizione cristiana alla condizione e al ruolo dello straniero, non può essere compreso se non teniamo presente la vicenda terrena di Gesù che, per molti aspetti, incarna quella dello straniero di tutti i tempi: quel Gesù, che è figlio di Dio, ha conosciuto, infatti, la condizione dello straniero nel mondo quando era ancora in fasce, come ci raccontano i vangeli della nascita (Mt 1,18-2,23; Lc 1,5-2,5),

Viene alla luce lontano dalla casa dei suoi e, poiché non c’era posto per loro nell’albergo (Lc 2,7), deposto in una mangiatoia fugge in Egitto, vivendo quella fondamentale esperienza di straniero vissuta dal popolo di Israele (Mt 2,13ss). Nato fuori dalla sua casa, fuori dalla sua Patria (Lc 2,4-7), abitò in mezzo a noi (Gv 1,11-14) e trascorse la sua vita pubblica, itinerante, percorrendo città e villaggi (Lc13,22; Mt 9,35). Risorto, e tuttavia ancora straniero, sconosciuto, apparve, in cammino verso Emmaus, a due suoi discepoli che lo riconobbero solo allo spezzar del pane (Lc 24,35). I cristiani vissero (e vivono) quindi alla sequela di un viandante che non aveva dove posare il capo (Mt 8,20; Lc 9,58). 

Anche Maria, la Madre di Gesù, può essere contemplata come icona della donna migrante: dà alla luce suo Figlio lontano da casa (Lc 2,1-7) ed è costretta a fuggire in Egitto (Mt 2,13-14). La devozione popolare ha considerato giustamente Maria come Madonna del cammino.

Gesù quindi, fin dal principio abbraccia la condizione del forestiero, del senza-casa, del perseguitato. La sintesi della sua esperienza terrena è descritta nel Vangelo di Giovanni come quella dell’Inviato di Dio che è venuto da straniero in un mondo che non l’ha accolto (Gv 8,23; 17,14-16). Nutrita da questi insegnamenti la prima comunità cristiana, composta in maggioranza da ebrei, si aprì a tutti, anche ai non ebrei, sulla spinta di San Paolo che affermava: “Non c’è più giudeo, né greco, non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna (Gal 3,28) poiché tutti sono una cosa sola nel Signore.

«Io non sono di questo mondo» (Gv 8,23) 

La sintonia di Gesù con lo straniero giunge, in alcuni passi del Vangelo, fino a una completa identità con lui. Gesù si sente estraneo a coloro che sono legati alle logiche di questo mondo (Gv 8,23). Essere suoi seguaci significa, pertanto, essere chiamati a condividere con Lui questa condizione di estraneità che porta fino alla persecuzione, come Egli annuncia nella preghiera al Padre prima della Passione (Gv 17,13-14). Ma è soprattutto nel racconto del giudizio finale che emerge con estrema chiarezza quanto sia normativa l’accoglienza del forestiero e di chiunque si trovi nella sofferenza (Mt 25,31-46).
Diceva loro: «Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo». (Gv 8,23)

«Chi è il mio prossimo?» (Lc 10,29-37) 

Il Buon Samaritano è una delle parabole più note e significative dei Vangeli in cui Gesù spiega chi deve essere inteso per “prossimo”. Il Maestro di Nazareth lo fa raccontando di un giudeo che, tramortito da briganti per la strada, viene soccorso non dai fratelli della sua stessa regione (tra cui un prete) ma da un Samaritano, un appartenente cioè a una setta separata e mal vista dalla popolazione giudaica. Il modello di comportamento cristiano che si fa carico di chiunque sia nella sofferenza, proviene, in questo caso, proprio da uno straniero. 

Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso». (Lc. 10,29-37)

 «Ero forestiero e mi avete ospitato…» (Mt 25,31-46)        

L’identificazione di Cristo con i forestieri e l’atteggiamento assunto da ciascun uomo nei loro confronti assume un valore centrale nella storia della salvezza e nella stesa determinazione del Giudizio finale. Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». Rispondendo, il re dirà loro: «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Poi dirà a quelli alla sua sinistra: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato». Anch’essi allora risponderanno: «Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito?». Ma egli risponderà: «In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me». E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna.” (Mt. 25,31-46) 

La Chiesa e i migranti 

L’impegno e la cura nei confronti dei migranti sono quindi strettamente legati all’identità e alla storia della Chiesa. Tra i suoi organismi centrali vi è, oggi, il “Pontificio Consiglio per i migranti e gli Itineranti”. Il 3 maggio 2004 è stato pubblicato un documento molto articolato dal titolo La carità di Cristo verso i migranti con cui la Chiesa analizza il fenomeno dei migranti dal punto di vista sociale, economico e della fede. Presentiamo qui due passi di tale Istruzione.

La carità di Cristo verso i migranti ci stimola (cfr. 2Cor 5,14) ad affrontare di nuovo i loro problemi che riguardano ormai il mondo intero. Infatti pressoché tutti i Paesi, per un verso o per l’altro, si confrontano oggi con l’irrompere del fenomeno delle migrazioni nella vita sociale, economica, politica e religiosa, un fenomeno che sempre più va assumendo una configurazione permanente e strutturale. Determinato, molte volte, dalla libera decisione delle persone e motivato, abbastanza spesso, anche da scopi culturali, tecnici e scientifici, oltre che economici, esso è per lo più segno eloquente degli squilibri sociali, economici e demografici a livello sia regionale che mondiale che impulsano ad emigrare.

Tale fenomeno affonda le proprie radici pure nel nazionalismo esasperato, e in molti Paesi addirittura nell’odio o emarginazione sistematica o violenta delle popolazioni minoritarie o dei credenti di religioni non maggioritarie, nei conflitti civili, politici, etnici e perfino religiosi che insanguinano tutti i continenti. Essi alimentano flussi crescenti di rifugiati e di profughi, spesso in mescolanza con quelli migratori, coinvolgendo società nel cui interno etnie, popoli, lingue e culture diverse si incontrano, pure col rischio di contrapposizione e di scontro. (…) 

La Chiesa ha sempre contemplato nei migranti l’immagine di Cristo, che disse: «Ero straniero e mi avete ospitato» (Mt 25,35). La loro vicenda, per essa, è cioè una provocazione alla fede e all’amore dei credenti, sollecitati così a sanare i mali derivanti dalle migrazioni e a scoprire il disegno che Dio attua in esse, anche qualora fossero causate da evidenti ingiustizie.
Le migrazioni, avvicinando le molteplici componenti della famiglia umana, tendono in effetti alla costruzione di un corpo sociale sempre più vasto e vario, quasi a prolungamento di quell’incontro di popoli e razze che, per il dono dello Spirito, nella Pentecoste, divenne fraternità ecclesiale.

Se da una parte le sofferenze che accompagnano le migrazioni sono infatti espressione del travaglio del parto di una nuova umanità, dall’altra le disuguaglianze e gli squilibri, dei quali esse sono conseguenza e manifestazione, mostrano in verità la lacerazione introdotta nella famiglia umana dal peccato, e risultano pertanto una dolorosa invocazione alla vera fraternità   (Istruzione La carità di Cristo verso i migranti, Pontificio consiglio per i migranti e gli itineranti, 4/5/2004)

ISLAM           

Chiunque abbia fatto l’esperienza di vivere la condizione dell’ospite in una casa musulmana, sia in un contesto europeo che arabo, ha conosciuto una caratteristica fondamentale della cultura islamica, e quindi non solo araba, che è l’ospitalità verso i forestieri. La prodigalità con gli ospiti era in effetti considerata una delle massime virtù già in epoca preislamica, ampliandosi con l’avvento della religione di Muhammd. Un detto arabo afferma che un estraneo che giunge alla tua casa ha diritto a tre giorni di ospitalità prima che tu gli chieda come si chiami…

Nella Sura II,62 si afferma che …coloro che credono, siano essi ebrei, nazareni o sabei, [probabilmente una setta gnostica]… non avranno nulla da temere e non saranno afflitti. Il diritto musulmano, attraverso l’istituto giuridico chiamato Dhimma, concede quindi ai cristiani e agli ebrei lo status di “protetti”, e possono godere della cosiddetta “tolleranza islamica”. È anche avvenuto, nel corso della storia, che la Dhimma si sia espressa in termini più liberali, estendendosi anche a religioni differenti da quella ebraica e cristiana; talvolta, invece, ha imboccato strade più severe e intolleranti verso la stessa Gente del Libro.

Sono numerosi i passi nel Corano in cui si raccomanda un’attenzione particolare nei confronti del viandante, dell’ospite e, più in generale del prossimo (Sura IV,36; VIII,41; II,177; II,215; VIII,41 e altri). In alcuni passi si dispone che, anche nei bottini delle conquiste militari, si debba destinare una certa quota ai poveri e ai viandanti: una sorta di “stato sociale” in germe…

Ti chiederanno: «Cosa dobbiamo dare in elemosina?» Rispondi: «I beni che erogate siano destinati ai genitori, ai parenti, agli orfani, ai poveri e ai viandanti diseredati. E Allah conosce tutto il bene che fate”. Sura II,215

Adorate Allah e non associategli alcunché. Siate buoni con i genitori, i parenti, gli orfani, i poveri, i vicini vostri parenti e coloro che vi sono estranei, il compagno che vi sta accanto, il viandante e chi è schiavo in vostro possesso. In verità Allah non ama l’insolente, il vanaglorioso, [e neppure] coloro che sono avari e invitano all’avarizia e celano quello che Allah ha dato loro della Sua Grazia.  Sura IV,36-37  

INDUISMO

Il valore dell’accoglienza dello straniero non è estraneo nemmeno alla cultura indiana. La tradizionale e ben nota tolleranza indiana trova la sua manifestazione essenziale proprio nell’accoglienza delle persone e delle idee più differenti, sebbene ultimamente anche l’India stia conoscendo forme di nazionalismo intollerante che tradisce le millenarie abitudini popolari. 

L’accoglienza e il sostegno nei confronti dello straniero trova familiarità e incarnazione perfetta nei riguardi dei mendicanti-monaci, i sadhu che appartengono alla corrente di devozione vishnuita denominata bhakti. In questo contesto, alla ricerca spirituale esercitata dai monaci, fa da riscontro il dovere dell’accoglienza e della carità da parte dei laici. Il monaco itinerante rappresenta per i laici un modello di vita esemplare lungo il cammino della tolleranza e della purificazione spirituale: per questo li nutrono e li accolgono, cercando di apprenderne la sapienza ed ereditare così un Karma positivo. 

Il testo fondamentale per chi persegue tale cammino è la Bhagavad Gita e lo strumento indispensabile è lo yoga. Nel testo si afferma che il vero yogin è “colui che non concepisce inimicizia per alcun essere vivente, che nutre sentimenti amichevoli e di compassione, che è libero da egoismo ed egocentrismo, che ha un identico equilibrio nel piacere e nel dolore e che è tollerante” (Bhagavad Gita 12,13). 

Non concepire inimicizia per nessun essere vivente

Nei versi seguenti della Bhagavad Gita (12,13) si ricorda quali sono le qualità di un autentico uomo di fede: la libertà spirituale, l’amicizia verso tutti, la tolleranza, la serenità. Chi è devoto a tali principi non è per nessuno causa di pena e non è osteggiato da nessuno; le sue azioni sono pure ed esenti dalle passioni, non si perde nei sogni ma sa come agire nella vita. 

Colui che non concepisce inimicizia per alcun essere vivente, che nutre sentimenti amichevoli e di compassione, che è libero da egoismo ed egocentrismo, che ha un identico equilibrio nel piacere e nel dolore, che è tollerante, che è sempre soddisfatto, che ha lo spirito dòmo, che è fermamente risoluto, che ha la mente e l’intelletto su di me fissi, lui appunto, che è a me devoto, mi è caro.” Bhagavad Gita (12,13)

 Il Salmo del pellegrino (Salmo LXIII di Tukaram) 

Tukaram è un mistico illetterato della prima metà del XVII secolo che apparteneva alla casta degli shudras (l’ultima casta, quella degli schiavi). Di lui possediamo, grazie alle trascrizioni dei suoi discepoli, dei salmi e dei cantici che si possono annoverare tra i più belli della letteratura hindù. Egli compose anche dei cantici destinati ad accompagnare i pellegrinaggi verso Pandharpur, il luogo in cui Krishna si era manifestato sotto forma di un bambino; pellegrinaggi che egli contribuì grandemente a sviluppare. La divinità è qui presentata come tutrice del pellegrino.
Dovunque io vada, tu sei il mio compagno
che mi tiene la mano e mi conduce.
Su questa strada in cui cammino,
tu sei il mio solo sostegno.
Al mio fianco tu porti il mio fardello.
Lungo il cammino, se io devìo
Tu mi correggi:
Tu hai rotto le mie resistenze,
o Dio, tu mi hai spinto in avanti.
Tutti gli esseri, tutti gli uomini
sono divenuti i miei bene amati fratelli.
Ora, la tua gioia mi penetra e mi circonda,
dice Tukaram,
sono come un bambino che gioca in una festa. 
(da TUKARAM, Salmi del pellegrino, Ed.
Connaissance de l’Orient, Gallimard, 1956) 

BUDDISMO

Nel Buddismo la tolleranza e il rispetto verso il prossimo anche se straniero sono così radicali e praticati da rappresentare le virtù principali in cui si riconoscono i buddisti di tutto il mondo. Accoglienza e tolleranza sono quindi aspetti molto evidenti di questa cultura e i testi buddisti brulicano di racconti che mostrano l’importanza assunta da questi valori.
Essi si fondano sul principio buddista dell’unità dell’universo: è la medesima vita ad animare tutti gli esseri viventi e l’aggressione di uno di questi equivale ad aggredire se stessi. Al contrario, quando un solo essere giunge all’illuminazione, ne trae vantaggio il cosmo intero. Lo strumento fondamentale è l’esercizio della compassione che consente l’accoglienza e la cura dello straniero così come di ogni essere vivente.
Questo principio dell’accoglienza, sostiene il Dalai Lama, deve animare anche il dialogo tra le religioni che sono in prima fila per insegnare a sostenere ogni forma di solidarietà e compassione.


«Rendere alle altre comunità gli onori opportuni»
      

Già nel III secolo a.C. l’imperatore Ashoka, contemporaneamente all’invio di missionari sia nel sud (a Ceylon e in Birmania) che nelle regioni nord occidentali dell’India, predicò una tolleranza radicale nei confronti di tutte le comunità e le altre dottrine.  Ecco come si esprimeva: “Tutte le comunità religiose si propongono come meta il controllo dei sensi e la purezza dell’anima […]. Il Bene è la spina dorsale di tutte le comunità […]. Lo sviluppo di tutte le comunità può avvenire, in effetti, in molte maniere, ma per tutte c’è una medesima radice: è il controllo del linguaggio, è la capacità di non celebrare la propria comunità a scapito delle altre […]. Bisogna, al contrario, rendere alle altre comunità gli onori opportuni, in ogni circostanza. Chiunque agisca così fa prosperare la propria comunità e si rende utile per le altre. Che tutti aspirino ad ascoltare ed imparare il bene gli uni dagli altri

(da H. ARVON, Le buddhisme, P.U.F., Paris, 1951, pp. 85-86)

Il Dalai Lama, afferma che la prima condizione necessaria al dialogo tra le religioni è il rispetto delle differenze. Bisogna dunque manifestare interesse per le convinzioni religiose degli altri, tanto più quando sono totalmente estranee alle nostre. 

Il mio messaggio per tutti è: l’amore del prossimo, la bontà e la compassione. Si tratta, io credo, del punto essenziale e universale predicato da tutte le religioni. Malgrado la presenza di alcune divergenze nelle prospettive filosofiche, noi possiamo stabilire un’armonia tra tutte le tradizioni spirituali sulla base di quei tratti comuni che sono l’amore, la bontà e il perdono. Insisto molto su questo punto per il quale dedico molte delle mie energie”. 
(da DALAI-LAMA, Au-delà des dogmes, Parigi, 1994)

                                                          Alberto Pisci 
                                         

    


                                                  

 
 

Clicca qui per iscriverti alla nostra newsletter!

 

Torna al Foglio Lapis giugno 2010

 

Mandaci un' E-mail!