Il problema dell’accoglienza e della tolleranza di
stranieri e nomadi alla luce della diversità religiosa
– Le violenze che a volte vengono perpetrate in nome
della fede non traggano in inganno: l’analisi dei vari
testi sacri delle rivela che tutti insistono sul dovere
della solidarietà verso i “diversi” – Il fatto che
simili aperture siano spesso contraddette dalla prassi non
deve far dimenticare che su quella base davvero ecumenica
è possibile superare, nel rispetto reciproco, ogni
steccato
Uno
dei problemi più ricorrenti della cronaca quotidiana è
quello dell’accoglienza e della tolleranza nei confronti
degli stranieri e dei nomadi, un tema che allarma gli stati
per la vastità del fenomeno dell’immigrazione e mette
alla prova la coscienza cristiana. L’anno scorso, nella
prova scritta d’Italiano per l’esame di Stato delle
Superiori, si è proposto di sviluppare una riflessione
sulla "Percezione dello straniero nella letteratura e
nell’arte". Sono stati offerti diversi documenti, tra
i quali un passo del Deuteronomio in cui si pongono delle
disposizioni legali a favore dello straniero (a proposito…
quanti studenti avranno saputo collocare questo testo
all’interno della letteratura ebraica?). Dopo aver
considerato che il tema risponde pienamente alle direttive
degli Obiettivi Scolastici di Apprendimento relativi
all’insegnamento della religione nelle scuole secondarie
superiori, abbiamo pensato di offrire qualche spunto di
riflessione.
Negli
O.S.A. del secondo biennio, per esempio, il tema
dell’accoglienza dello straniero si può configurare
all’interno del capitolo «Giustizia
e pace, libertà e fraternità nelle attese dei popoli e
nell’insegnamento del cristianesimo»; tale capitolo
è orientato a far acquisire agli studenti l’abilità
indicata come «Accogliere, confrontarsi e dialogare con
quanti vivono scelte religiose e impostazioni di vita
diverse dalle proprie».
Negli Obiettivi Specifici del quinto anno troviamo un
riferimento interessante nel «dialogo
interreligioso e il suo contributo per la pace fra i popoli»;
un obiettivo che deve rendere lo studente capace di «Riconoscere
in situazioni e vicende contemporanee modi concreti con cui
la Chiesa realizza il comandamento dell’amore».
Il tema dell’accoglienza dello straniero e in genere del
nomade trova piena legittimità, sia all’interno del
contesto giudaico-cristiano e della vita della Chiesa, sia
nel quadro del dialogo interreligioso.
L’attualità
e l’urgenza del tema induce le prospettive socio-religiose
al dialogo e alla riflessione comune. Se è vero che, a
volte, nei Testi fondamentali ci si imbatte in pagine di
violenza e intolleranza, è anche vero che la migliore
eredità delle Sacre Scritture (quella stessa che trova
applicazione nelle costituzioni e nelle leggi degli stati
moderni) è orientata alla protezione dei nomadi e degli
stranieri. E ciò appare vero anche nella prospettiva delle
tradizioni orientali.
EBRAISMO
La
storia del popolo di Israele è una storia di
peregrinazioni. Anche dopo essersi stabilito nella Terra
Promessa, Israele non perde la percezione della propria
condizione “pellegrina”, dal momento che questa Terra
appartiene a Dio ed Israele vi abita come ospite e
forestiero.
Per
un altro verso, il Testamento esprime, a volte,
atteggiamenti di ostilità e di opposizione nei confronti
dello straniero dovuti al timore del nemico e alla difesa
della propria identità. Più sovente, tuttavia, prevale un
atteggiamento di apertura e di protezione: il forestiero è
percepito come immagine stessa dell’ebreo errante, simile
a lui nella condizione. Il secondo libro delle Cronache (2Cr
2,17) ci informa della presenza di ben centocinquantamila
stranieri in Israele che lavoravano alle dipendenze del re
Salomone nel X secolo a.C. per la costruzione del
Tempio.
Stando
ai libri del Levitico e del Deuteronomio lo straniero, pur
non avendo gli stessi diritti dell’ebreo (in quanto non può
possedere la terra e vive come un dipendente) deve essere
protetto e gli si deve riconoscere il diritto a raccogliere
le spighe di grano rimaste dopo la mietitura (Lv 19,10; Dt
24,19-21). La sua condizione di fragilità e debolezza
economica, gli attirano anche la simpatia e la protezione
del Signore che “rende
giustizia all’orfano e alla vedova, ama lo straniero e gli
dà pane e vestito” (Dt 10,18).
Di
norma, tuttavia, i princìpi di fondo della Legge di Mosè
che ispirano i rapporti sociali tra gli ebrei, devono
applicarsi anche agli stranieri: “Non
restare indifferente di fronte al sangue del tuo prossimo“
(Lv 19,16); “Amerai il prossimo tuo come te stesso “(Lv
19,18).
Essere
stati stranieri in terra d’Egitto comporta il dovere di
proteggere e amare tutti gli stranieri che vivono in mezzo a
loro. In diversi passi del testo biblico si esprime questo
principio; per esempio in Es 22,20 : “Non
opprimere lo straniero e non molestarlo, poiché siete stati
stranieri in terra d’Egitto”.
In Dt 24,17-22 : “Non
lederai il diritto dello straniero o dell’orfano e non
prenderai in pegno la veste dalla vedova; ma ti ricorderai
che sei stato schiavo in Egitto e che di là ti ha redento
l’Eterno, il tuo Dio; perciò ti comando di fare questo.
Quando fai la mietitura nel tuo campo e dimentichi nel campo
un covone, non tornerai indietro a prenderlo; sarà per lo
straniero, per l’orfano e per la vedova, affinché
l’Eterno, il tuo Dio, ti benedica in tutta l’opera delle
tue mani. Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornerai a
ripassare sui rami; le olive rimaste saranno per lo
straniero, per l’orfano e per la vedova. Quando
vendemmierai la tua vigna, non ripasserai una seconda volta;
i grappoli rimasti saranno per lo straniero, per l’orfano
e per la vedova. E ti ricorderai che sei stato schiavo nel
paese d’Egitto; perciò ti comando di fare questo.”
CRISTIANESIMO
Essere
nel mondo pellegrini e stranieri come Cristo fu un
sentimento comune per i cristiani delle origini, quando,
malvisti e perseguitati, si riconoscevano come stranieri nel
mondo, appartenenti ad una Chiesa pellegrina sulla terra, ma
protesa verso la Patria celeste (1Pt 2,11-12; Eb 11,13-16).
Ogni uomo entrava nel mondo come si entra in una città
straniera dove si è destinati a soggiornare solo
temporaneamente. Questa immagine della comunità cristiana
come Chiesa
pellegrina sulla terra troverà poi la
sua formulazione definitiva nella Città di Dio di
S. Agostino: solo qui si poteva conseguire una
pace eterna e perfetta.
Anche
nell’incontro (e scontro) con i barbari, l’insegnamento
delle Sacre Scritture indicava la via maestra da seguire:
così come insegna la parabola del Buon Samaritano (Lc
10,29-37), e altri episodi dei Vangeli (Lc 17,11-19; Mt
8,5-13; Lc 7,1-10), gli stessi stranieri potevano diventare
degli autentici modelli di fede.
Il
rilievo tutto particolare affidato dalla tradizione
cristiana alla condizione e al ruolo dello straniero, non può
essere compreso se non teniamo presente la vicenda terrena
di Gesù che, per molti aspetti, incarna quella dello
straniero di tutti i tempi: quel Gesù, che è figlio di
Dio, ha conosciuto, infatti, la condizione dello straniero
nel mondo quando era ancora in fasce, come ci raccontano i
vangeli della nascita (Mt 1,18-2,23; Lc 1,5-2,5),
Viene
alla luce lontano dalla casa dei suoi e, poiché non
c’era posto per loro nell’albergo (Lc
2,7), deposto in una mangiatoia fugge in Egitto, vivendo
quella fondamentale esperienza di straniero vissuta dal
popolo di Israele (Mt 2,13ss). Nato fuori dalla sua casa,
fuori dalla sua Patria (Lc 2,4-7), abitò
in mezzo a noi (Gv 1,11-14) e trascorse la sua vita
pubblica, itinerante, percorrendo città
e villaggi (Lc13,22; Mt 9,35). Risorto,
e tuttavia ancora straniero, sconosciuto, apparve, in
cammino verso Emmaus, a due suoi discepoli che lo
riconobbero solo allo spezzar del pane (Lc 24,35). I
cristiani vissero (e vivono) quindi alla sequela di un
viandante che non aveva dove posare il capo (Mt 8,20; Lc
9,58).
Anche
Maria, la Madre di Gesù, può essere contemplata come icona
della donna migrante: dà alla luce suo Figlio lontano da
casa (Lc 2,1-7) ed è costretta a fuggire in Egitto (Mt
2,13-14). La devozione popolare ha considerato giustamente
Maria come Madonna del cammino.
Gesù
quindi, fin dal principio abbraccia la condizione del
forestiero, del senza-casa, del perseguitato. La sintesi
della sua esperienza terrena è descritta nel Vangelo di
Giovanni come quella dell’Inviato di Dio che è venuto da
straniero in un mondo che non l’ha accolto (Gv 8,23;
17,14-16). Nutrita da questi insegnamenti la prima comunità
cristiana, composta in maggioranza da ebrei, si aprì a
tutti, anche ai non ebrei, sulla spinta di San Paolo che
affermava: “Non c’è più giudeo, né greco, non
c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né
donna” (Gal 3,28) poiché tutti
sono una cosa sola nel Signore.
«Io
non sono di questo mondo» (Gv 8,23)
La
sintonia di Gesù con lo straniero giunge, in alcuni passi
del Vangelo, fino a una completa identità con lui. Gesù si
sente estraneo a coloro che sono legati alle logiche di
questo mondo (Gv 8,23). Essere suoi seguaci significa,
pertanto, essere chiamati a condividere con Lui questa
condizione di estraneità che porta fino alla persecuzione,
come Egli annuncia nella preghiera al Padre prima della
Passione (Gv 17,13-14). Ma è soprattutto nel racconto del
giudizio finale che emerge con estrema chiarezza quanto sia
normativa l’accoglienza del forestiero e di chiunque si
trovi nella sofferenza (Mt 25,31-46).
“Diceva loro: «Voi
siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo
mondo, io non sono di questo mondo».”
(Gv 8,23)
«Chi è il mio prossimo?» (Lc
10,29-37)
Il Buon Samaritano è una
delle parabole più note e significative dei Vangeli in cui
Gesù spiega chi deve essere inteso per “prossimo”. Il
Maestro di Nazareth lo fa raccontando di un giudeo che,
tramortito da briganti per la strada, viene soccorso non dai
fratelli della sua stessa regione (tra cui un prete) ma da
un Samaritano, un appartenente cioè a una setta separata e
mal vista dalla popolazione giudaica. Il modello di
comportamento cristiano che si fa carico di chiunque sia
nella sofferenza, proviene, in questo caso, proprio da uno
straniero.
Ma
quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il
mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da
Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo
spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo
mezzo morto. Per caso un sacerdote scendeva per quella
medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra
parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò
oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli
accanto vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli
fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi caricatolo
sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese
cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li
diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui e ciò
che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”.
Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui
che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha
avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche
tu fa’ lo stesso». (Lc. 10,29-37)
«Ero forestiero e mi avete ospitato…» (Mt
25,31-46)
L’identificazione
di Cristo con i forestieri e l’atteggiamento assunto da
ciascun uomo nei loro confronti assume un valore centrale
nella storia della salvezza e nella stesa determinazione del
Giudizio finale. “Quando
il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i
suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E
saranno riunite a lui tutte le genti, ed egli separerà gli
uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri,
e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: «Venite,
benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno
preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io
ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e
mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato,
nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato,
carcerato e siete venuti a trovarmi». Allora i giusti gli
risponderanno: «Signore, quando mai ti abbiamo veduto
affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti
abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e
ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando
ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a
visitarti?». Rispondendo, il re dirà loro: «In verità vi
dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di
questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».
Poi dirà a quelli alla sua sinistra: «Via, lontano da me,
maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per
i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da
mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero
forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete
vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato».
Anch’essi allora risponderanno: «Signore, quando mai ti
abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o
malato o in carcere e non ti abbiamo assistito?». Ma egli
risponderà: «In verità vi dico: ogni volta che non avete
fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più
piccoli, non l’avete fatto a me». E se ne andranno,
questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna.”
(Mt. 25,31-46)
La
Chiesa e i migranti
L’impegno
e la cura nei confronti dei migranti sono quindi
strettamente legati all’identità e alla storia della
Chiesa. Tra i suoi organismi centrali vi è, oggi, il
“Pontificio Consiglio per i migranti e gli Itineranti”.
Il 3 maggio 2004 è stato pubblicato un documento molto
articolato dal titolo La carità di Cristo verso i
migranti con cui la Chiesa analizza il fenomeno dei
migranti dal punto di vista sociale, economico e della fede.
Presentiamo qui due passi di tale Istruzione.
“La
carità di Cristo verso i migranti ci stimola (cfr. 2Cor
5,14) ad affrontare di nuovo i loro problemi che riguardano
ormai il mondo intero. Infatti pressoché tutti i Paesi, per
un verso o per l’altro, si confrontano oggi con
l’irrompere del fenomeno delle migrazioni nella vita
sociale, economica, politica e religiosa, un fenomeno che
sempre più va assumendo una configurazione permanente e
strutturale. Determinato, molte volte, dalla libera
decisione delle persone e motivato, abbastanza spesso, anche
da scopi culturali, tecnici e scientifici, oltre che
economici, esso è per lo più segno eloquente degli
squilibri sociali, economici e demografici a livello sia
regionale che mondiale che impulsano ad emigrare.
Tale
fenomeno affonda le proprie radici pure nel nazionalismo
esasperato, e in molti Paesi addirittura nell’odio o
emarginazione sistematica o violenta delle popolazioni
minoritarie o dei credenti di religioni non maggioritarie,
nei conflitti civili, politici, etnici e perfino religiosi
che insanguinano tutti i continenti. Essi alimentano flussi
crescenti di rifugiati e di profughi, spesso in mescolanza
con quelli migratori, coinvolgendo società nel cui interno
etnie, popoli, lingue e culture diverse si incontrano, pure
col rischio di contrapposizione e di scontro. (…)
La
Chiesa ha sempre contemplato nei migranti l’immagine di
Cristo, che disse: «Ero straniero e mi avete ospitato» (Mt
25,35). La loro vicenda, per essa, è cioè una provocazione
alla fede e all’amore dei credenti, sollecitati così a
sanare i mali derivanti dalle migrazioni e a scoprire il
disegno che Dio attua in esse, anche qualora fossero causate
da evidenti ingiustizie.
Le migrazioni, avvicinando le molteplici componenti della
famiglia umana, tendono in effetti alla costruzione di un
corpo sociale sempre più vasto e vario, quasi a
prolungamento di quell’incontro di popoli e razze che, per
il dono dello Spirito, nella Pentecoste, divenne fraternità
ecclesiale.
Se
da una parte le sofferenze che accompagnano le migrazioni
sono infatti espressione del travaglio del parto di una
nuova umanità, dall’altra le disuguaglianze e gli
squilibri, dei quali esse sono conseguenza e manifestazione,
mostrano in verità la lacerazione introdotta nella famiglia
umana dal peccato, e risultano pertanto una dolorosa
invocazione alla vera fraternità “
(Istruzione La carità di Cristo verso i
migranti, Pontificio consiglio per i migranti e gli
itineranti, 4/5/2004)
ISLAM
Chiunque
abbia fatto l’esperienza di vivere la condizione
dell’ospite in una casa musulmana, sia in un contesto
europeo che arabo, ha conosciuto una caratteristica
fondamentale della cultura islamica, e quindi non solo
araba, che è l’ospitalità verso i forestieri. La
prodigalità con gli ospiti era in effetti considerata una
delle massime virtù già in epoca preislamica, ampliandosi
con l’avvento della religione di Muhammd. Un detto arabo
afferma che un estraneo che giunge alla tua casa ha diritto
a tre giorni di ospitalità prima che tu gli chieda come si
chiami…
Nella
Sura II,62 si afferma che …coloro
che credono, siano essi ebrei, nazareni o sabei,
[probabilmente una setta gnostica]… non
avranno nulla da temere e non saranno afflitti.
Il diritto musulmano, attraverso l’istituto giuridico
chiamato Dhimma,
concede quindi ai cristiani e agli ebrei lo status di
“protetti”, e possono godere della cosiddetta
“tolleranza islamica”. È anche avvenuto, nel corso
della storia, che la Dhimma
si sia espressa in termini più liberali, estendendosi anche
a religioni differenti da quella ebraica e cristiana;
talvolta, invece, ha imboccato strade più severe e
intolleranti verso la stessa Gente del Libro.
Sono
numerosi i passi nel Corano in cui si raccomanda
un’attenzione particolare nei confronti del viandante,
dell’ospite e, più in generale del prossimo (Sura IV,36;
VIII,41; II,177; II,215; VIII,41 e altri). In alcuni passi
si dispone che, anche nei bottini delle conquiste militari,
si debba destinare una certa quota ai poveri e ai viandanti:
una sorta di “stato sociale” in germe…
“Ti chiederanno: «Cosa dobbiamo dare in elemosina?» Rispondi: «I beni
che erogate siano destinati ai genitori, ai parenti, agli
orfani, ai poveri e ai viandanti diseredati. E Allah conosce
tutto il bene che fate”. Sura
II,215
“Adorate Allah e non associategli alcunché. Siate buoni con i genitori, i
parenti, gli orfani, i poveri, i vicini vostri parenti e
coloro che vi sono estranei, il compagno che vi sta accanto,
il viandante e chi è schiavo in vostro possesso. In verità
Allah non ama l’insolente, il vanaglorioso, [e neppure]
coloro che sono avari e invitano all’avarizia e celano
quello che Allah ha dato loro della Sua Grazia”.
Sura IV,36-37
INDUISMO
Il
valore dell’accoglienza dello straniero non è estraneo
nemmeno alla cultura indiana. La tradizionale e ben nota
tolleranza indiana trova la sua manifestazione essenziale
proprio nell’accoglienza delle persone e delle idee più
differenti, sebbene ultimamente anche l’India stia
conoscendo forme di nazionalismo intollerante che tradisce
le millenarie abitudini popolari.
L’accoglienza
e il sostegno nei confronti dello straniero trova familiarità
e incarnazione perfetta nei riguardi dei mendicanti-monaci,
i sadhu
che appartengono alla corrente di devozione vishnuita
denominata bhakti.
In questo contesto, alla ricerca spirituale esercitata dai
monaci, fa da riscontro il dovere dell’accoglienza e della
carità da parte dei laici. Il monaco itinerante rappresenta
per i laici un modello di vita esemplare lungo il cammino
della tolleranza e della purificazione spirituale: per
questo li nutrono e li accolgono, cercando di apprenderne la
sapienza ed ereditare così un Karma
positivo.
Il
testo fondamentale per chi persegue tale cammino è la Bhagavad
Gita e lo strumento indispensabile è lo
yoga.
Nel testo si afferma che il vero yogin è “colui
che non concepisce inimicizia per alcun essere vivente, che nutre sentimenti
amichevoli e di compassione, che è libero da egoismo ed
egocentrismo, che ha un identico equilibrio nel piacere e
nel dolore e che è tollerante” (Bhagavad
Gita 12,13).
Non
concepire inimicizia per nessun essere vivente
Nei
versi seguenti della Bhagavad Gita (12,13) si
ricorda quali sono le qualità di un autentico uomo di fede:
la libertà spirituale, l’amicizia verso tutti, la
tolleranza, la serenità. Chi è devoto a tali principi non
è per nessuno causa di pena e non è osteggiato da nessuno;
le sue azioni sono pure ed esenti dalle passioni, non si
perde nei sogni ma sa come agire nella vita.
“Colui
che non concepisce inimicizia per alcun essere vivente, che
nutre sentimenti amichevoli e di compassione, che è libero
da egoismo ed egocentrismo, che ha un identico equilibrio
nel piacere e nel dolore, che è tollerante, che è sempre
soddisfatto, che ha lo spirito dòmo, che è fermamente
risoluto, che ha la mente e l’intelletto su di me fissi,
lui appunto, che è a me devoto, mi è caro.”
Bhagavad Gita (12,13)
Il Salmo del pellegrino (Salmo
LXIII di Tukaram)
Tukaram
è un mistico illetterato della prima metà del XVII secolo
che apparteneva alla casta degli shudras
(l’ultima casta, quella degli schiavi). Di lui possediamo,
grazie alle trascrizioni dei suoi discepoli, dei salmi e dei
cantici che si possono annoverare tra i più belli della
letteratura hindù. Egli compose anche dei cantici destinati
ad accompagnare i pellegrinaggi verso Pandharpur, il luogo
in cui Krishna si era manifestato sotto forma di un bambino;
pellegrinaggi che egli contribuì grandemente a sviluppare.
La divinità è qui presentata come tutrice del pellegrino.
Dovunque io vada, tu sei il mio compagno
che mi tiene la mano e mi conduce.
Su questa strada in cui cammino,
tu sei il mio solo sostegno.
Al mio fianco tu porti il mio fardello.
Lungo il cammino, se io devìo
Tu mi correggi:
Tu hai rotto le mie resistenze,
o Dio, tu mi hai spinto in avanti.
Tutti gli esseri, tutti gli uomini
sono divenuti i miei bene amati fratelli.
Ora, la tua gioia mi penetra e mi circonda,
dice Tukaram,
sono come un bambino che gioca in una festa.
(da TUKARAM, Salmi
del pellegrino, Ed. Connaissance
de l’Orient, Gallimard, 1956)
BUDDISMO
Nel
Buddismo la tolleranza e il rispetto verso il prossimo anche
se straniero sono così radicali e praticati da
rappresentare le virtù principali in cui si riconoscono i
buddisti di tutto il mondo. Accoglienza e tolleranza sono
quindi aspetti molto evidenti di questa cultura e i testi
buddisti brulicano di racconti che mostrano l’importanza
assunta da questi valori.
Essi si fondano sul principio buddista dell’unità
dell’universo: è la medesima vita ad animare tutti gli
esseri viventi e l’aggressione di uno di questi equivale
ad aggredire se stessi. Al contrario, quando un solo essere
giunge all’illuminazione, ne trae vantaggio il cosmo
intero. Lo strumento fondamentale è l’esercizio della
compassione che consente l’accoglienza e la cura dello
straniero così come di ogni essere vivente.
Questo principio dell’accoglienza, sostiene il Dalai Lama,
deve animare anche il dialogo tra le religioni che sono in
prima fila per insegnare a sostenere ogni forma di
solidarietà e compassione.
«Rendere alle altre comunità
gli onori opportuni»
Già nel III secolo a.C.
l’imperatore Ashoka, contemporaneamente all’invio di
missionari sia nel sud (a Ceylon e in Birmania) che nelle
regioni nord occidentali dell’India, predicò una
tolleranza radicale nei confronti di tutte le comunità e le
altre dottrine. Ecco
come si esprimeva: “Tutte
le comunità religiose si propongono come meta il controllo
dei sensi e la purezza dell’anima […]. Il Bene è la
spina dorsale di tutte le comunità […]. Lo sviluppo di
tutte le comunità può avvenire, in effetti, in molte
maniere, ma per tutte c’è una medesima radice: è il
controllo del linguaggio, è la capacità di non celebrare
la propria comunità a scapito delle altre […]. Bisogna,
al contrario, rendere alle altre comunità gli onori
opportuni, in ogni circostanza. Chiunque agisca così fa
prosperare la propria comunità e si rende utile per le
altre. Che tutti aspirino ad ascoltare ed imparare il bene
gli uni dagli altri”.
(da H. ARVON, Le
buddhisme, P.U.F., Paris, 1951, pp.
85-86)
Il
Dalai Lama, afferma che la prima condizione necessaria al
dialogo tra le religioni è il rispetto delle differenze.
Bisogna dunque manifestare interesse per le convinzioni
religiose degli altri, tanto più quando sono totalmente
estranee alle nostre.
“Il mio messaggio per tutti è: l’amore del prossimo, la bontà e la
compassione. Si tratta, io credo, del punto essenziale e
universale predicato da tutte le religioni. Malgrado la
presenza di alcune divergenze nelle prospettive filosofiche,
noi possiamo stabilire un’armonia tra tutte le tradizioni
spirituali sulla base di quei tratti comuni che sono
l’amore, la bontà e il perdono. Insisto molto su questo
punto per il quale dedico molte delle mie energie”.
(da
DALAI-LAMA, Au-delà
des dogmes,
Parigi, 1994)
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Alberto Pisci
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