Piaccia
o non piaccia, la nostra è già una società multietnica
e questo carattere è destinato a rafforzarsi nei prossimi
decenni – Una realtà che intimorisce anche perché
nelle comunità immigrate, economicamente e socialmente
sfavorite, il tasso di criminalità è più alto della
media – Di qui una gamma di reazioni che vanno
dall’intolleranza alla xenofobia – Alla scuola il
compito di gestire con lucidità un problema che la
politica e i media trattano spesso in modo irrazionale
Diceva il cancelliere imperiale Otto von Bismarck, che
di queste cose s’intendeva assai, che non si sparano mai
tante bugie come prima delle elezioni, durante la guerra e
dopo la caccia. In campagna elettorale si dicono molte cose
che si è soliti considerare con una certa indulgenza. Ma
quando un oratore proclama di non voler vivere in
un’Italia multietnica, e questo oratore è il presidente
del consiglio, si rende necessaria qualche messa a punto.
L’Italia, multietnica lo è da un bel po’ di tempo, lo
sarà sempre di più e non cesserà di esserlo. Del resto è
lo stesso presidente a confermarlo, in un’altra occasione
elettorale, quando racconta di avere fatto un giretto nel
centro di Milano e di avere avuto l’impressione di
trovarsi in una città africana. Va bene, si trattava di
procurare un po’ di voti a un partito alleato che sui temi
dell’immigrazione, e soprattutto sui problemi di sicurezza
legati a questo fenomeno, ha costruito le sue fortune
politiche.
Ora che la missione è compiuta, e che quel partito può
presentarsi come il vero vincitore delle elezioni, è tempo
di ragionare a mente fredda sulla sfida epocale che ci sta
di fronte. Dunque, l’Italia è un paese multietnico, la
percentuale delle origini straniere nella demografia
nazionale è in costante aumento, così come il tasso di
natalità nelle comunità immigrate. Ne consegue che, per
quanto si cerchi giustamente di disciplinare i flussi e di
respingere al mittente chi non ha titolo per insediarsi da
noi, questa presenza è ormai saldamente iscritta nella
nostra storia e nel nostro paesaggio.
Piaccia o no, abbiamo e avremo sempre più lavoratori
stranieri, sempre più imprenditori immigrati, e sempre più
bambini delle più svariate provenienze nelle nostre scuole.
Qualcuno insiste anche su un altro punto: sempre più reati
commessi da stranieri. È vero anche questo e fa parte del
fenomeno: ovunque nel mondo e sempre nella storia i gruppi
economicamente e socialmente svantaggiati hanno prodotto più
della media comportamenti devianti. Questo determina allarme
sociale, chiusure pregiudiziali, intolleranza, xenofobia,
richieste di provvedimenti incisivi e decisivi. Soprattutto
in tempi di crisi economica determina anche successo
elettorale, come sta accadendo un po’ dappertutto in
Europa, per chi grida alto e forte “dagli allo
straniero”.
L’insofferenza verso una realtà che alcuni vivono
come un inquinamento demografico si è nutrita a lungo di
ragioni religiose. L’invasione islamica, lo scontro delle
culture, la pretesa di erigere nelle nostre città moschee e
minareti, certi sinistri collegamenti con il grande
terrorismo internazionale alimentato dal fondamentalismo
musulmano. Ma le statistiche ci dicono che la componente
islamica nelle comunità immigrate non arriva a un terzo, e
che la maggior parte dei nuovi arrivati proviene da paesi di
tradizione cristiana, come quelli dell’Europa orientale, o
dell’America Latina, o di certe parti dell’Asia come le
Filippine. Ma non per questo vengono più facilmente
accettati, da chi soffre la sindrome dell’invasione.
Sui banchi delle nostre scuole, i bambini stranieri si
trovano spesso in difficoltà, e a volte proprio per questo
assumono atteggiamenti di sfida. Spesso non padroneggiano la
nostra lingua, a volte i loro compagni italiani, portatori
di un pregiudizio assorbito fra le pareti domestiche, li
considerano con sospetto se non con ostilità. C’è chi
vorrebbe per i suoi bambini classi di soli italiani, e gli
stranieri raggruppati in classi speciali. Ma provate a
immaginare che cosa potrebbe uscire, da quei ghetti.
Fortunatamente c’è anche chi raccoglie la sfida in modo
positivo: ci sono maestri che sanno trarre il meglio dalle
loro aule multietniche, per esempio invitando gli alunni
stranieri a parlare dei loro paesi d’origine, delle loro
tradizioni, della loro lingua. Creando così una didattica
dal vivo della geografia e della storia.
Le iniziative di questi docenti tranciano di netto
l’alternativa che si pone davanti alla scuola alle prese
con una simile scommessa: se cioè quelle diversità vadano
annullate nell’assimilazione o se invece sia opportuno
esaltarle nel rispetto reciproco. Nel primo caso abbiamo il
modello francese, quello che al tempo delle colonie
obbligava il piccolo africano a imparare la storia su un
testo il cui primo capitolo s’intitolava Nos ancêtres
les Gaulois, I Galli, nostri antenati.
Capitolo illustrato dalla figura di un guerriero pallido e
biondo, che se fu capace di tener testa alle legioni romane
non per questo era proprio familiare dalle parti dei
tropici. Fu un’assimilazione totale, che almeno aveva il
pregio di essere immune da pulsioni razziste, tanto che
culminò nella cooptazione di ministri africani nel governo
di Parigi. Il secondo caso richiama invece la prassi
coloniale britannica, massimo rispetto ma ognuno al suo
posto.
Oggi non è più tempo di colonie e la questione si
pone in termini nuovi. Assimilare significa negare
un’identità, o parte di un’identità: dunque
incoraggiare risentimenti e rancori. Accogliere senza
cancellare la cultura d’origine, affiancarla piuttosto
alla nostra in cui gli ospiti stranieri si sono catapultati,
secondo un’interazione di esperienze all’insegna di un
civile rispetto reciproco, comporta invece la costruzione di
una società sfaccettata e ricca di potenzialità. Piuttosto
che di multicultura, dovremmo parlare d’intercultura. Si
tratta di aprire spazi alle realtà lontane, ciò che non
comporta ovviamente la rinuncia a lasciare che la nostra
identità si collochi naturalmente al centro
dell’attenzione. Certo non è facile, ma è precisamente
ciò che fa quel maestro che nella sua classe arcobaleno
indica un punto della carta geografica e annuncia: oggi
parleremo dell’Ecuador, il paese dal qualche proviene il
nostro José… José, vieni a raccontarci qualcosa della
tua terra… Lo sapete ragazzi quanto è distante
l’Ecuador dall’Italia?
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Alfredo Venturi
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