Un
ricordo di quando l’uomo della provvidenza visitava le
più domestiche fra le sue colonie, quelle placidamente
allineate lungo il litorale romagnolo, e i piccoli
indigeni lo salutavano con la bandierina e il braccio teso
– Intanto le maestre curavano l’onda dei loro capelli
ispirandosi al moto del mare: il primo, non l’altro,
capriccioso e intemperante, la pecora blu della famiglia
- Percorro
tutta la
- navata
della
- spiaggia
/ mi
- inginocchio
in
- prima
fila nella
- sabbia
/ ascolto la
- voce
delle onde: / è
- il
mare l'unico dio
- che
mi risponde
Tiro
fuori dal telefonino la poesia così com'è. Raggrinzita
come un papavero dentro il suo astuccio verde. Rattrappita
per il freddo perché è bagnata. Cerco di coprirla con
l'accappatoio bianco come
un foglio di carta. Ciascuno deve distenderla al
sole. Darle il verso giusto.
Questa
fantastica in esercizio ha inizio in una colonia
italiana, la "Dalmine", acquartierata tra
Cattolica e Bellaria. Una cattolicissima colonia piena di
bambini e bambine. Oggi chi lo direbbe che la riviera
romagnola era considerata allora una colonia? L'uomo della
provvidenza era al potere da più di dieci anni: sorgeva
dalle acque del Golfo di Venezia con il suo motoscafo e
salutava i bambini. E le maestre facevano agitare le
bandierine tricolori alle bambine, che le stringevano con i
ditini nelle loro manine: pugno chiuso e mano tesa nel
saluto romano. E le coste dell'Adriatico, in quel tratto di
mare ritratto tra Cattolica e Belleria, avevano le dune di
sabbia alte, belle roventi... altro che in Africa! E in
Libia avevamo altrettante colonie, in Somalia e in Eritrea.
Insomma, c'era l'impero. E le maestre si facevano le onde
come tutte le giovani italiane, arricciandosi i capelli coi
ferri caldi, facendosi bionde come le tedesche a furia
d'acqua ossigenata... Come era bello prendere una boccata
d'ossigeno tra quei capelli fitti come la Selva Nera! Così
le maestre cantavano:
- Io
c'ho i capelli con le onde
- fanno
le onde così forti, così alte
- che
ogni tanto il mio cervello va per mare
- anche
se non vuole
- lo
prendono su e lo portano al largo
- poi
lo sbattono sugli scogli
-
- Quando
ho i capelli così mossi è un pericolo
- perché
io non so chi sa e chi non sa nuotare
- così
a tutti quelli che incontro
- grido
ALT! Non toccarmi i capelli!
- Sei
la solita esagerata dice mia madre
- che
mi è sempre contraria
- e
preferisce che io non abbia niente di speciale
- Ma
si sbaglia, io non esagero
- ieri
i miei capelli erano così mossi che li
hanno detti per radio
- tra
il mar ligure e il mare tirreno
- il colonnello
meteorologico mi ha nominata:
- onde
altissime nei capelli di me
- specie
sul ciuffo
- A
quel punto mi sono addormentata
- con
nelle orecchie
- lo
schiaffo dell'onda della parola "ciuffo"
I
miei capelli fanno le onde
- ma
non sono azzurre
- sembrano
più grige
- da
brutto tempo
-
- Quando
vado da lui il mio parrucchiere
- si
mette la cerata per ripararsi
- –
vuole che glieli stiro? mi dice
- –
no, dico io
- si
è mai visto stirare le onde?
- aspetto
che la testa si calmi, dico:
"Se
va giù il vento"
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- Dove
sono andate tutte le lacrime che abbiamo pianto?
- Perdute,
mute
- Dovrebbero
raccogliersi in grandi nuvole personali:
- che
a tutti siano visibili
- sempre
- i
nostri temporali
È
sotto gli occhi di tutti, anzi, sopra, il secondo mare.
Però nessuno lo vede perché il secondo mare non sta
al suo posto, non è diligente come il primo mare che se ne
sta buono e bravo nella sua smisurata scatola senza
coperchio. Il secondo mare è pazzo, è la pecora blu
della famiglia e dopo aver tempestato, inondato e
(a)mareggiato per millenni, un giorno ha preso tutte le sue
gocce e è scappato di casa.
Da
allora, milioni di anni fa, molto prima che l'uomo della
provvidenza comparisse sulle sue spiagge, conduce una vita
dissoluta, ai quattro venti, con tutte le sue acque
sparpagliate, scoordinate, condensate, precipitate. Come se
non bastasse, il secondo mare ha perso il suo moto
ondoso. E questo è molto grave, perché sono le onde
l'inequivocabile segno del benessere mentale del mare.
Un
mare in buono stato, in prossimità del limite, del confine
con la terra, frena. E in questo frenare si accartoccia, si
involve, si monta in collo, spinto dalla cinetica e
dall'orgoglio, fino a fermarsi del tutto solo all'ultimo
istante. A un pelo dallo sfracellarsi sul concetto di solido
insito nella terraferma, lui così aderente al concetto di
liquido.
Va
a fermarsi in quel grazioso inchino che è l'onda la quale
contemporaneamente avanza e arretra, che spaventa la terra
portando in avanti le possenti spalle come per abbatterla e
insieme ne è spaventata. E così retrocede riconoscendo la
superiorità dei chili sui litri, degli elefanti sulle
alghe, del marrone sul celeste... Il Mar Rone, che marrano!
Ma
altri ettolitri d'acqua si tuffano in avanti a minacciare e
arretrare, ancora e ancora, instancabilmente. In attesa che
capiti il momento (e – capiterà capiterà! – si ripete
nelle stanze segrete degli abissi dove si governa il furore
delle acque) in cui la terra sarà distratta e la riva
girata indietro e la battigia addormentata e allora il mare
con un ruggito si butterà avanti e sbranerà un grosso
boccone di terra e la nasconderà sotto le sue onde. Poi
subito riabbasserà la testa e fingerà amicizia e
colleganza, tregua e rispetto. Brillerà sotto la luna calmo
e chiaro e porterà conchiglie.
Il
secondo mare, comunque, è la pioggia.
- Filippo
Nibbi, Giovanna De Carli
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