Il
nuovo ministro dell’istruzione, Mariastella Gelmini,
rilancia il tema delle lezioni di civismo, presenti nel
nostro ordinamento scolastico ormai da mezzo secolo ma
finora applicate soltanto sporadicamente e senza chiare
definizioni operative – In effetti non è facile
affrontare un tema come questo in un paese che sacrifica
sempre più lo studio della storia, che dell’educazione
civica dovrebbe essere il punto di riferimento – Per non
parlare della quasi totale assenza del diritto dai
curricoli
Negli Stati Uniti d’America e in altri paesi
anglofoni si chiamano lezioni di citizenship, di
cittadinanza. Da noi è la fantomatica ora di educazione
civica. In che cosa debba consistere esattamente nessuno lo
ha mai chiarito, ma di fatto esiste nel nostro ordinamento
scolastico ormai da cinquant’anni, da quel 1958 in cui
l’allora ministro della pubblica istruzione, Aldo Moro,
introdusse nei curricoli il nuovo insegnamento. È passato
dunque mezzo secolo, il ministero della pubblica istruzione
si è una volta ancora trasformato nel ministero
dell’istruzione, università e ricerca e la nuova
titolare, Mariastella Gelmini, annuncia il proposito di
rilanciarlo. Lo fa in un luogo e in un’occasione
significativi: Palermo, 23 maggio, anniversario della strage
di Capaci che vide il giudice Giovanni Falcone massacrato
dalla mafia con la moglie e gli uomini di scorta.
Niente potrebbe essere più efficace di quel ricordo
sanguinoso, per affermare l’opportunità e anzi la
necessità di fare dell’educazione civica una materia di
studio. Purtroppo è proprio l’ambiguità
dell’esperienza di questi cinquant’anni a complicare il
discorso. Che cosa significa insegnare educazione civica? È
possibile impartire lezioni di cittadinanza? In che cosa
dovrebbero consistere, oltre che nel distribuire copie della
Costituzione? È compatibile l’enfasi sulle virtù del
civismo con la semplificazione nelle tre famose I, inglese
internet impresa, dell’assunto didattico nazionale? Su
questi punti si attendono lumi dal ministero di Viale
Trastevere.
Sembra evidente che l’impostazione di una simile
disciplina deve fare i conti con due materie, la storia e il
diritto, che non godono certo i favori dell’attualità
scolastica. D’altra parte, insegnare la Costituzione senza
metterla in rapporto con gli eventi che l’hanno fatta
maturare, significherebbe ridurla a una serie di precetti,
che magari un ragazzo meno impaziente dei suoi compagni può
anche mandare a memoria. Ma difficilmente li sentirà come
valori, perché questo presuppone una conoscenza almeno
schematica del grande percorso storico di cui la
Costituzione è stata un punto d’arrivo: dal diritto
romano alla Magna Charta, dalla dichiarazione dei
diritti dell’uomo alla negazione di tutto questo da parte
dei totalitarismi del Novecento.
Ci sono anche condizionamenti di tipo contingente e
caratteriale: come si fa a trasformare in buon cittadino un
ragazzo alle prese con il fenomeno del bullismo? Quale
fiducia potrà mai avere nella legalità chi cresce
all’insegna della legge truce del più forte? Il ministro
si rende perfettamente conto di questo, se è vero che nella
stessa occasione in cui ha ripreso il tema dell’educazione
civica ha anche annunciato la costituzione di “una task
force per risposte non banali al problema del bullismo”.
Ecco, combattere questa forma di prepotenza che dilaga nel
mondo giovanile dimostrandone la tipica funzione di maschera
dell’insicurezza: questo potrebbe essere l’avvio di un
discorso pratico, prima ancora che didattico, sul civismo.
Ma se non si riuscirà a fondare la qualità di
cittadini su un senso di comunità scaturito dalla storia,
nella percezione giovanile rimarrà sempre qualcosa di
estraneo, o di artificioso. Comunità locale, o regionale,
se proprio si vuole evitare l’enfasi nazionalistica: visto
che non siamo negli Stati Uniti, dove i ragazzi cantano
l’inno con la mano sul cuore, ma nel paese in cui soltanto
la nazionale di calcio sembra offrire un legame più o meno
coincidente con l’intero territorio della repubblica.
-
a. v.
-
|