FOGLIO LAPIS - GIUGNO - 2007

 
 

Sono passati quarant’anni da quel 1967 che vide la pubblicazione della “Lettera a una professoressa” e, un mese più tardi, la morte dell’autore – Proprio nell’imminenza di queste ricorrenze è venuta a mancare la docente che ispirò il libro-denuncia – Aveva ripetutamente bocciato due alunni provenienti da Barbiana, innescando la reazione del priore contro la scuola “classista” – Due visioni entrambe datate, una scuola alla ricerca di un telaio concettuale

 

Quando don Lorenzo Milani scrisse la “Lettera a una professoressa” aveva bene in mente la destinataria di quel suo celeberrimo sfogo, anche se non la conosceva personalmente. Si trattava di Vera Spadoni Salvanti, la docente di un istituto magistrale di Firenze che per due volte consecutive aveva bocciato due ragazzi provenienti dalla scuola di Barbiana. Lo aveva fatto perché li aveva trovati carenti di basi culturali. La professoressa è morta lo scorso aprile all’età di 85 anni, dopo una lunga esperienza didattica nelle scuole fiorentine: le magistrali e poi il liceo “Leonardo da Vinci”. La “Lettera” a lei impersonalmente indirizzata prendeva di mira la scuola classista, borghese, meritocratica e competitiva che puntando sulla tradizionale somministrazione di un’infarinatura umanistica escludeva di fatto la maggior parte degli alunni provenienti dai ceti popolari, incapaci di accedere a quel sapere, di capirlo, di servirsene, di trovarlo utile o interessante. Questa esclusione si traduceva in un alto tasso di dispersione: i tanti ragazzi che la scuola perde, secondo le celebri parole di don Milani. Si alzava infatti una barriera fra le classi, che cristallizzava le divisioni sociali. Basta dunque con Foscolo, con l’Eneide, con i riti polverosi della mitologia: a che serve conoscere la progenie di Zeus? Meglio inserire nel programma, arrivava a sostenere il priore di Barbiana, il contratto dei metalmeccanici.

Sono passati quarant’anni da quella pubblicazione (e anche dalla morte di don Milani, che la seguì di appena un mese nel giugno del 1967), e oggi Michele Gesualdi, presidente della fondazione che porta il nome del priore di Barbiana e a suo tempo allievo nella celebre scuola del Mugello, ammette in un’intervista al quotidiano “La Nazione” che dal suo punto di vista la professoressa non aveva torto “quando parlava di noi come ragazzi senza basi”. Ma quel modo di concepire la scuola, aggiunge Gesualdi, “appariva datato e si scontrava con la realtà sociale”. Infatti la vecchia scuola elitaria faceva cortocircuito con la nuova utenza di massa: fenomeno comune a tutti i paesi, al quale si è risposto dappertutto proprio secondo l’ottica di don Milani, cioè eliminando i fronzoli classici, riducendo il livello dei requisiti culturali necessari per procedere nei gradi dell’istruzione. Anche se non fino al punto, che si sappia, di sostituire ai versi dell’Eneide il testo di un contratto di lavoro.

Non c’è dubbio, era effettivamente datata la scuola di classe, se così vogliamo chiamarla, arrivata pressoché intatta dalla vecchia Italia rurale dei primi decenni del Novecento fino ai tumultuosi anni Sessanta. Ma appare altrettanto datata, oggi, la visione del priore di Barbiana, o almeno l’enfasi volutamente provocatoria con cui fu proposta e l’interpretazione letterale con cui fu trasformata in manifesto del rinnovamento. Infatti i risultati della cosiddetta “scuola democratica” sono stati tutt’altro che confortanti. Hanno dimostrato che un livellamento verso il basso attraverso l’accantonamento di quel poco d’istruzione umanistica non raggiunge l’obiettivo della parità sociale, perché non può che lasciare inalterati i molti svantaggi dei ragazzi provenienti dalle famiglie meno fortunate, e produce una sorta di omogeneizzazione su livelli assolutamente insoddisfacenti. La diffusa ignoranza di conoscenze elementari, la scarsissima propensione alla lettura, l’idiosincrasia generalizzata per una scrittura decente sono sotto gli occhi di tutti: e in qualche misura sono proprio il desolante prodotto di quel tipo di scuola. Queste situazioni non soltanto peggiorano la qualità della vita dei singoli, arrivano a incidere negativamente sulla capacità del paese, nel suo insieme, di corrispondere alle esigenze della modernità.

Il confronto internazionale è in proposito illuminante. Le indagini PISA sul rendimento scolastico nel mondo sviluppato confermano periodicamente il vantaggio di certi paesi, come la Finlandia o il Giappone, nei quali la società è particolarmente compatta, a tutto svantaggio di paesi come gli Stati Uniti o la Germania, nei quali invece la composizione sociale è più variegata includendo gruppi disagiati dal punto di vista economico e culturale. Che cosa significa questo? Precisamente che dove alla presenza di quei gruppi si è risposto con programmi scolastici annacquati, la qualità complessiva dell’istruzione si è irrimediabilmente abbassata. In Germania, dove il verdetto PISA ha fortemente impressionato un’opinione pubblica non abituata a considerare il proprio paese in fondo alle classifiche internazionali, si discute con molta partecipazione di pedagogia e programmi didattici. In Italia, un paese ancor più penalizzato dalle statistiche comparate, si sono succedute due inconcludenti riforme scolastiche e il discorso rimane drammaticamente aperto.

La questione va collocata al vertice delle priorità nazionali, e vanno onorate insieme la generosa utopia egualitaria di don Milani e la necessità di restituire alla scuola un vigoroso slancio educativo capace di livellare sì, ma verso l’alto, le disparità iniziali dell’utenza. Che oggi, rispetto agli anni di Barbiana, è caratterizzata da un elemento critico in più, la sempre più numerosa presenza di alunni stranieri. Un’altra classe disagiata da aggiungersi a quella che stava tanto a cuore all’autore di “Lettera a una professoressa”, e che se il priore fosse ancora fra noi sarebbe certamente in cima ai suoi pensieri. È davvero un compito arduo organizzare la scuola in modo da renderla capace di rispondere a simili sfide, ma in compenso è abbastanza facile individuare la strada giusta che è urgente imboccare con determinazione. Bisogna mettere da parte sia le pregiudiziali ideologiche, sia il perseguimento di utilità immediate connesse con le esigenze del mercato, e dare finalmente la parola alla scienza, che è perfettamente in grado di fornire alle istituzioni educative il necessario quadro concettuale.

 

                                                 Alfredo Venturi 
                                         

 

   


                                                  

 
 

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