Sono passati quarant’anni da quel 1967 che vide la
pubblicazione della “Lettera a una professoressa” e,
un mese più tardi, la morte dell’autore – Proprio
nell’imminenza di queste ricorrenze è venuta a mancare
la docente che ispirò il libro-denuncia – Aveva
ripetutamente bocciato due alunni provenienti da Barbiana,
innescando la reazione del priore contro la scuola
“classista” – Due visioni entrambe datate, una
scuola alla ricerca di un telaio concettuale
Quando
don Lorenzo Milani scrisse la “Lettera a una
professoressa” aveva bene in mente la destinataria di quel
suo celeberrimo sfogo, anche se non la conosceva
personalmente. Si trattava di Vera Spadoni Salvanti, la
docente di un istituto magistrale di Firenze che per due
volte consecutive aveva bocciato due ragazzi provenienti
dalla scuola di Barbiana. Lo aveva fatto perché li aveva
trovati carenti di basi culturali. La professoressa è morta
lo scorso aprile all’età di 85 anni, dopo una lunga
esperienza didattica nelle scuole fiorentine: le magistrali
e poi il liceo “Leonardo da Vinci”. La “Lettera” a
lei impersonalmente indirizzata prendeva di mira la scuola
classista, borghese, meritocratica e competitiva che
puntando sulla tradizionale somministrazione di
un’infarinatura umanistica escludeva di fatto la maggior
parte degli alunni provenienti dai ceti popolari, incapaci
di accedere a quel sapere, di capirlo, di servirsene, di
trovarlo utile o interessante. Questa esclusione si
traduceva in un alto tasso di dispersione: i tanti ragazzi
che la scuola perde, secondo le celebri parole di don Milani.
Si alzava infatti una barriera fra le classi, che
cristallizzava le divisioni sociali. Basta dunque con
Foscolo, con l’Eneide, con i riti polverosi della
mitologia: a che serve conoscere la progenie di Zeus? Meglio
inserire nel programma, arrivava a sostenere il priore di
Barbiana, il contratto dei metalmeccanici.
Sono
passati quarant’anni da quella pubblicazione (e anche
dalla morte di don Milani, che la seguì di appena un mese
nel giugno del 1967), e oggi Michele Gesualdi, presidente
della fondazione che porta il nome del priore di Barbiana e
a suo tempo allievo nella celebre scuola del Mugello,
ammette in un’intervista al quotidiano “La Nazione”
che dal suo punto di vista la professoressa non aveva torto
“quando parlava di noi come ragazzi senza basi”. Ma quel
modo di concepire la scuola, aggiunge Gesualdi, “appariva
datato e si scontrava con la realtà sociale”. Infatti la
vecchia scuola elitaria faceva cortocircuito con la nuova
utenza di massa: fenomeno comune a tutti i paesi, al quale
si è risposto dappertutto proprio secondo l’ottica di don
Milani, cioè eliminando i fronzoli classici, riducendo il
livello dei requisiti culturali necessari per procedere nei
gradi dell’istruzione. Anche se non fino al punto, che si
sappia, di sostituire ai versi dell’Eneide il testo di un
contratto di lavoro.
Non
c’è dubbio, era effettivamente datata la scuola di
classe, se così vogliamo chiamarla, arrivata pressoché
intatta dalla vecchia Italia rurale dei primi decenni del
Novecento fino ai tumultuosi anni Sessanta. Ma appare
altrettanto datata, oggi, la visione del priore di Barbiana,
o almeno l’enfasi volutamente provocatoria con cui fu
proposta e l’interpretazione letterale con cui fu
trasformata in manifesto del rinnovamento. Infatti i
risultati della cosiddetta “scuola democratica” sono
stati tutt’altro che confortanti. Hanno dimostrato che un
livellamento verso il basso attraverso l’accantonamento di
quel poco d’istruzione umanistica non raggiunge
l’obiettivo della parità sociale, perché non può che
lasciare inalterati i molti svantaggi dei ragazzi
provenienti dalle famiglie meno fortunate, e produce una
sorta di omogeneizzazione su livelli assolutamente
insoddisfacenti. La diffusa ignoranza di conoscenze
elementari, la scarsissima propensione alla lettura,
l’idiosincrasia generalizzata per una scrittura decente
sono sotto gli occhi di tutti: e in qualche misura sono
proprio il desolante prodotto di quel tipo di scuola. Queste
situazioni non soltanto peggiorano la qualità della vita
dei singoli, arrivano a incidere negativamente sulla capacità
del paese, nel suo insieme, di corrispondere alle esigenze
della modernità.
Il
confronto internazionale è in proposito illuminante. Le
indagini PISA sul rendimento scolastico nel mondo sviluppato
confermano periodicamente il vantaggio di certi paesi, come
la Finlandia o il Giappone, nei quali la società è
particolarmente compatta, a tutto svantaggio di paesi come
gli Stati Uniti o la Germania, nei quali invece la
composizione sociale è più variegata includendo gruppi
disagiati dal punto di vista economico e culturale. Che cosa
significa questo? Precisamente che dove alla presenza di
quei gruppi si è risposto con programmi scolastici
annacquati, la qualità complessiva dell’istruzione si è
irrimediabilmente abbassata. In Germania, dove il verdetto
PISA ha fortemente impressionato un’opinione pubblica non
abituata a considerare il proprio paese in fondo alle
classifiche internazionali, si discute con molta
partecipazione di pedagogia e programmi didattici. In
Italia, un paese ancor più penalizzato dalle statistiche
comparate, si sono succedute due inconcludenti riforme
scolastiche e il discorso rimane drammaticamente aperto.
La
questione va collocata al vertice delle priorità nazionali,
e vanno onorate insieme la generosa utopia egualitaria di
don Milani e la necessità di restituire alla scuola un
vigoroso slancio educativo capace di livellare sì, ma verso
l’alto, le disparità iniziali dell’utenza. Che oggi,
rispetto agli anni di Barbiana, è caratterizzata da un
elemento critico in più, la sempre più numerosa presenza
di alunni stranieri. Un’altra classe disagiata da
aggiungersi a quella che stava tanto a cuore all’autore di
“Lettera a una professoressa”, e che se il priore fosse
ancora fra noi sarebbe certamente in cima ai suoi pensieri.
È davvero un compito arduo organizzare la scuola in modo da
renderla capace di rispondere a simili sfide, ma in compenso
è abbastanza facile individuare la strada giusta che è
urgente imboccare con determinazione. Bisogna mettere da
parte sia le pregiudiziali ideologiche, sia il perseguimento
di utilità immediate connesse con le esigenze del mercato,
e dare finalmente la parola alla scienza, che è
perfettamente in grado di fornire alle istituzioni educative
il necessario quadro concettuale.
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Alfredo Venturi
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