FOGLIO LAPIS - GIUGNO 2005

 
 

Un’inchiesta internazionale condotta su un campione di laureati e diplomati rivela nel nostro paese un 67 per cento di profondamente insoddisfatti – Soprattutto sull’università il giudizio è negativo: non serve a creare competenze, questa l’opinione corrente – Soltanto il Portogallo, fra i paesi coinvolti nell’indagine, presenta una valutazione peggiore – Il confronto della situazione europea con la realtà educativa americana: oltre un anno d’istruzione in meno

 

I paesi dell’Ocse dedicano mediamente all’istruzione il cinque per cento del prodotto interno lordo, ma i risultati di questo sforzo finanziario e organizzativo sono in molti casi assai deludenti o almeno controversi. Lo confermano i risultati di un’inchiesta condotta dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti, sul tema Educazione e formazione in Europa, interpellando un campione internazionale di laureati e diplomati. È soprattutto in Portogallo e in Italia che le cose vanno male, o per essere più precisi va male la valutazione dell’esperienza educativa da parte di chi, concluso il periodo della formazione e approdato al mondo del lavoro, ha potuto verificare l’utilità della scuola in rapporto alle competenze professionali acquisite. Insomma, tutti quegli anni di scuola sono serviti ad affrontare con disinvoltura e capacità la sfida professionale? Il 67 per cento degli italiani, e il 71 per cento dei portoghesi, risponde di no: dichiara infatti che il percorso scolastico non ha fornito competenze utili per svolgere il proprio lavoro. Nel mirino dei laureati italiani è soprattutto l’università, vista come un luogo privo di un corretto rapporto con la concretezza del mondo produttivo (particolarmente criticate le facoltà umanistiche); è invece meno severo il giudizio sulla scuola elementare e sulla secondaria.

Nel confronto internazionale, note deludenti anche per la Grecia (54 per cento di insoddisfatti della propria esperienza educativa), la Francia (47 per cento) e la Spagna (46 per cento). Al capo opposto dell’arco dei giudizi la Germania, dove solo il 24 per cento degli interpellati si proclama deluso dalla scuola in materia di acquisizione di competenze utili al lavoro, il Belgio e la Danimarca (27 per cento) e l’Austria (30 per cento). Un altro elemento negativo contraddistingue la situazione italiana nel confronto internazionale: la durata media dell’istruzione, che nell’insieme dell’Unione europea raggiunge 11,6 anni, da noi si ferma a 9,4.

Anche il dato complessivo europeo, del resto, risulta al di sotto di quello registrato negli Stati Uniti, dove il percorso educativo medio dura 12,7 anni. La differenza è legata al fatto che oltre Atlantico l’istruzione universitaria riguarda il 29 per cento della popolazione, mentre in Europa non va oltre il 14,2. Gli analisti della Fondazione Debenedetti individuano nell’intervento privato il segreto dei successi americani in materia di istruzione superiore. La quota di Pil destinata all’università dai bilanci pubblici è infatti la stessa, per esempio, in Francia e negli Stati Uniti (1 per cento), ma mentre in America un flusso cospicuo di finanziamenti privati porta l’insieme delle risorse al 2,29 per cento del prodotto, per le università francesi i contributi non pubblici si limitano a far salire la quota complessiva all’1,13 per cento. Non è difficile convincersi che sono proprio le qualità pragmatiche dell’istruzione superiore americana a smuovere gli investimenti privati, non a caso provenienti in massima parte dal mondo produttivo.

Nel mondo globalizzato di oggi, all’offensiva economica dei nuovi attori emergenti come Cina e India, fondata sulla produzione a basso costo di prodotti ad alta intensità di manodopera, l’Occidente può soltanto rispondere, fanno notare gli specialisti della Fondazione, puntando e investendo sulla risorsa del capitale umano. In questo ambito il confronto Europa-America ha evidentemente un ruolo centrale. Rispetto a mezzo secolo fa, i paesi europei hanno visto allungarsi di tre anni e mezzo la durata media dell’istruzione, recuperando così metà del divario con gli Stati Uniti. Ma il divario resta, come si è visto, ed è ancora superiore a un anno. Mentre fra italiani e americani supera addirittura i tre anni.

Nel convegno di presentazione dei risultati di questa indagine, celebrato a Venezia all’inizio di giugno, è stato sottolineato un caratteristico punto debole nel sistema italiano dell’istruzione superiore. Si tratta dell’orientamento, che certo deve tener conto delle predisposizioni individuali, ma non può permettersi di ignorare la domanda che sale dalla società, la dura legge del mercato del lavoro e delle professioni. Molti studenti scelgono il corso di studi semplicemente sulla base dei consigli dei genitori, o inseguendo mode passeggere, o imitando l’esempio degli amici, o puntando sul minimo sforzo. Una situazione in cui, come è accaduto per l’anno accademico in corso, trentasettemila ragazzi si iscrivono alla facoltà di giurisprudenza, quattordicimila a scienze della comunicazione e soltanto milleottocento a matematica, ha evidentemente bisogno di qualche ritocco se si vuole evitare che l’università si riduca a una fabbrica di disoccupati, o di occupati che non sanno che farsene delle competenze acquisite.

 

 

                                      f.l.

Torna al Foglio Lapis giugno 2005

 

Mandaci un' E-mail!