Un’inchiesta
internazionale condotta su un campione di laureati e
diplomati rivela nel nostro paese un 67 per cento di
profondamente insoddisfatti – Soprattutto
sull’università il giudizio è negativo: non serve a
creare competenze, questa l’opinione corrente –
Soltanto il Portogallo, fra i paesi coinvolti
nell’indagine, presenta una valutazione peggiore – Il
confronto della situazione europea con la realtà
educativa americana: oltre un anno d’istruzione in meno
I
paesi dell’Ocse dedicano mediamente all’istruzione il
cinque per cento del prodotto interno lordo, ma i risultati
di questo sforzo finanziario e organizzativo sono in molti
casi assai deludenti o almeno controversi. Lo confermano i
risultati di un’inchiesta condotta dalla Fondazione
Rodolfo Debenedetti, sul tema Educazione e formazione in
Europa, interpellando un campione internazionale di laureati
e diplomati. È soprattutto in Portogallo e in Italia che le
cose vanno male, o per essere più precisi va male la
valutazione dell’esperienza educativa da parte di chi,
concluso il periodo della formazione e approdato al mondo
del lavoro, ha potuto verificare l’utilità della scuola
in rapporto alle competenze professionali acquisite.
Insomma, tutti quegli anni di scuola sono serviti ad
affrontare con disinvoltura e capacità la sfida
professionale? Il 67 per cento degli italiani, e il 71 per
cento dei portoghesi, risponde di no: dichiara infatti che
il percorso scolastico non ha fornito competenze utili per
svolgere il proprio lavoro. Nel mirino dei laureati italiani
è soprattutto l’università, vista come un luogo privo di
un corretto rapporto con la concretezza del mondo produttivo
(particolarmente criticate le facoltà umanistiche); è
invece meno severo il giudizio sulla scuola elementare e
sulla secondaria.
Nel
confronto internazionale, note deludenti anche per la Grecia
(54 per cento di insoddisfatti della propria esperienza
educativa), la Francia (47 per cento) e la Spagna (46 per
cento). Al capo opposto dell’arco dei giudizi la Germania,
dove solo il 24 per cento degli interpellati si proclama
deluso dalla scuola in materia di acquisizione di competenze
utili al lavoro, il Belgio e la Danimarca (27 per cento) e
l’Austria (30 per cento). Un altro elemento negativo
contraddistingue la situazione italiana nel confronto
internazionale: la durata media dell’istruzione, che
nell’insieme dell’Unione europea raggiunge 11,6 anni, da
noi si ferma a 9,4.
Anche
il dato complessivo europeo, del resto, risulta al di sotto
di quello registrato negli Stati Uniti, dove il percorso
educativo medio dura 12,7 anni. La differenza è legata al
fatto che oltre Atlantico l’istruzione universitaria
riguarda il 29 per cento della popolazione, mentre in Europa
non va oltre il 14,2. Gli analisti della Fondazione
Debenedetti individuano nell’intervento privato il segreto
dei successi americani in materia di istruzione superiore.
La quota di Pil destinata all’università dai bilanci
pubblici è infatti la stessa, per esempio, in Francia e
negli Stati Uniti (1 per cento), ma mentre in America un
flusso cospicuo di finanziamenti privati porta l’insieme
delle risorse al 2,29 per cento del prodotto, per le
università francesi i contributi non pubblici si limitano a
far salire la quota complessiva all’1,13 per cento. Non è
difficile convincersi che sono proprio le qualità
pragmatiche dell’istruzione superiore americana a smuovere
gli investimenti privati, non a caso provenienti in massima
parte dal mondo produttivo.
Nel
mondo globalizzato di oggi, all’offensiva economica dei
nuovi attori emergenti come Cina e India, fondata sulla
produzione a basso costo di prodotti ad alta intensità di
manodopera, l’Occidente può soltanto rispondere, fanno
notare gli specialisti della Fondazione, puntando e
investendo sulla risorsa del capitale umano. In questo
ambito il confronto Europa-America ha evidentemente un ruolo
centrale. Rispetto a mezzo secolo fa, i paesi europei hanno
visto allungarsi di tre anni e mezzo la durata media
dell’istruzione, recuperando così metà del divario con
gli Stati Uniti. Ma il divario resta, come si è visto, ed
è ancora superiore a un anno. Mentre fra italiani e
americani supera addirittura i tre anni.
Nel
convegno di presentazione dei risultati di questa indagine,
celebrato a Venezia all’inizio di giugno, è stato
sottolineato un caratteristico punto debole nel sistema
italiano dell’istruzione superiore. Si tratta
dell’orientamento, che certo deve tener conto delle
predisposizioni individuali, ma non può permettersi di
ignorare la domanda che sale dalla società, la dura legge
del mercato del lavoro e delle professioni. Molti studenti
scelgono il corso di studi semplicemente sulla base dei
consigli dei genitori, o inseguendo mode passeggere, o
imitando l’esempio degli amici, o puntando sul minimo
sforzo. Una situazione in cui, come è accaduto per l’anno
accademico in corso, trentasettemila ragazzi si iscrivono
alla facoltà di giurisprudenza, quattordicimila a scienze
della comunicazione e soltanto milleottocento a matematica,
ha evidentemente bisogno di qualche ritocco se si vuole
evitare che l’università si riduca a una fabbrica di
disoccupati, o di occupati che non sanno che farsene delle
competenze acquisite.
f.l.
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