FOGLIO LAPIS - GIUGNO 2004

 
 

In un volume della collana Piste, I percorsi dei dispersi, un gruppo di specialisti analizza gli svariati aspetti di un fenomeno così spesso sottovalutato - La malaugurata tendenza a attribuire al contesto sociale, o alle famiglie, quella responsabilità del malessere e dei fallimenti che invece compete in larga misura alla scuola - Del resto la dispersione in senso lato non riguarda soltanto gli alunni ma anche gli insegnanti, la scuola stessa, persino i ministri

 

 

Un paio di anni or sono si poteva leggere in un documento dell'Eurispes, autorevole istituto di studi politici, economici e sociali, che una certa indagine condotta sulla dispersione scolastica aveva fatto registrare "alcuni elementi moderatamente positivi, come ad esempio l'attestarsi su livelli 'fisiologici' del fenomeno nelle scuole elementari". Non solo: anche nelle secondarie, annotava compiaciuto l'estensore del documento, "i valori relativi all'anno scolastico 2000/01 restano pressoché stabili rispetto all'anno precedente". Citando queste espressioni, Elena Marescotti ne sottolinea l'improprietà: esse confermano infatti una diffusa tendenza, quella di considerare inevitabile e addirittura accettabile, in quanto appunto "fisiologica", una certa quota di dispersione. Ma una patologia, come può essere considerata fisiologica? Si arriva al punto, come si è visto, di salutare con soddisfazione il fatto che il fenomeno si stabilizza: come dire, evviva, il paziente non sarà guarito, ma non è nemmeno peggiorato. É un modo indiretto di deresponsabilizzare la scuola, e le istanze politiche che la organizzano, da quello che Lorenzo Milani considerava il suo problema principe: "i ragazzi che perde".

Autrice di un intervento sul fenomeno dispersivo nell'età della globalizzazione, la Marescotti è fra gli specialisti che hanno contribuito a un volume, ultimo nato della collana Piste (Pubblicazioni internazionali di storia e teoria dell'educazione), dal titolo I percorsi dei dispersi (editore Franco Angeli, 2004). Nell'insieme, come sottolinea nella presentazione la curatrice Maura Gelati, emerge della dispersione scolastica "una lettura che va ben oltre la superficiale conclusione che essa è dovuta a inadeguatezze del soggetto che abbandona precocemente la scuola o dell'alunno che non sviluppa adeguatamente le proprie competenze anche quando continua a frequentarla". Del resto basta una sommaria attenzione alle parole per capire che la dispersione non è azione del disperso, ma di chi lo disperde: dunque della scuola, che lungi dall'offrire all'utente svantaggiato sul piano socioculturale o su quello psicofisico le condizioni per venirne fuori finisce con l'accentuarne lo svantaggio, e di un'organizzazione educativa afflitta da due handicap paralizzanti, le lacune della gestione politica e l'emarginazione della dimensione pedagogica a profitto di quella ideologica.

Del resto la dispersione non riguarda soltanto i "ragazzi perduti" di don Milani. Riguarda anche i docenti, afflitti da un malessere che porta tanti di loro a confrontarsi con la situazione così efficacemente descritta dalla brutale espressione burnout: di questo aspetto specifico del fenomeno si occupa Angelo Luppi, segnalando fra l'altro come quel malessere, dalle tante ragioni, sia causa a sua volta, fra le principali, dell'incapacità della scuola di essere quello che dovrebbe, un reale contesto educativo e formativo. Un altro aspetto specifico, analizzato da Maura Gelati, è quello che si riferisce ai disabili, dispersi per eccellenza in un sistema che tende a declassare nella categoria dei bisogni quelli che correttamente dovrebbe considerare diritti. Che non vanno caritatevolmente soddisfatti, ma politicamente garantiti. Della fondamentale unitarietà della scuola, e dell'angusta ottica utilitaristica con cui si guarda all'istruzione professionale deprimendo e "disperdendo" il ruolo complessivo del sistema educativo, si occupa Luciana Bellatalla; Paolo Russo affronta invece il tema  dell'educazione permanente vista anche come seconda possibilità, offerta a chi la scuola non ha saputo attrezzare con gli strumenti essenziali per una soddisfacente navigazione nella vita e nel mondo.

Si parla di alunni dispersi, di insegnanti dispersi: ma la dispersione  riguarda persino i ministri: analizzando la vicenda dei 98 personaggi, da Gabrio Casati a Letizia Moratti, che in un secolo e mezzo si sono avvicendati al timone ministeriale della scuola italiana,  Giovanni Genovesi calcola che considerati i tempi morti fra un governo e l'altro ogni ministro ha mediamente occupato la poltrona di Viale Trastevere per 14 mesi. Alcuni vi sono tornati più volte (i mandati sono stati in tutto 121), alcuni, come Michele Coppino, Guido Baccelli, Giuseppe Bottai, Guido Gonella, Luigi Gui, hanno complessivamente condotto il ministero per diversi anni, altri soltanto per pochissimi mesi. Sono stati spesso persone di prim'ordine, eppure la maggior parte di loro ha interpretato il ruolo nel segno di un comatoso immobilismo, limitandosi alla pura e semplice gestione: mota quietare, quieta non movere. Le conclusioni di Genovesi sono sconfortanti: "la struttura burocratica del ministero sembrerebbe favorire l'impotenza di qualsiasi ministro, per bravo e solerte che sia". Come uscire da una simile situazione? Con una ricetta in apparenza semplice, ma sembra scritta nel libro dei sogni: "efficienza amministrativa, effettiva assunzione di responsabilità politica e appoggio costante della comunità scientifica".

                                          Alfredo Venturi

 

 
 

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