In
un volume della collana Piste, I percorsi dei dispersi,
un gruppo di specialisti analizza gli svariati aspetti
di un fenomeno così spesso sottovalutato - La malaugurata
tendenza a attribuire al contesto sociale, o alle
famiglie, quella responsabilità del malessere e dei
fallimenti che invece compete in larga misura alla scuola
- Del resto la dispersione in senso lato non riguarda
soltanto gli alunni ma anche gli insegnanti, la scuola
stessa, persino i ministri
Un paio di anni or sono si poteva leggere in un
documento dell'Eurispes, autorevole istituto di studi
politici, economici e sociali, che una certa indagine
condotta sulla dispersione scolastica aveva fatto registrare
"alcuni elementi moderatamente positivi, come ad
esempio l'attestarsi su livelli 'fisiologici' del fenomeno
nelle scuole elementari". Non solo: anche nelle
secondarie, annotava compiaciuto l'estensore del documento,
"i valori relativi all'anno scolastico 2000/01 restano
pressoché stabili rispetto all'anno precedente".
Citando queste espressioni, Elena Marescotti ne sottolinea
l'improprietà: esse confermano infatti una diffusa
tendenza, quella di considerare inevitabile e addirittura
accettabile, in quanto appunto "fisiologica", una
certa quota di dispersione. Ma una patologia, come può
essere considerata fisiologica? Si arriva al punto, come si
è visto, di salutare con soddisfazione il fatto che il
fenomeno si stabilizza: come dire, evviva, il paziente non
sarà guarito, ma non è nemmeno peggiorato. É un modo
indiretto di deresponsabilizzare la scuola, e le istanze
politiche che la organizzano, da quello che Lorenzo Milani
considerava il suo problema principe: "i ragazzi che
perde".
Autrice di un intervento sul fenomeno dispersivo
nell'età della globalizzazione, la Marescotti è fra gli
specialisti che hanno contribuito a un volume, ultimo nato
della collana Piste (Pubblicazioni internazionali di storia
e teoria dell'educazione), dal titolo I percorsi dei
dispersi (editore Franco Angeli, 2004). Nell'insieme,
come sottolinea nella presentazione la curatrice Maura
Gelati, emerge della dispersione scolastica "una
lettura che va ben oltre la superficiale conclusione che
essa è dovuta a inadeguatezze del soggetto che abbandona
precocemente la scuola o dell'alunno che non sviluppa
adeguatamente le proprie competenze anche quando continua a
frequentarla". Del resto basta una sommaria attenzione
alle parole per capire che la dispersione non è azione del
disperso, ma di chi lo disperde: dunque della scuola, che
lungi dall'offrire all'utente svantaggiato sul piano
socioculturale o su quello psicofisico le condizioni per
venirne fuori finisce con l'accentuarne lo svantaggio, e di
un'organizzazione educativa afflitta da due handicap
paralizzanti, le lacune della gestione politica e
l'emarginazione della dimensione pedagogica a profitto di
quella ideologica.
Del resto la dispersione non riguarda soltanto i
"ragazzi perduti" di don Milani. Riguarda anche i
docenti, afflitti da un malessere che porta tanti di loro a
confrontarsi con la situazione così efficacemente descritta
dalla brutale espressione burnout: di questo aspetto
specifico del fenomeno si occupa Angelo Luppi, segnalando
fra l'altro come quel malessere, dalle tante ragioni, sia
causa a sua volta, fra le principali, dell'incapacità della
scuola di essere quello che dovrebbe, un reale contesto
educativo e formativo. Un altro aspetto specifico,
analizzato da Maura Gelati, è quello che si riferisce ai
disabili, dispersi per eccellenza in un sistema che tende a
declassare nella categoria dei bisogni quelli che
correttamente dovrebbe considerare diritti. Che non vanno
caritatevolmente soddisfatti, ma politicamente garantiti.
Della fondamentale unitarietà della scuola, e dell'angusta
ottica utilitaristica con cui si guarda all'istruzione
professionale deprimendo e "disperdendo" il ruolo
complessivo del sistema educativo, si occupa Luciana
Bellatalla; Paolo Russo affronta invece il tema
dell'educazione permanente vista anche come seconda
possibilità, offerta a chi la scuola non ha saputo
attrezzare con gli strumenti essenziali per una
soddisfacente navigazione nella vita e nel mondo.
Si parla di alunni dispersi, di insegnanti dispersi:
ma la dispersione riguarda
persino i ministri: analizzando la vicenda dei 98
personaggi, da Gabrio Casati a Letizia Moratti, che in un
secolo e mezzo si sono avvicendati al timone ministeriale
della scuola italiana,
Giovanni Genovesi calcola che considerati i tempi
morti fra un governo e l'altro ogni ministro ha mediamente
occupato la poltrona di Viale Trastevere per 14 mesi. Alcuni
vi sono tornati più volte (i mandati sono stati in tutto
121), alcuni, come Michele Coppino, Guido Baccelli, Giuseppe
Bottai, Guido Gonella, Luigi Gui, hanno complessivamente
condotto il ministero per diversi anni, altri soltanto per
pochissimi mesi. Sono stati spesso persone di prim'ordine,
eppure la maggior parte di loro ha interpretato il ruolo nel
segno di un comatoso immobilismo, limitandosi alla pura e
semplice gestione: mota quietare, quieta non movere.
Le conclusioni di Genovesi sono sconfortanti: "la
struttura burocratica del ministero sembrerebbe favorire
l'impotenza di qualsiasi ministro, per bravo e solerte che
sia". Come uscire da una simile situazione? Con una
ricetta in apparenza semplice, ma sembra scritta nel libro
dei sogni: "efficienza amministrativa, effettiva
assunzione di responsabilità politica e appoggio costante
della comunità scientifica".
Alfredo Venturi
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