|
Ragazzi
quasi incapaci di leggere e di scrivere, mandati allo sbaraglio con un
lessico rudimentale che li fa indifesi di fronte a ogni scommessa
esistenziale. Una volta ancora il quadro desolante di un
semianalfabetismo diffusissimo fra i giovani italiani è stato
confermato da un’indagine scientifica. L’ha condotta il Cede,
l’istituto nazionale di valutazione del sistema scolastico, su un
campione di 650 fra i nati nel 1982 che nel 2000 si sono presentati
alla visita di leva. I risultati sono davvero sconfortanti: in
particolare vengono confermati gli alti livelli, ben superiori a
quelli ufficiali, di abbandono della scuola e di lavoro precoce. Un
quinto del campione ha infatti cominciato a lavorare prima dei
quindici anni: il due per cento ha addirittura iniziato il lavoro fra
i sei e i dieci anni, cioè durante le elementari, il quattro per
cento fra gli undici e i tredici. Sono cifre indegne di quella che
pure altri indicatori designano come una democrazia avanzata, cifre
rivelatrici di una crisi della scuola che solo una radicale riforma
potrebbe avviare a soluzione. Questo
sondaggio “sulle competenze alfabetiche della popolazione a 18
anni” richiama l’indagine conoscitiva sul grado d’istruzione dei
giovani di leva che nel 1999 fu condotta dalla Lapis, d’intesa con
il Comando della Regione militare Sud, su un campione
quantitativamente superiore a quello preso in esame dal Cede, 3368
ragazzi, ma concentrato in tre province meridionali: Napoli, Bari,
Catanzaro. In quei territori il campione dei ragazzi alla visita di
leva coincideva praticamente con l’universo statistico dei
diciottenni di sesso maschile. La pubblicazione di quei dati,
elaborati dal Centro di sperimentazione e ricerca sull’immaginario
di Torino, ebbe l’effetto di un sasso nello stagno e fu accolta da
incredulità e polemiche. Troppo infatti si discostavano dalle
rassicuranti statistiche ufficiali. Era emerso dall’indagine che un
ragazzo su nove non aveva completato la scuola dell’obbligo, che uno
su dodici non era andato oltre le elementari, che uno su quindici
aveva addirittura mollato gli studi prima della quinta elementare. Che
quattro su dieci non avevano contratto, né in famiglia né a scuola,
quel fondamentale comportamento civile che è l’abitudine alla
lettura. Ebbene, la nuova indagine conferma nella sostanza il quadro tratteggiato in quella occasione, e implicitamente la scarsa attendibilità delle cifre ufficiali. E’ chiaro che questa inattendibilità, nel caso per esempio degli inadempimenti rispetto all’obbligo scolastico, è connessa con il fatto che la registrazione scatta soltanto in caso di intervento attivo, come la denuncia o altro provvedimento pubblico. Ma la maggior parte di coloro che abbandonano la scuola prima del dovuto lo fanno inosservati e indisturbati, senza che sul loro caso vengano aperte procedure di intervento. L’evasore tipo evade senza che qualcuno si interessi di lui, senza che arrivino i carabinieri per riportarlo in classe. Lo fa con l’acquiescenza, a volte con l’incoraggiamento, della famiglia e nell’inerzia della scuola che lo perde per strada. Poi ecco il giorno della visita di leva, un intervistatore gli chiede notizie della sua esperienza scolastica, e la verità viene finalmente a galla sorprendendo soltanto chi si affida pigramente alle formali verità burocratiche. I
ricercatori del Cede hanno sottoposto i ragazzi alla lettura di alcuni
testi, mettendo in luce straordinarie lacune alfabetiche e lessicali.
Circa la metà degli intervistati non sa che cosa voglia dire
l’aggettivo “rimunerativo”, per quasi i due terzi buio fitto a
proposito di un’espressione di uso comune come “a domicilio”.
Invitati a leggere un breve articolo di giornale su un tema
eminentemente pratico come il commercio di automobili, circa la metà
di quei ragazzi non ha capito quasi niente.
Impegnati
nella compilazione di un bollettino di versamento in conto corrente
postale, nove su dieci si sono fermati davanti a un ostacolo
insormontabile, l’indicazione della causale di versamento: non per
mancanza di fantasia ma più semplicemente perché non sapevano che
cosa mai significasse la parola “causale”. Roba che si mangia?,
deve essersi chiesto qualcuno di loro. Si
tratta di carenze tali, commenta Benedetto Vertecchi presidente del
Cede e coordinatore dell’indagine, da pregiudicare irrimediabilmente
il rapporto fra quei ragazzi e la società, in particolare il mondo
del lavoro. Per parte sua Tullio De Mauro, ministro della Pubblica
Istruzione nel governo uscente, sottolinea da un lato l’importanza
decisiva di un’abitudine alla lettura dei giornali, che dunque la
scuola dovrebbe promuovere, dall’altro il ruolo dei programmi
territoriali di recupero educativo rivolti agli adulti, ai quali
l’ultimo anno si sono iscritte più di mezzo milione di persone.
Naturalmente meritoria questa battaglia contro i vari analfabetismi di
ritorno: ma quello che colpisce nelle indagini sui diciottenni è che
appunto si tratta di ragazzi, freschi reduci dall’esperienza
scolastica, mentre siamo abituati a associare certe caratteristiche
alle generazioni che li hanno preceduti, in particolare a coloro che
furono bambini quando l’istruzione era davvero, soprattutto in certe
parti del paese, una risorsa per pochi. Dobbiamo dunque rassegnarci a
considerare che lo sia ancora?
Alfredo Venturi |