Sognare la realtà Un progetto di sperimentazione didattica sull’istruzione di base, una scuola-laboratorio e un Centro studi internazionale sorgeranno fra i disagi sociali e le risorse culturali di Napoli – Questa la sfida che la Lapis e l’Associazione Centro per lo sviluppo creativo "Danilo Dolci" hanno deciso di lanciare contro gli anacronismi della scuola – Per un sapere che non sia strumentale, per un apprendimento che sia processo di ricerca – La curiosità come metodo, contro la prassi alienante e dispersiva – Dal centro del Mediterraneo un modello a disposizione di tutti Ho letto: "le cose non si sognano, si fanno". E non lo ha affermato un "grande" dell’antichità ma una personalità dei nostri giorni: il ministro Rosa Russo Jervolino. Ecco, se al governo del mio Paese c’è gente che parla in questi termini vuol dire che non tutto è perduto. Avevo un sogno, maturato in due lunghi anni mentre percorrevo in lungo e in largo il territorio italiano sforzandomi con umiltà di capire perché la nostra "scuola dell’obbligo" non piaccia ai bambini, né ai loro genitori e neanche al personal docente che ci lavora. Era il sogno di una scuola nuova, rinnovata e rinnovante. Una scuola che nel rispetto dei programmi ministeriali guardi avanti, insegni a imparare, apprenda ad essere, vada oltre gli stereotipi della noia e della soggezione al sapere preconfezionato, stimoli la curiosità naturale, dia fiducia alle proprie capacità d’intervento sui mali del mondo, costruisca il quadro di una realtà interdipendente. Una scuola che si faccia frequentare con interesse, con partecipazione, magari con gioia, perché no. Una scuola degna del nuovo secolo alle porte. Senza una lira in tasca e nessuna competenza in materia didattica, mi sono improvvisamente ritrovata a dover parlare di un progetto la cui attuazione costerà miliardi, un progetto dalle finalità educative avanzatissime, al cui comitato scientifico parteciperanno studiosi di fama internazionale. Avevo pensato a Napoli perché la fisica ci insegna che i poli opposti inevitabilmente si attraggono: dove esiste maggiormente il problema, quello è il luogo giusto che sfornerà la soluzione. Ricordo il giorno che salii in macchina per incontrare, mille chilometri più avanti, il prof. Antonino Mangano di Messina. Durante tutte quelle ore di guida continuavo a ripetermi che forse non sarei riuscita a farmi capire. Che forse mi avrebbe presa per pazza o almeno con la sua tipica gentilezza mi avrebbe consigliato di abbandonare un’idea irrealizzabile. Non osavo neanche immaginare che avrebbe accettato, fino a coinvolgere nell’iniziativa l’Associazione Centro per lo sviluppo creativo "Danilo Dolci", da lui presieduta, e fino redigere la bozza del progetto scientifico. Finalmente la competenza si univa miracolosamente alla determinazione. Stringendo al cuore quelle sei pagine del progetto mi presentai a Roma, continuando sempre a ripetermi che avrei potuto trovare muri invalicabili. E tali mi sembrarono nonostante la loro grandiosità i palazzi del Parlamento e della Consulta. Dove invece nelle persone di Furio Colombo e di Fernanda Contri trovai, oltre le loro cariche e le loro mansioni, degli amici e dei preziosi alleati. Quando arrivai a Napoli, ero più forte dei consensi ricevuti ma temevo possibili resistenze a un’impresa che era stata pensata altrove. Pensai ad Amato Lamberti, un’altra persona che già aveva riscosso la mia stima e la mia simpatia, quando in un’intervista per questo giornale espresse idee nelle quali mi riconobbi. Di fronte alla mia richiesta di una sede per la nostra scuola-laboratorio, che richiedeva anche ampi spazi esterni per lo studio naturalistico e lo sport, Lamberti, presidente della Provincia, rispose prospettando la possibilità di mettere a nostra disposizione una villa vesuviana. A Napoli credo anche di aver trovato le due persone più adatte ad aiutare la realizzazione del nostro sogno, Silvia Ricciardi e Vincenzo Morgera, due amorosi angeli custodi impegnati nel salvataggio di tanti ragazzi che senza di loro sarebbero perduti per sempre. Chi più di loro può essere intimamente motivato alla prevenzione di quei mali che rendono poi difficilmente recuperabili tante giovani esistenze? Così il sogno si fa lentamente realtà, e presto produrrà risultati che saranno, ovviamente, a disposizione di tutti grazie al connesso Centro studi sulle tematiche dell’istruzione di base. Lo sono fin da ora: già nei giorni scorsi, avuto sentore del nostro progetto e venuto a conoscenza dei suoi principi ispiratori, un direttore didattico ci ha proposto di applicarlo nelle scuole del suo circolo.il seme, come si vede, comincia a dare frutti prima ancora di avere messo radici: un segnale di esuberante vitalità che ci fa guardare con ottimismo ai giorni che verranno. Ecco adesso la formica della situazione, che poi sono io, continua a correre avanti e indietro per l’Italia alla ricerca di quei finanziamenti che sono necessari, come la benzina per la mia auto, affinché il meccanismo ingrani e parta. Caro Alberto Manzi, a te che poche ore prima di morire mi raccomandasti di non mollare, perché condividevi la causa per cui mi batto, a te l’amato "maestro" degli italiani e di tanti bambini stranieri dedichiamo il nostro istituto. Che il tuo dolce spirito e la tua ferrea volontà ci accompagnino sempre. La scuola-pilota intitolata al maestro Manzi Il nome dell’indimenticabile educatore televisivo (Non è mai troppo tardi, Insieme) sarà legato all’istituto che applicherà a Napoli le metodologie scientifiche del progetto Lapis-Centro "D. Dolci" – Incoraggianti i primi passi dell’iniziativa, mentre se ne definiscono il quadro amministrativo, le modalità organizzative e le caratteristiche tecniche – Il problema della sede e quello dei finanziamenti Sarebbe bello poter fissare sul calendario la data in cui il progetto Lapis-Centro "D. Dolci" potrà finalmente concretizzarsi nell’inaugurazione del primo anno scolastico del suo istituto sperimentale. Ma questo non è ancora possibile: l’impresa non è da poco e certe iniziative non si improvvisano. Ci sono molti problemi da risolvere: il quadro giuridico di riferimento, le modalità organizzative della scuola, le sue caratteristiche tecniche. Possiamo solo anticipare che l’istituto sarà intitolato al Maestro Alberto Manzi. I meno giovani lo ricordano come infaticabile animatore, negli anni Sessanta, della trasmissione televisiva "Non è mai troppo tardi"; i più giovani lo hanno rivisto sui teleschermi in anni più recenti, impegnato nel programma "Insieme" a insegnare l’italiano agli immigrati. E poi i suoi libri, i suoi studi di psicologia didattica: insomma, Manzi era uno che pensava e che agiva, e noi crediamo che la scuola debba formare persone in grado di pensare e di agire. Manzi è morto nel 1997, lo stesso anno in cui è nata la Lapis: è come se ci avesse lasciato qualcosa da portare a compimento. Non conosciamo ancora la data d’avvio, dunque: ma ci auguriamo di non dover aspettare troppo. Il Comitato scientifico, cui presiede il prof. Antonino Mangano dell’Università di Messina, sta definendo le linee metodologiche, finora espresse in una bozza provvisoria di cui presentiamo qui accanto una sintesi. Ci preme richiamare l’attenzione di chi legge sul titolo che il prof. Mangano badato al progetto: L’apprendimento come costruzione del soggetto che apprende, ovvero Nessi fra apprendimento e ricerca. Sono due punti centrali, che implicano da un lato il superamento dei limiti connessi con l’insegnamento ex cattedra, dall’altro l’obiettivo di insegnare a costruire il sapere, di "apprendere ad essere". Questo e altri punti consentono di immaginare una scuola che, tenendo nel debito conto i programmi ministeriali, applichi unicamente attraverso personale docente adeguatamente preparato, tecniche educative non tradizionali a servizio di finalità non soltanto scolastiche ma più generalmente sociali. Accanto al Comitato scientifico è al lavoro un Comitato organizzatore, guidato dalla presidente della Lapis Marilena Farruggia Venturi e coordinato a Napoli da Silvia Ricciardi e Vincenzo Morgera, cui compete di affrontare i mille problemi pratici che scaturiscono da una iniziativa così complessa. Il problema della sede, per esempio, a proposito del quale è da registrarsi con soddisfazione la disponibilità manifestata dal presidente della Provincia di Napoli, prof. Amato Lamberti, che ha prospettato la localizzazione dell’Istituto "Maestro Manzi" in una villa vesuviana di proprietà di quella amministrazione. Importante anche l’interesse manifestato dal dott. Ciro Ascione, del direttivo dei giovani imprenditori campani. Altri contatti sono in corso mentre si va costituendo un Comitato d’onore, al quale hanno già formalmente aderito alcune illustri personalità: ne pubblicheremo la composizione, ovviamente, quando sarà stata completata da altre adesioni che attendiamo. f.s. Progetto di sperimentazione educativa e metodologico-didattica nella scuola dell’obbligo. A cura della Lapis e del Centro "D. Dolci"
Sintesi della bozza provvisoria Si parte da una diagnosi della "scuola anacronistica", produttrice di malessere individuale e sociale. E’ infatti una scuola da cui 1 – esce un popolo refrattario alla lettura, una scuola 2 – afflitta da una forte dispersione che favorisce fra l’altro la criminalità; una scuola 3 – che assiste impotente al dilagare delle tossicodipendenze e 4 – alla perdita del senso della comunità. La ragione di tutto questo: il sistema didattico è vecchio. (Non si possono risolvere i problemi di oggi con il modo di pensare che li ha generati, Ervin Laszlo). La sperimentazione deve dunque intervenire nel sistema didattico. Per farlo deve fissarsi degli obiettivi. Ce ne sono di "negativi" e di "positivi". Obiettivi negativi: 1 – lotta alla noia, alla scuola alienante; 2 – lotta alla dispersione scolastica; 3 – superamento dell’idea strumentale della cultura (sapere per essere, non per avere); 4 – superamento della dipendenza dai modelli, in nome dell’autonomia. Obiettivi positivi: 1 – attivare l’apprendimento come processo di ricerca ("imparare a essere"); 2 – promuovere, non reprimere, la curiosità, e trasformarla in metodo di ricerca; 3 – dare la consapevolezza di potere agire sui mali del mondo; 4 – abituare a ragionare in termini di interdipendenza (la realtà come sistema organico). Si rimanda infine per l’elaborazione dei dettagli tecnici al lavoro di un gruppo di esperti.
Che cos’è la "Danilo Dolci" Nata un anno fa, l’Associazione "Centro per lo sviluppo creativo Danilo Dolci" si propone fra l’altro di favorire didattiche non più unidirezionali, e di promuovere iniziative in cui ognuno possa esprimersi per riconoscere i propri bisogni concreti Dallo STATUTO: Art. 1 – Nel giugno ’98, si è costituita una Associazione non lucrativa di utilità social denominata: "CENTRO PER LO SVILUPPO CREATIVO ‘DANILO DOLCI’ – ONLUS –". Essa ha sede in Tappeto (provvisoria a Partitico), Borgo di Tappeto, possono essre istituite e/o soppresse sedi secondarie, anche altrove. SCOPO Articolo 3 – L’associazione è apartitica, apolitica e non ha scopo di lucro. Essa si propone, esclusivamente, finalità di utilità sociale. Più particolarmente, si propone di:
Per il perseguimento delle finalità predette, l’Associazione potrà compiere ogni operazione a ciò utile o necessaria e, comunque, direttamente connessa. Manifesto dell’associazione: INVITIAMO CIASCUNO, DOVUNQUE POSSIBILE, A:
"Combattere per la gente" non basta; non riesce l’avanguardia, pur se generosa, "dei condottieri di massa" a liberare il mondo. Falso mito è divenire "bandiera che insegni le masse a seguire e odiare", come Gramsci aveva preannunziato. Non "la violenza è la levatrice", anche se "meglio di scappare è sparare" come Gandhi ha affermato, aggiungendo: "ma meglio di sparare è promuovere conflitti che siano più perfetti, più efficaci dello sparare". Per disfare i sistemi clientelari-mafiosi pur a livelli continentali, non bastano fucili bombe spie. Come è possibile valorizzare, liberando le infinite energie di un pianeta in cui ancora vengono parassitari interi continenti dall’esterno sistematicamente – come avviene ancora in Sud America -, finché da luogo a luogo non riusciamo a scoprirgli interessi della gente con la gente medesima? Rivoluzione autentica non è mobilitare processi maieutici in cui cresca, dall’organizzazione, la forza necessaria per cambiare? Il potenziale del comunicare maieutico è soltanto al suo inizio, in scala planetaria è da scoprire: contro ogni preteso monopolio annunzia la responsabilità di ogni prossima generazione. La fissità dell’ammaestramento unidirezionale, screpolata da secoli, comincia a vacillare. Guardate il mondo tenendo presente le possibilità della struttura maieutica, è un po’ come il vedere di Galileo al nuovo telescopio. Ancora non sappiamo esattamente come sia comparsa la prima cellula, le condizioni ottimali di vita, come si siano formati il mutualismo, la coevoluzione ed il ricambio, l’organizzarsi del memorizzare e del coscientizzarsi: nel profondo ci è ignota la natura della vita. Ma dell’albero della vita – i cui rami non potenziati rinseccano – iniziamo a intendere qualche aspetto. Profumando di miele, nell’autunno tra muro e muro a Modica si incandidano campagne pullulanti di erbette cardellina. Le angiosperme hanno avuto più tempo di noi per inventare e strutturare l’enorme loro nuova economia; così le infiorescenze vegetali: per noi apprendere a comunicare è più lento, ancora più complesso. Quanto è difficile non è impossibile. Ogni creatura ha una notevole capacità di autorigenerarsi.
La scuola a rimorchio del calcio Inter-Campus: come una società sportiva fa irruzione nelle tematiche sociali – Programmi di assistenza tecnica agli allenatori delle squadre dilettantistiche e tornei molto particolari, in cui alla prestazione sportiva si affiancano prove di scrittura – Un "ricatto" per i bambini delle favelas brasiliane: andate a scuola la mattina, vi faremo giocare a pallone il pomeriggio con la maglietta di Ronaldo "Si parla facilmente del ginocchio di Ronaldo, o della sua fidanzata, più difficile che si parli di iniziative come questa. Eppure la nostra idea investe ormai una sessantina di società: considerando una media sui 150 ragazzi per società, coinvolgiamo dunque al momento circa diecimila ragazzi". Massimo Moretti, animatore dell’iniziativa Inter-Campus, racconta come nacque questa idea singolare, che proietta una grande società di calcio nel pieno delle tematiche sociali. "Sono stato per otto mesi amministratore delegato dell’Inter: un giorno mi trovai con il presidente Moratti a dire che mi sembrava un po’ mortificante un lavoro finalizzato unicamente a una palla che la domenica entra o no in una porta. Avevo anche notato che nell’ambito del calcio c’era una situazione di grande privilegio, cioè la facilità di comunicare. Quello che dice un campione, o chiunque intorno a una squadra importante, ha una grande capacità di penetrazione. E allora mi sono detto: sarebbe bello usare questo privilegio per fare qualcosa a vantaggio dei bambini. Nelle squadre giovanili delle grandi società c’è una selezione spietata: immagini centocinquanta ragazzi dai 12 ai 19 anni che vengono allevati come gladiatori. Se sfondano, bene, altrimenti finiscono nel dimenticatoio. E’ la legge del calcio e francamente non mi sembra un gran che". Di qui l’idea di Inter-Campus… "Sì: abbiamo pensato di fornire le nostre competenze a tutte le società dilettantistiche, una realtà che avevo ben conosciuto durante la mia precedente esperienza di assessore allo sport a Milano. Queste società operano spesso nelle periferie, con tutto ciò che questo comporta, sacrifici ma anche immaginazione. E si servono di allenatori, cioè persone che trasmettono qualcosa ai ragazzi, educatori in senso lato. Dunque ci siamo detti: perché non mettere le nostre strutture e i nostri allenatori a disposizione di quelle piccole società. Si tratta di professionisti, dovrebbero essere i migliori: apriamo dunque le nostre porte, poniamo le competenze dei nostri tecnici a disposizione degli allenatori delle società minori, vengano a vedere come noi alleniamo i nostri ragazzi". Che tipo di risposta avete avuto dalle autorità locali? "Non abbiamo contatti diretti con i comuni, solo con le società sportive. Noi non abbiamo costruito nulla, siamo andati in supporto a un tessuto già esistente. E ci siamo concentrati sui ragazzi fra i nove e i tredici anni. Perché dopo i tredici anni il ragazzo può già firmare un contratto che vincola alla squadra la propria prestazione sportiva. Prima di quell’età il bambino è libero di andare dove vuole, magari non all’Inter ma al Milan, o alla Juventus. Qui c’è un salto culturale, perché normalmente si fanno degli investimenti per profitto, è un po’ anomalo che una società di calcio professionistico investa per uno scopo di promozione sociale". So che operate anche all’estero… "Fra i miei quattro figli c’è una bambina brasiliana di 9 anni che abbiamo adottato. L’abbiamo raccolta in una favela e ci siamo accorti di quanti bambini abbandonati per strada, privi di istruzione, ci sono in quel paese.abbiamo anche notato quanto sia affascinante per loro la maglia di Ronaldo. E allora abbiamo pensato: invece che cercare i minicampioni in erba e portarli via, non sarebbe meglio mandare istruttori nelle favelas e far giocare a calcio i bambini, fornire palloni di cuoio invece che di pezza, e magliette con il magico nome di Ronaldo? Ma tutto questo a una condizione: che i piccoli vadano a scuola. Se andate a scuola la mattina, il pomeriggio potete giocare a pallone. Ha funzionato: su 4000 bambini che abbiamo coinvolto in Brasile, l’80 per cento è tornato a scuola". Molto interessante l’idea di legare la scuola al traino potente del calcio "L’abbaiamo applicata anche in Italia. Certo, qui la situazione non è drammatica come in Brasile. Abbiamo comunque cercato un’integrazione fra sport e cultura. In pratica costruiamo punteggi e distribuiamo premi in relazione non solo ai risultati sportivi ma anche al profitto scolastico, in un programma, ‘divertiamoci giocando’, che comprende quattro discipline extracalcistiche. Abbiamo fatto ricerche geografiche su paesi estratti a sorte. Abbiamo fatto il ‘piccolo cronista sportivo’: portando i bambini allo stadio e invitandoli a scrivere un tema. I testi migliori portavano maggior punteggio. Abbiamo dunque trasmesso la consapevolezza che una ‘punta’ è non soltanto chi segna gol, ma anche chi è bravo a scrivere. Può essere un buon tema a far vincere alla squadra il primo premio, come un soggiorno a Eurodisney offerto da uno dei nostri sponsor". Problemi con le famiglie? "Questi sono tradizionali. Nel calcio c’è sempre un conflitto fra l’allenatore e il genitore, spesso convinto che il suo bambino sia un campione: il bambino finisce con il risentirne. Noi ci proponiamo di creare un rapporto più sereno con lo sport. Recentemente abbiamo concluso un accordo in Romania, i nostri istruttori sono andati in cinque orfanotrofi, dove vivono 500 bambini. La maggior parte di costoro sono sieropositivi, dunque difficilmente diventeranno degli atleti: ma la nostra presenza ha portato loro un sorriso, e questo è l’importante". Il fatto che questa iniziativa sia legata a una squadra particolare, l’Inter, non rischia di determinare resistenze fondate sulla rivalità calcistica? "Al contrario, la nostra azione è di stimolo, per esempio anche il Milan sta immaginando qualcosa di simile. Vede, nel mondo del calcio inizialmente siamo stati criticati, ma molti si stanno rendendo conto della utilità civile di ciò che facciamo. E’ importante che i bambini e i ragazzi si incontrino in luoghi dove si socializza, dove non si fuma. In luoghi puliti".
Facciamo che io ero bambino Se i piccoli nascono per ragioni che non li riguardano, è naturale che si domandino perché mai la creazione dell’umanità cominciò con una coppia di adulti "Facciamo che io ero bambino", dissi in casa della Cecilia di Monte San Savino: "Perché è l’unica cosa che mi piace fare". "Facciamo tre bambini", rispose la Cecilia: "uno nella pancia di babbo, uno nella mia… ma è piccola! Ma io la svuoto tutta… E uno nella pancia di mamma".
"Facile da verificare", avrebbe detto Gianni Rodari: "Anche i bambini sono in grado di capire il senso e l’uso della nota metafora della psicologia transizionale in base alla quale ciascuno di noi (uomo o donna, adulto o bambino) risulta divisibile in tre persone: il Bambino (capriccioso, impulsivo), il Vecchio Genitore (autoritario,paternalista, predicatore, borbottone, reazionario) e l’Adulto (cioè l’essere razionale, in presa diretta con le cose e con i problemi, capace di respingere i pregiudizi e di controllare gli umori del momento)". Con Cecilia e un gruppo di bambini di Monte San Savino analizziamo alcuni comportamenti (dei compagni, dei genitori, di chi presenta il gioco) e ben presto essi sono in grado di giudicare, praticamente in coro.
A Verona, in un gruppo di circa quaranta adulti (insegnanti, operatori di équipe psicologica, assistenti ecc.) si propone una domanda: "Perché facciamo figli?". Ognuno si deve interrogare sulle motivazioni reali, se ce ne sono state di consapevoli prima del concepimento. Non vale motivare a posteriori: troppo facile! Scopriamo, senza nemmeno troppo ricercare:
Ma fino a che punto tutto ciò riguarda il bambino? Facciamo la controprova in una una specie di psicodramma in cui invitiamo un bambino a nascere in base alle motivazioni che conosciamo. Il compagno di gioco che sostiene il ruolo del bambino ha buon gioco a rifiutare una dopo l’altra tutte le motivazioni, perché passano sopra la sua testa. Per il momento, egli – il Bambino – "si rifiuta di nascere". Perché? Ecco il perché. A Giuliano (Napoli) in una quarta elementare, facciamo l’elenco di tutte le cose di cui abbiamo avuto o abbiamo paura: 1.Il mito terribile di Adamo ed Eva. "Perché" mi chiese Giovanni: "Dio non fece subito un Bambino? E non gli disse: Ti voglio più bene di… del Sole del Mare della Terra?" 2.Gli uomini terrificanti come quelli delle Brigate Rosse; l’uccisione di D’Antona. Costruiamo anche noi, come altri hanno già fatto, un grande fantoccio riassuntivo di tutti i nostri mostri collettivi e personali. Prima di distruggerlo, gli faremo la serenata. Che canzone gli possiamo cantare? Ciascuno deve scrivere su un foglietto le parole che vorrebbe includere nella canzone. Faccio ad alta voce lo spoglio dei foglietti. Un applauso accoglie questi versi: "Noi siamo piccoli ma cresceremo e tutti i mostri distruggeremo". Ecco il distico, con varianti, si ripete: "Siamo piccoli ma cresceremo mostri e fantasmi uccideremo"… E poi di nuovo. Nasce una canzone "contro i mostri" con l’aiuto di uno dei mostri del nostro tempo.
Filippo Nibbi (8- continua)
Andare a scuola è essenziale ma non basta Il prof. Giovanni Cacioppo dell’università di Palermo ricorda come la dispersione sia un problema generale del nostro sistema formativo: presente nella scuola dell’obbligo, raggiunge all’università il livello del 70 per cento – A proposito di dettato costituzionale: è certo importante che un ragazzo vada sui banchi otto o dieci anni, ma lo è ancora di più che quegli anni siano ampiamente produttivi sul piano degli apprendimenti – La depressione degli insegnanti e l’ottica distorta in materia di aggiornamento Giustamente la sottolineatura sul fatto dispersione è concentrata sul livello della scuola dell’obbligo,perché naturalmente la dispersione nella scuola dell’obbligo pon dei problemi costituzionali. E naturalmente essendo sul primo livello pregiudica in negativo tutte le possibilità di sviluppo successivo. Credo però sia importante tenere presente come riferimento generale che il problema dispersione non è legato soltanto all’obbligo, ma è una caratteristica di tutto il sistema formativo, anzi con accentuazioni, se guardiamo ai termini numerico statistici, progressivamente maggiori man mano che si sale. Notoriamente il livello massimo di dispersione nel nostro sistema formativo molti lo trovano all’università, dove abbiamo un tasso di dispersione del 70 per cento. Su cento che si iscrivono all’università nel momento attuale arrivano a laurearsi in trenta. Dico arrivano a laurearsi comunque, se poi consideriamo quelli che si laureano entro gli anni previsti ecc. la percentuale scende ulteriormente. E’ importante avere questa dimensione perché questo ci dà l’idea di un problema generale del nostro sistema formativo, che è un problema da un lato di spreco di risorse per quanto riguarda l’utilità del sistema nel suo complesso, ed è dall’altro un problema di costi individuali rilevanti. Detto questo, il concetto che vorrei immediatamente agganciare, una prima nota pessimistica se vogliamo, è il fatto che se il problema dispersione è già preoccupante nei termini in cui abitualmente viene concepito… risulta ulteriormente più preoccupante se noi facciamo una riflessione credo doverosa: se sicuramente la dispersione è il sintomo di non funzionamento del sistema formativo, non possiamo considerare la non dispersione come sintomo sufficiente di funzionamento. Cioè il fatto che un allievo non sia disperso non significa automaticamente che abbia conseguito i livelli di istruzione che gli sarebbero dovuti e garantiti sulla base del principio costituzionale. Il riferimento educativo non è soltanto il fatto che il bambino passa alcuni anni, almeno otto anni a scuola, ma è che quegli anni di esperienza scolastica siano anni ampiamente produttivi sul piano degli apprendimenti. E questo si innesta su un secondo problema estremamente rilevante,che è appunto la questione della possibilità di individuazione dei livelli reali di istruzione conseguiti dagli allievi. E’ un problema molto attuale, molto spinoso – il gruppo di lavoro di Visalberghi lavora proprio in questa direzione – che da un lato si tende a chiamare problema degli standard formativi, cioè il livello di competenze che il sistema scolastico dovrebbe garantire agli allievi in ogni ciclo. C’è un aspetto strano del problema: abbiamo già dei riferimenti normativi per gli insegnanti che hanno questi standard nella scheda di valutazione attualmente esistente nella scuola dell’obbligo. Per esempio l’ultimo quadro che gli insegnanti devono compilare li richiama, fra gli altri criteri di valutazione, a una definizione della vicinanza o lontananza del singolo allievo rispetto allo standard formativo. Però gli standard formativi non esistono ancora, quindi non si capisce come un insegnante possa fare riferimento alla definizione di standard formativi inesistenti. Una delle accuse che storicamente vengono poste ai programmi per la scuola elementare dell’85 si articola su due livelli: da un lato che non vi è una saldatura sufficiente fra i programmi della scuola elementare e quelli della scuola media inferiore, cioè resta una dimensione ciclica molto forte, determinati contenuti si studiano due volte e su questo ci sono molti dubbi: dall’altra parte il fenomeno analfabetismo di ritorno – risultato che deriva probabilmente dal fatto che all’uscita dalla scuola le competenze fondamentali, le competenze linguistiche in particolare non sono sufficientemente consolidate. E’ tanto più facile regredire progressivamente nella condizione di analfabeta quanto meno salda è stata la dimensione dell’alfabetizzazione. Quindi c’è oggi in un dibattito fortemente significativo che va nella direzione della ristrutturazione dei curricoli, che è un problema diverso dalla questione del riordino dei cicli, come è stato sottolineato il problema del riordino dei cicli è un problema di ingegneria, di costruzione di un edificio, il problema che qui invece io sottolineo è quello dei contenuti. All’interno dell’edificio, vecchio o nuovo che sia, il problema è quali curricoli, quali competenze siano da sviluppare. E mi pare che sia ovvia una propensione abbastanza accentuata nella direzione di un richiamo alla essenzialità delle cosiddette competenze di base. Cioè che il senso formativo, soprattutto della prima scuola che inizia a cinque o sei anni, sia nella direzione di una acquisizione solida delle strumentalità di base. Devo dire che su questo c’è anche un elemento di novità importante di cui fino adesso si è parlato poco a livello di opinione pubblica: nel disegno di riordino dei cicli al quale facevo riferimento c’è un passaggio importante rispetto alle problematiche di cui stiamo discutendo. E’ il passaggio della cosiddetta certificazione. Si inserisce un principio nuovo nel nostro sistema formativo, cioè il fatto che l’articolo di legge obbligatoriamente in corrispondenza a una situazione di esame ma anche tutte le volte che i singoli alunni lo richiedano, la scuola deve fornire non soltanto come fino adesso è avvenuto un giudizio complessivo espresso da un voto o da un giudizio, secondo i livelli scolastici, ma deve anche degli elementi estremamente analitici rispetto al livello delle competenze raggiunte. La certificazione appunto, rispetto alle varie aree, alla dimensione linguistica, alla dimensione matematica, del livello di competenza effettivamente raggiunto dalla persona. Io credo che questo sia un principio di estrema importanza perché ci immette in una situazione ambigua – io sono un sostenitore del principio della certificazione, però non mi nascondo le difficoltà che l’applicazione di questo principio potrà porre. Vi è un forte rischio di una discordanza tra voto espresso e certificazione. Giocando su due elementi, sorgerà il problema di quale dei due elementi sia dal punto di vista significativo quello più importante. Io dal mio punto di vista non avrei dubbi, che l’elemento significativo dal punto di vista formativo è quello della certificazione e non quello costituito dal voto. Ma immagino che attorno a questo si svilupperà tutta una serie di conseguenze sulle quali cominciare a riflettere probabilmente è cosa utile. Si è accennato anche al problema della depressione degli studenti. Problema giusto sacrosanto, io sto studiando in questo periodo proprio questo tipo di questione… è sicuramente una cosa importante. Credo che però per completezza di quadro dobbiamo considerare una questione non meno importante, che è quella della depressione degli insegnanti. In questi anni circolano altre espressioni, che però sostanzialmente indicano lo stesso tipo di fenomeno, oggi si è diffusa in particolare la concezione del cosiddetto burnout, che gli operatori educativi condividono con l’insieme degli operatori sociali in generale, psicologi, assistenti sociali, ecc. In realtà questo problema non è nuovo perché con specifico riferimento ai problemi dell’attività docente si sono sviluppate da tempo tutta una serie di ricerche sul campo estremamente interessanti, sotto la sigla dello stress che gli insegnanti subiscono all’interno della propria funzione. Mi pare che sia chiara la rilevanza di questa problematica all’interno del nostro discorso perché evidentemente è con difficoltà aspettarci che un insegnante depresso o stressato possa costituire un modello di riferimento valido per un allievo a sua volta depresso. Allora è importante interrogarsi sul perché. Perché questa usura delle professioni educative, in particolare degli insegnanti? La nostra riflessione sugli insegnanti credo che debba condurci alla individuazione di alcuni nodi istituzionali. Un primo riferimento che vorrei dare: a tutt’oggi nel nostro sistema scolastico non esiste un profilo professionale condiviso dell’insegnante. Se facciamo una ricerca sull’argomento troviamo che ne esistono tanti proposti da diversi autori ma non ne esiste uno istituzionale, ufficiale, riferito alle competenze che sono richieste all’insegnante nell’esercizio delle proprie attività. Dal punto di vista strettamente giuridico normativo in realtà il profilo professionale sarebbe dato dalle procedure di reclutamento: quello è in mancanza di altre indicazioni il modello di riferimento. Cioè quello che richiede all’insegnante di fare all’interno della propria attività di classe è che sia congruente con le modalità con cui l’insegnante è stato reclutato. Ma se riflettiamo un momentino su quelle che sono a tutt’oggi le procedure di reclutamento all’interno della nostra scuola abbiamo una immagine molto chiara del problema. In che cosa consiste il reclutamento degli insegnanti? Consiste in generale nell’essere in grado di scrivere con una certa competenza e abilità intorno a determinati contenuti del programma e dalla capacità di essere in grado di parlare con sufficiente competenza abilità intorno… Che relazione ha questo con l’attività dell’insegnante? Io credo che la relazione sia molto scarsa. Una persona può essere benissimo in grado di scrivere bene e di parlare bene ma poi quello che ha da fare nella sua attività educativa quotidiana in realtà non richiede competenze di scrittura o lettura o capacità di eloquio, ma richiede tutti altri tipi di capacità: dimensione relazionale con gli allievi, capacità di lavorare in gruppo… Un insegnante che entra nella scuola che cosa si aspetta? Di fare delle lezioni ai propri allievi, di interrogarli, ecc. ecc… Qui subentra il secondo elemento critico importante, un elemento a valle. La questione se gli insegnanti si possano considerare dei professionisti oppure no. La risposta è che gli insegnanti dal punto di vista sociologico vanno considerati dei lavoratori dipendenti. Perché non possono essere considerati dei professionisti? Soprattutto perché nel nostro sistema scolastico non c’è una valorizzazione della professionalità. Nel nostro sistema scolastico cosa abbiamo? Rispetto agli insegnanti il sistema è fortemente omogeneizzato. La carriera degli insegnanti procede sulla sola base dell’anzianità. L’aggiornamento dovrebbe essere un elemento di professionalità più forte, però sappiamo che è stato congegnato in modo tale che si considera soltanto il numero di ore passate ai corsi e non la produttività in termini di professionalità. Io sono personalmente convinto che questa sarebbe una delle prime norme da abolire all’interno del nostro sistema scolastico, perché dà agli insegnanti un’immagine negativa del fatto aggiuntivo. Cioè li convince della identità fra aggiornamento e frequenza ai corsi e non di quello strumento essenziale che chiamiamo autoaggiornamento. Cioè il fatto che in realtà un professionista aggiornato non soltanto frequenta corsi ma legge libri, si abbona a riviste, discute con i colleghi sulle esperienze.
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