Dalle
regioni meridionali del nostro Paese i giovani si spostano
non soltanto verso l'estero, ma anche verso l'Italia settentrionale
- Il problema riguarda in primo luogo la Sicilia, seguono
la Campania e la Puglia – Un fenomeno che oscura
le prospettive di sviluppo dell'economia, particolarmente
necessario in questa parte del Paese
Secondo
dati forniti da Svimez, l'ente che studia e promuove lo
sviluppo industriale del Sud, oltre due milioni di persone,
per la metà giovani al di sotto dei trentaquattro
anni, sono emigrati dalle regioni del Sud Italia nel primo
ventennio di questo secolo. Soltanto in parte, circa un
quinto, si sono stabiliti all'estero, mentre gli altri hanno
alimentato il fenomeno della cosiddetta migrazione interna,
si sono cioè spostati da un Mezzogiorno caratterizzato
da altissimi tassi di disoccupazione alle regioni del Nord,
a cominciare dalla Lombardia, dove esistono più possibilità
di trovar lavoro. Anche questa è fuga di braccia
e di cervelli, che contribuisce a mortificare le speranze
di rilancio dell'economia nelle aree interessate. É
la Sicilia la regione maggiormente interessata a questo
fenomeno, ma ne soffrono anche la Campania e la Puglia.
Bisogna
notare a questo punto che la crisi strutturale e congiunturale
di cui da tempo è afflitta l'Italia è per
così dire compensata, in una prospettiva che vogliamo
ostinarci a non considerare utopistica, da tre potenzialità
racchiuse nel superamento del lavoro sommerso e dell'evasione
fiscale, nell'apporto lavorativo femminile e nel decollo
economico del Sud. La trasformazione di queste potenzialità
in concreta realtà potrebbe portare a un nuovo miracolo
economico: ma per quanto riguarda il Mezzogiorno è
chiaro che se i giovani scappano all'estero o al Nord la
potenzialità è destinata a rimanere tale.
Sempre
secondo i dati di Svimez, nel 2017 il fenomeno dello svuotamento
del Sud si è accentuato, la congiuntura economica
sfavorevole ha fatto sì che quell'anno 132mila abitanti
dell'Italia meridionale, per un terzo laureati, lasciassero
le loro case per trasferirsi altrove, tre quarti in altre
regioni italiane, quelle del Nord, e un quarto all'estero.
Con un saldo demografico negativo attorno al due per mille
nell'insieme del Mezzogiorno, appare chiaro che gli afflussi
di stranieri, quei migranti che per la massima parte approdano
proprio in quelle regioni, sia pure con il proposito di
proseguire verso il Nord o verso altri Paesi europei, non
bastano a compensare le fughe della gente del posto. Infatti
se gli stranieri residenti nell'Italia centrale e settentrionale
nel 2017 superavano largamente i quattro milioni, nel Sud
erano meno di novecentomila. Inoltre va considerato un tasso
di natalità decrescente da anni, che rende negativo
il saldo nascite-decessi.
Del
resto quello dell'emigrazione meridionale verso il Nord
Italia, l'Europa e le Americhe è un fenomeno storico,
che ebbe il suo culmine nei primi decenni del secolo scorso.
Un fenomeno sul quale, fra l'altro, si fondò la politica
coloniale di Roma soprattutto nell'età giolittiana,
quando si additò nella Libia il territorio ideale
nel quale indirizzare, piuttosto che verso lidi più
lontani e a volte ostili, l'eccesso di manodopera italiana.
Per questo un poeta come Giovanni Pascoli benedisse con
una famosa espressione, “la grande proletaria si è
mossa”, la guerra italo-turca per la conquista della
quarta sponda. Un'altra stagione di fortissima migrazione
interna fu il secondo dopoguerra, quando l'Italia della
ricostruzione vide milioni di lavoratori affluire dal Mezzogiorno
alle grandi industrie del Nord, oltre che alle miniere e
alle fabbriche di altri Paesi europei.
Allora
non si parlava di fuga dei cervelli, in effetti la quota
di emigrazione altamente qualificata era ancora esigua.
Erano piuttosto le braccia, che ormai l'agricoltura non
poteva più assorbire, a spostarsi verso lidi più
promettenti. Anche dal Sud, l'emigrazione massiccia di giovani
laureati o diplomati è fenomeno recente, che è
insieme effetto e causa dal calo dei tassi di sviluppo.
f. s.
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