La
crescente propensione all'espatrio dei nostri giovani
è parte del grande flusso migratorio ben noto alle
cronache contemporanee – Lo determinano gli squilibri
demografici, economici, sociali e professionali che caratterizzano
la nostra epoca e la relativa facilità degli spostamenti
nel mondo globalizzato – Siamo di fronte a una sorta
di diaspora intellettuale
Da
una parte un mondo in cui si registrano profondi squilibri
che riguardano la demografia e l'assetto sociale, l'economia
e le competenze professionali, dall'altra una facilità
di spostamento sconosciuta ad altre epoche storiche. Basta
applicare a questo schema il principio fisico dei vasi comunicanti
per comprendere la ragion d'essere del fenomeno migratorio.
Masse crescenti di persone tendono a trasferirsi dai paesi
sovrappopolati a quelli con crescenti carenze di popolazione,
dalle economie povere a quelle ricche, dalle società
disuguali e prive di assistenza a quelle tonificate dal
welfare, dai paesi in guerra a quelli in pace, dalle situazioni
in cui abbondano le competenze ma non la possibilità
di applicarle professionalmente a quelle in cui questo rapporto
è meno rigido, o addirittura rovesciato. Quest'ultimo
aspetto del fenomeno è ciò che i mezzi di
comunicazione di massa chiamano fuga dei cervelli, o secondo
l'anglomania imperante brain drain.
Di
fronte a questa situazione, che caratterizza così
significativamente la nostra epoca, l'Italia si trova in
una condizione ambigua. Il nostro è infatti un paese
dall'economia sviluppata (anche se ormai da anni in profonda
crisi congiunturale) e assistito bene o male dallo stato
sociale, che attraversa da tempo una fase di declino demografico
e dunque attira inevitabilmente un intenso flusso migratorio.
Proviene soprattutto dalle aree relativamente vicine dell'Africa
e del Medio Oriente, dove imperversano crisi economiche
e sociali, non di rado guerre o disordini terroristici,
dove il deterioramento climatico fa avanzare i deserti a
scapito dei terreni coltivabili, e dove la popolazione è
stabilmente in forte crescita.
C'è
inoltre da considerare la nostra collocazione geografica,
che ci caratterizza come punto d'approdo per chi da quelle
aree disagiate è diretto in Europa: di qui una forte
componente di migrazioni in transito dai nostri porti. E
poiché i paesi di destinazione in questi tempi difficili
non hanno certo la tendenza a spalancare le porte, il transito
tende a cristallizzarsi in permanenze potenzialmente definitive
e psicologicamente instabili, che provocano reazioni di
rigetto nell'opinione pubblica sapientemente utilizzate
da alcune parti politiche.
Al
tempo stesso l'Italia è afflitta da difficoltà
congiunturali, e ormai apparentemente divenute strutturali,
che le impediscono di assorbire proprio quella forza lavoro
di alto livello che viene generata dal suo sistema formativo.
E così migliaia di giovani si allontanano verso altri
lidi in cerca di occupazioni lavorative corrispondenti alle
loro competenze, inutilizzabili o quasi in patria. Il fenomeno
ha dunque due facce: in un certo senso importiamo braccia
ed esportiamo cervelli. Se l'importazione di braccia checché
se ne dica è necessaria, perché colma il vuoto
aperto dal calo demografico, è anche vero che l'esportazione
di cervelli ci penalizza fortemente dal punto di vista umano
e professionale. Le cifre del fenomeno sono sconcertanti.
Prendiamo
ad esempio il 2017, quando oltre la metà dei 115
mila italiani emigrati aveva un titolo di studio superiore
all'obbligo scolastico. Infatti secondo i dati forniti dall'Istat
ne facevano parte 33 mila diplomati e 28 mila laureati.
Secondo le cifre dell'Istituto nazionale di statistica nei
cinque anni compresi fra il 2013 e il 2017 il numero di
italiani che dopo il raggiungimento del titolo universitario
si è trasferito all'estero in cerca di lavoro è
aumentato di oltre il quaranta per cento. Il problema consiste
evidentemente nel fatto che l'Italia non può permettersi
di perdere trentamila laureati l'anno.
É
vero che si registrano anche rimpatri, ma l'incidenza di
questi è rimasta pressoché invariata negli
anni. Altrettanto stabile l'incidenza di quella quota di
immigrazione che ci permette di importare competenze professionali
di alto livello. Questo significa che c'è un saldo
sempre più nettamente negativo, a maggior ragione
se consideriamo il fatto che la tendenza è in costante
aumento: sempre più giovani alimentano questa diaspora
intellettuale. Si dirigono verso la Germania, la Francia,
la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, il Canada. É come
un'emorragia, il paese perde infatti la sua risorsa più
preziosa, e non soltanto quella. Come possiamo vedere in
altra parte di questo periodico, il sistema Italia paga
a carissimo prezzo, anche dal punto di vista finanziario,
l'esilio volontario di tanti giovani.
a. v.
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