Sembra
finalmente consolidata a livello ufficiale una verità
tanto ovvia quanto lungamente trascurata: il ruolo
determinante dell'istruzione nello stato di salute della
società – Evidentemente il tema non poteva sfuggire al
“governo dei professori” – Tanto più che
l'emergenza economica sottolinea l'importanza
dell'efficienza educativa rispetto alla competizione
internazionale – Il ministro Profumo vede la scuola come
parte dell'innovazione del sistema-Paese
Nel
suo saggio Investire in conoscenza – Per la crescita
economica (Il Mulino, 2009) Ignazio Visco, governatore
della Banca d'Italia, sostiene che “i benefici di una
maggiore istruzione si estendono a molte altre dimensioni
della vita umana”. Ai vantaggi percepibili sul terreno
etico e civile Visco affianca le positive ricadute
sull'economia: infatti “l'istruzione è anche un
investimento redditizio”. Questa non è l'enunciazione di
un articolo di fede, ma una verità comprovata da ricerche e
comparazioni: per esempio è dimostrato un regolare rapporto
proporzionale fra i rendimenti scolastici misurati nei paesi
Ocse dalle analisi Pisa (Programme for International
Student Assessment) e i livelli di sviluppo economico.
Meglio funziona la scuola e più cresce il prodotto interno
lordo. Da questo punto di vista siamo messi davvero male:
l'Italia occupa infatti nelle graduatorie Pisa una posizione
non certo adeguata alla sua straordinaria tradizione
culturale, e puntualmente lo stesso si verifica nelle
classifiche dello sviluppo.
Cercando
d'individuare le cause di questa inadeguatezza del sistema
scolastico, Visco ne sottolinea in particolare una, la
mancata valorizzazione del merito. Ne potremmo aggiungere
un'altra che per così dire sta “a monte”: la scarsa
considerazione della cultura in sé che negli ultimi decenni
ha inaridito il dibattito italiano. In nessun altro Paese,
che si sappia, si è mai sentito un ministro della
repubblica affermare che “con la cultura non si mangia”,
e dunque non conviene investirvi risorse in tempi di magra.
Questa espressione va considerata con attenzione, non
soltanto perché rinnega il valore intrinseco della cultura
ma anche perché è letteralmente sbagliata, come il
governatore della Banca d'Italia sostiene nel suo libro.
Infatti “con la cultura si mangia”, a volere riprendere
l'espressione piuttosto volgare che tanto ha fatto parlare
di sé.
Oggi
sarebbe impensabile sentir cadere dall'alto parole simili,
se non altro perché il “governo dei professori” è
composto da uomini e donne provenienti in buona parte dal
mondo accademico e dunque professionalmente impegnati
dell'istruzione. E infatti si sentono accenti diversi. Il
ministro dell'istruzione, Francesco Profumo, riprende
l'analisi di Visco sottolineando che una scuola efficiente
produce non soltanto una società più colta ma anche più
ricchezza e più mobilità sociale. Per una volta il
responsabile del ministero di Viale Trastevere non annuncia
la rituale riforma, ma un semplice lavoro di orientamento.
In particolare promette uno sforzo perché la scuola sia
messa in condizione di sviluppare “la capacità di
rispondere con flessibilità e progetti personalizzati alle
esigenze degli studenti”. Il tutto nel rispetto
dell'autonomia scolastica, e limitando l'azione ministeriale
alla verifica dei processi di apprendimento e alla cura
professionale del corpo docente. Bisogna che la scuola, dice
Profumo, “entri a pieno titolo nell'innovazione del
sistema-Paese”.
Due
elementi dei quali si discute riguardano rispettivamente la
durata degli studi e quella dell'obbligo scolastico: ma si
tratta di prospettive che chiamerebbero in causa non gli
orientamenti ai quali Profumo dice di voler limitare il suo
lavoro, ma una vera azione riformatrice. Dobbiamo dunque
considerarle riflessioni da trasmettere al futuro governo
“politico”. A proposito dell'obbligo, il ministro
adombra la possibilità di un prolungamento fino ai
diciassette anni. Al tempo stesso c'è chi considera con
interesse l'ipotesi di una riduzione del percorso scolastico
dalla primaria al diploma, che potrebbe essere portato a
dodici anni dai tredici attuali. Lo fa per esempio il
sottosegretario Marco Rossi Doria, sottolineando che in
questo modo l'ultimazione dei cicli pre-universitari
verrebbe a coincidere con il raggiungimento della maggiore
età.
Si
fa anche notare che altrove, nella maggior parte dei Paesi,
i cicli durano appunto dodici anni, non tredici come da noi.
Ma qui si aprono alcuni problemi: quale dei cicli dovrebbe
“sacrificare” un anno? La primaria o il liceo? É
inoltre prevedibile un'accanita resistenza sindacale, visto
che la misura comporterebbe evidentemente un drastico taglio
delle classi e dunque delle cattedre. Per l'esercito dei
precari, in particolare, questa novità verrebbe a
complicare ulteriormente le già grame prospettive
professionali.
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Fredi Sergent
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