Nella
scuola italiana si è sempre più ridotto, fino a
rischiare la scomparsa, l’insegnamento della geografia
– L’allarme lanciato dai docenti di questa disciplina
dopo anni di inarrestabile declino – È incredibile che
si sacrifichi la comprensione del mondo proprio negli anni
dell’approccio globale, del turismo internazionale e
delle grandi migrazioni – Per tacere
dell’impossibilità di capire la storia, del resto
anch’essa trascurata nei curricula, senza il supporto
delle coordinate spaziali
Confondono Haiti con Tahiti e sono serenamente
convinti che l’Iran sia un paese arabo, che in Romania si
parli una lingua slava, che il Messico si trovi in
Sudamerica e la Siberia in Europa. Sono tanti, troppi, gli
italiani che posti di fronte a una carta geografica
semplicemente non la sanno leggere. Eppure i meno giovani
ricordano certamente le “carte mute” dei lontani anni di
scuola, quei reticoli di confini che racchiudevano spazi
bianchi in attesa dei nomi. Gli atlanti con le carte
politiche attraversate da tante frontiere, e quelle fisiche
nelle quali la rappresentazione si limitava alle
caratteristiche naturali del territorio: le montagne, le
pianure, i fiumi, il disegno delle coste marine. I colori
che segnalavano l’estensione dei grandi imperi coloniali,
a cominciare dal rosa dei territori di sua maestà
britannica e dal violetto dei possedimenti francesi. Certo,
da allora la storia ha camminato e la decolonizzazione ha
sepolto per sempre quelle innaturali proiezioni di sovranità:
ma come capire questi eventi senza confrontare le carte? In
altre parole, come affrontare la storia senza il supporto
della geografia?
Questo interrogativo, del resto, non è di quelli che
suscitano particolare interesse. Se la geografia se la passa
male nei curricula della nostra scuola, non è che la storia
sia messa molto meglio. Nel primo biennio dei nuovi licei
scientifici, tanto per fare un esempio, le due discipline
godrebbero complessivamente di tre ore la settimana. Tre ore
per esaurire la grande avventura umana nel tempo e nello
spazio. In altri istituti la scomparsa sarebbe totale.
L’associazione degli insegnanti di geografia ha levato
voci di protesta, promuovendo via Internet una raccolta di
firme che in pochi giorni ha coinvolto migliaia di persone.
A qualcosa è servito, se è vero all’ultimo momento, nei
curricula che accompagnano la riforma della scuola
secondaria di secondo grado presentata nei giorni scorsi,
alla geografia è stato restituito un po’ di spazio. Un
parziale successo da accogliersi con favore, dopo la scarsa
importanza che le autorità ministeriali da anni hanno
assegnato a questa disciplina. Fino a dare l’impressione
che secondo i teorici della scuola delle tre I
il navigatore satellitare abbia reso del tutto
inutile prendersi la briga di sfogliare l’atlante.
Resta comunque marginale lo studio della geografia
nella scuola italiana, una situazione che sfiora il
paradosso, perché si trascura di fissare nella mente dei
giovani le necessarie coordinate spaziali proprio
nell’epoca in cui il mondo globalizzato si propone
all’attenzione di tutti nella sua variegata complessità.
S’ignorano le carte geografiche proprio negli anni del
turismo internazionale di massa, compresa quella sua forma
tragica che è costituita dalle migrazioni più o meno
incontrollate. La scuola non si cura di preparare le nuove
generazioni alla conoscenza del mondo e delle sue mutazioni.
Per esempio all’evoluzione di quelle frontiere che da
arcigni limiti di sovranità si sono sempre più trasformate
in demarcazioni puramente amministrative, come quelle
interne all’Unione Europea, o al moltiplicarsi di nuovi
confini all’interno di realtà politiche superate dalla
storia: come l’Unione Sovietica, la Jugoslavia, la
Cecoslovacchia. Come ha notato efficacemente Ilvo Diamanti
su La Repubblica, “si rimuove la geografia
mentre la geografia si muove”. Lo stesso commentatore
segnala un'altra singolarità: quegli stessi confini che non
si vogliono più studiare vengono chiamati in causa quando
si scatena la reazione xenofoba, e così “frontiere
invisibili diventano muri visibili per marcare la distanza
dagli ‘stranieri’”.
- a.
v.
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