FOGLIO LAPIS - FEBBRAIO - 2010

 
 

Nella scuola italiana si è sempre più ridotto, fino a rischiare la scomparsa, l’insegnamento della geografia – L’allarme lanciato dai docenti di questa disciplina dopo anni di inarrestabile declino – È incredibile che si sacrifichi la comprensione del mondo proprio negli anni dell’approccio globale, del turismo internazionale e delle grandi migrazioni – Per tacere dell’impossibilità di capire la storia, del resto anch’essa trascurata nei curricula, senza il supporto delle coordinate spaziali

 

Confondono Haiti con Tahiti e sono serenamente convinti che l’Iran sia un paese arabo, che in Romania si parli una lingua slava, che il Messico si trovi in Sudamerica e la Siberia in Europa. Sono tanti, troppi, gli italiani che posti di fronte a una carta geografica semplicemente non la sanno leggere. Eppure i meno giovani ricordano certamente le “carte mute” dei lontani anni di scuola, quei reticoli di confini che racchiudevano spazi bianchi in attesa dei nomi. Gli atlanti con le carte politiche attraversate da tante frontiere, e quelle fisiche nelle quali la rappresentazione si limitava alle caratteristiche naturali del territorio: le montagne, le pianure, i fiumi, il disegno delle coste marine. I colori che segnalavano l’estensione dei grandi imperi coloniali, a cominciare dal rosa dei territori di sua maestà britannica e dal violetto dei possedimenti francesi. Certo, da allora la storia ha camminato e la decolonizzazione ha sepolto per sempre quelle innaturali proiezioni di sovranità: ma come capire questi eventi senza confrontare le carte? In altre parole, come affrontare la storia senza il supporto della geografia?

Questo interrogativo, del resto, non è di quelli che suscitano particolare interesse. Se la geografia se la passa male nei curricula della nostra scuola, non è che la storia sia messa molto meglio. Nel primo biennio dei nuovi licei scientifici, tanto per fare un esempio, le due discipline godrebbero complessivamente di tre ore la settimana. Tre ore per esaurire la grande avventura umana nel tempo e nello spazio. In altri istituti la scomparsa sarebbe totale. L’associazione degli insegnanti di geografia ha levato voci di protesta, promuovendo via Internet una raccolta di firme che in pochi giorni ha coinvolto migliaia di persone. A qualcosa è servito, se è vero all’ultimo momento, nei curricula che accompagnano la riforma della scuola secondaria di secondo grado presentata nei giorni scorsi, alla geografia è stato restituito un po’ di spazio. Un parziale successo da accogliersi con favore, dopo la scarsa importanza che le autorità ministeriali da anni hanno assegnato a questa disciplina. Fino a dare l’impressione che secondo i teorici della scuola delle tre I  il navigatore satellitare abbia reso del tutto inutile prendersi la briga di sfogliare l’atlante.

Resta comunque marginale lo studio della geografia nella scuola italiana, una situazione che sfiora il paradosso, perché si trascura di fissare nella mente dei giovani le necessarie coordinate spaziali proprio nell’epoca in cui il mondo globalizzato si propone all’attenzione di tutti nella sua variegata complessità. S’ignorano le carte geografiche proprio negli anni del turismo internazionale di massa, compresa quella sua forma tragica che è costituita dalle migrazioni più o meno incontrollate. La scuola non si cura di preparare le nuove generazioni alla conoscenza del mondo e delle sue mutazioni. Per esempio all’evoluzione di quelle frontiere che da arcigni limiti di sovranità si sono sempre più trasformate in demarcazioni puramente amministrative, come quelle interne all’Unione Europea, o al moltiplicarsi di nuovi confini all’interno di realtà politiche superate dalla storia: come l’Unione Sovietica, la Jugoslavia, la Cecoslovacchia. Come ha notato efficacemente Ilvo Diamanti su La Repubblica, “si rimuove la geografia mentre la geografia si muove”. Lo stesso commentatore segnala un'altra singolarità: quegli stessi confini che non si vogliono più studiare vengono chiamati in causa quando si scatena la reazione xenofoba, e così “frontiere invisibili diventano muri visibili per marcare la distanza dagli ‘stranieri’”.

                                                         a. v. 
                                         

    


                                                  

 
 

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