FOGLIO LAPIS - FEBBRAIO - 2008

 
 

L’elezione presidenziale di novembre deciderà anche il destino della legge No Child Left Behind, l’ambizioso piano scolastico voluto dall’amministrazione uscente – Dei tre aspiranti alla presidenza tuttora in lizza soltanto uno, il repubblicano John McCain, è favorevole a un rilancio della legge – Gli altri due, i democratici Barack Obama e Hillary Clinton, promettono rispettivamente di rivederla e di abrogarla, anche se entrambi ne condividono le finalità

 

No Child Left Behind, nessun bambino lasciato indietro: uno slogan efficace, un obiettivo sacrosanto. Non a caso la legge fu approvata da una maggioranza trasversale, tale cioè da superare il tradizionale steccato fra repubblicani e democratici che divide in due campi il Congresso degli Stati Uniti. Eppure l’ambizioso programma del presidente George W. Bush non piace alla maggioranza degli americani, in particolare agli addetti ai lavori a cominciare dagli insegnanti e dalle loro organizzazioni sindacali. Ha fortemente deluso, al di là delle finalità generalmente condivise, la concreta realizzazione del programma. È infatti ormai fuori portata il suo obiettivo di medio termine, risolvere entro il 2014 ogni lacuna individuale in materia di lettura e di capacità matematica.

Il tema non poteva non entrare nella campagna elettorale, attualmente in corso per la scelta attraverso i caucuses e le elezioni primarie dei candidati che si fronteggeranno il 4 novembre. Mentre si avviava la lunga stagione delle primarie, al Congresso le commissioni parlamentari per l’istruzione, guidate dal senatore Edward Kennedy e dal rappresentante George Miller, si accingevano a varare una versione della legge che, modificandola in alcuni punti, ne salvava gli obiettivi e l’impianto generale. Il meccanismo di No Child Left Behind impone a ogni singolo istituto scolastico il superamento di test di efficienza, mancando i quali vengono meno i sussidi federali. La prospettiva di una riproposta della legge, sia pure riveduta e corretta, si è immediatamente scontrata con una duplice opposizione: da una parte la destra repubblicana che teme una lesione dell’autonomia degli stati da parte del potere federale, dall’altra i democratici più liberal che denunciano i limiti di una norma capace di classificare le scuole e di bloccare le sovvenzioni quando i parametri non vengono superati, ma incapace di migliorare l’efficienza del sistema. Non basta infatti allo scopo la minaccia dell’asfissia finanziaria.

Immediata la trasposizione del dibattito nella campagna per l’elezione presidenziale. Dei tre aspiranti alla successione di Bush che sono rimasti “papabili” a metà del percorso delle primarie soltanto uno, il repubblicano John McCain, si è dichiarato favorevole alla legge. Appartiene infatti alla parte più moderata dello schieramento repubblicano, meno sensibile al tema dell’autonomia degli stati. Quanto ai due democratici che si contendono la nomination, Barack Obama e Hillary Clinton, sono entrambi critici, sia pure con sfumature diverse. Secondo Obama la legge, sia pure perseguendo obiettivi condivisibili, “demoralizza i nostri insegnanti”, e dunque va profondamente rivista. Più drastica la Clinton: se sarò eletta alla presidenza, ha detto parlando in una scuola primaria dello Iowa, manderò in soffitta questa legge, che decisamente “non funziona”.

Dietro la posizione dei due contendenti democratici c’è il legame tradizionale fra questo partito e la categoria degli insegnanti da un lato, il mondo sindacale dall’altro. E i docenti, con le loro organizzazioni rappresentative, sono risolutamente contrari alla legge di Bush. Attaccando la norma impopolare Obama e la Clinton cercano di garantirsi l’appoggio di due tradizionali serbatoi di voti. Lo fanno anche insistendo su altri punti chiave del dibattito americano sulla scuola. Come la riduzione del numero di allievi per classe, perché un più corretto rapporto docenti-studenti permetta un sistema educativo più efficiente e più giusto. Come la necessità di interventi volti a colmare il divario fra i ragazzi delle classi privilegiate e quelli provenienti dagli strati meno favoriti della società. Un divario che negli Stati Uniti si sviluppa, creando tensioni potenzialmente incontrollabili, lungo la discriminante etnica: bianchi da una parte, afroamericani e ispanici dall’altra.

                                                          Alfredo Venturi 
                                         

    


                                                  

 
 

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