L’elezione
presidenziale di novembre deciderà anche il destino della
legge No Child Left Behind, l’ambizioso piano
scolastico voluto dall’amministrazione uscente – Dei
tre aspiranti alla presidenza tuttora in lizza soltanto
uno, il repubblicano John McCain, è favorevole a un
rilancio della legge – Gli altri due, i democratici
Barack Obama e Hillary Clinton, promettono rispettivamente
di rivederla e di abrogarla, anche se entrambi ne
condividono le finalità
No
Child Left Behind, nessun bambino lasciato
indietro: uno slogan efficace, un obiettivo sacrosanto. Non
a caso la legge fu approvata da una maggioranza trasversale,
tale cioè da superare il tradizionale steccato fra
repubblicani e democratici che divide in due campi il
Congresso degli Stati Uniti. Eppure l’ambizioso programma
del presidente George W. Bush non piace alla maggioranza
degli americani, in particolare agli addetti ai lavori a
cominciare dagli insegnanti e dalle loro organizzazioni
sindacali. Ha fortemente deluso, al di là delle finalità
generalmente condivise, la concreta realizzazione del
programma. È infatti ormai fuori portata il suo obiettivo
di medio termine, risolvere entro il 2014 ogni lacuna
individuale in materia di lettura e di capacità matematica.
Il
tema non poteva non entrare nella campagna elettorale,
attualmente in corso per la scelta attraverso i caucuses e
le elezioni primarie dei candidati che si fronteggeranno il
4 novembre. Mentre si avviava la lunga stagione delle
primarie, al Congresso le commissioni parlamentari per
l’istruzione, guidate dal senatore Edward Kennedy e dal
rappresentante George Miller, si accingevano a varare una
versione della legge che, modificandola in alcuni punti, ne
salvava gli obiettivi e l’impianto generale. Il meccanismo
di No Child Left Behind impone a ogni singolo
istituto scolastico il superamento di test di efficienza,
mancando i quali vengono meno i sussidi federali. La
prospettiva di una riproposta della legge, sia pure riveduta
e corretta, si è immediatamente scontrata con una duplice
opposizione: da una parte la destra repubblicana che teme
una lesione dell’autonomia degli stati da parte del potere
federale, dall’altra i democratici più liberal che
denunciano i limiti di una norma capace di classificare le
scuole e di bloccare le sovvenzioni quando i parametri non
vengono superati, ma incapace di migliorare l’efficienza
del sistema. Non basta infatti allo scopo la minaccia
dell’asfissia finanziaria.
Immediata
la trasposizione del dibattito nella campagna per
l’elezione presidenziale. Dei tre aspiranti alla
successione di Bush che sono rimasti “papabili” a metà
del percorso delle primarie soltanto uno, il repubblicano
John McCain, si è dichiarato favorevole alla legge.
Appartiene infatti alla parte più moderata dello
schieramento repubblicano, meno sensibile al tema
dell’autonomia degli stati. Quanto ai due democratici che
si contendono la nomination, Barack Obama e Hillary
Clinton, sono entrambi critici, sia pure con sfumature
diverse. Secondo Obama la legge, sia pure perseguendo
obiettivi condivisibili, “demoralizza i nostri
insegnanti”, e dunque va profondamente rivista. Più
drastica la Clinton: se sarò eletta alla presidenza, ha
detto parlando in una scuola primaria dello Iowa, manderò
in soffitta questa legge, che decisamente “non
funziona”.
Dietro
la posizione dei due contendenti democratici c’è il
legame tradizionale fra questo partito e la categoria degli
insegnanti da un lato, il mondo sindacale dall’altro. E i
docenti, con le loro organizzazioni rappresentative, sono
risolutamente contrari alla legge di Bush. Attaccando la
norma impopolare Obama e la Clinton cercano di garantirsi
l’appoggio di due tradizionali serbatoi di voti. Lo fanno
anche insistendo su altri punti chiave del dibattito
americano sulla scuola. Come la riduzione del numero di
allievi per classe, perché un più corretto rapporto
docenti-studenti permetta un sistema educativo più
efficiente e più giusto. Come la necessità di interventi
volti a colmare il divario fra i ragazzi delle classi
privilegiate e quelli provenienti dagli strati meno favoriti
della società. Un divario che negli Stati Uniti si
sviluppa, creando tensioni potenzialmente incontrollabili,
lungo la discriminante etnica: bianchi da una parte,
afroamericani e ispanici dall’altra.
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Alfredo Venturi
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