Nella parte meridionale del
continente le esperienze autoritarie puntualmente riflesse dalla scuola
hanno avvalorato una sostanziale inesistenza dell'idea d'Europa, al
di là della sua definizione generica come area di espansione di valori
come la cristianità o la romanità - I testi scolastici italiani, spagnoli
e portoghesi della prima metà del ventesimo secolo in un confronto-dibattito
fra specialisti dei tre paesi
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Niente altro che un'espressione geografica. Così poco meno di due secoli or sono il principe di Metternich, principale architetto di quella Santa Alleanza che si proponeva di pietrificare la storia, a proposito dell'Italia. Così decine, centinaia di autori più o meno noti di manuali scolastici, nella prima metà del secolo appena trascorso, a proposito dell'Europa. Parliamo di autori e di scuole di tre paesi, Italia, Spagna e Portogallo, nei quali la storia del Novecento ha avuto un drammatico tratto comune, l'affermarsi di ideologie autoritarie e l'instaurarsi di regimi nazionalistici e liberticidi. Anche a Roma, Lisbona e Madrid si volle pietrificare lo sviluppo delle idee, fra le quali proprio quella idea d'Europa che così male si conciliava con la coltivazione dell'orgoglio e delle ambizioni nazionali, del "particolare" incarnatosi nella forma di uno stato che si voleva unico, irripetibile e radicalmente diverso dai precedenti temporali e dai modelli contemporanei (Estado Novo). Insomma non c'era spazio per l'Europa, nel piccolo mondo di Mussolini, di Franco, di Salazar. In un volume edito da Franco Angeli: L'immagine e l'idea di Europa nei manuali scolastici (1900-1945), a cura di Giovanni Genovesi, Milano 2000, sono raccolti gli atti dell'omonimo convegno, celebrato a Cassino nel novembre 1999. Per iniziativa dell'organizzazione transnazionale SPICAE, studiosi delle università di Ferrara, Parma, Cassino, Lisbona, Coimbra, Minho, Madrid, Murcia e Valladolid hanno dibattuto per tre giorni sulla sostanziale assenza dell'Europa come valore e patrimonio comune dai libri di testo nei tre paesi nella prima metà del ventesimo secolo. Il continente che emerge dalle nozioni generalmente impartite è appunto niente altro che un continente, una variegata penisola appesa come una inerte appendice alla grande massa asiatica. Un fitto reticolato di frontiere nazionali, che racchiudono popoli spesso caratterizzati secondo stereotipi tradizionali, dagli italiani ricchi di inventiva ai tedeschi metodici e lavoratori, fino ai britannici abili colonizzatori. Luoghi comuni ben duri a morire, del resto, anche oltre la contingenza storica di cui parliamo. In questa rappresentazione delle diversità, più attinente al folklore che alle scienze umane e sociali, rimane per lo più sullo sfondo ciò che unisce i popoli d'Europa, e anche qui è frequentemente ravvisabile lo sforzo di sovrapporre al carattere comune la rivendicazione di un primato nazionale. Quel carattere comune da dove viene, chi lo ha donato all'Europa? Nei testi italiani, per esempio, è normale la rappresentazione più o meno esplicita del continente come terreno di una missione civilizzatrice, affidata prima alle legioni romane e più tardi all'espansione del cristianesimo, che è partita proprio dall'Italia. In ogni caso l'Europa viene vista e presentata come "altro da se'", in una visione particolaristica in cui secoli di sanguinosi conflitti intereuropei, e le stesse guerre contemporanee, trovano una collocazione del tutto naturale. Senza che su queste periodiche esplosioni di violenza si inviti a salutari riflessioni: nella scuola del "libro e moschetto", la guerra non è forse vista come "l'igiene del mondo"? Il periodo preso in esame dal convegno si conclude nel 1945, alla fine cioè di quella seconda guerra mondiale che dei tre paesi solo l'Italia aveva affrancato dall'esperienza autoritaria. In Spagna e Portogallo i rispettivi "regimi forti" dureranno ancora alcuni decenni, attraverso i quali nel frattempo un'idea ben diversa d'Europa si sarà fatta strada fino a culminare in quella Unione di quindici stati, aperta a nuove adesioni su una scala praticamente continentale, che sarebbe stata del tutto inimmaginabile nella prima metà del secolo. E' singolare e confortante notare come proprio nei tre paesi coinvolti in questo confronto, nonostante la negativa educazione del passato, il processo d'integrazione goda della più vasta popolarità. Lo dimostrano i periodici sondaggi: si direbbe che l'esperienza autoritaria abbia efficacemente vaccinato la maggioranza degli italiani, degli spagnoli e dei portoghesi contro il virus del nazionalismo. Oggi, a un passo dalla moneta unica, possiamo ben dire che il disegno dottrinario di cui quegli autori di manuali si fecero diligenti interpreti è clamorosamente fallito. La lettura delle relazioni svolte al convegno di Cassino si presta infine a una riflessione d'attualità. Esse dimostrano quali guasti possa provocare quella regìa unica dei libri di testo, quella verifica dall'alto dell'espressione educativa, insomma quella programmazione ideologica dei contenuti e dei modi dell'istruzione, che pure è stata recentemente rivendicata in Italia: si ricorderà la polemica aperta da Francesco Storace, presidente della regione Lazio, a proposito dei manuali di storia che si vorrebbero controllati nel contenuto, e di fatto censurati. Siamo appena entrati in un nuovo secolo: ebbene lasciamo al secolo vecchio, anzi alla sua apocalittica prima parte, quei controlli e quelle censure, e anche quei roghi di libri che ne furono, qua e là, un logico corollario.
a.v.
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