FOGLIO LAPIS - DICEMBRE- 2024

 

Sotto la maschera delle buone intenzioni, l'irruzione nelle scuole della cosiddetta educazione gender rischia di trasformarsi in una coercizione producendo danni psicologici. Il ruolo delle famiglie

 

É uno fra i temi più scottanti fra quelli che da qualche tempo agitano il pianeta scuola, con posizioni contrastanti e diffficilmente conciliabili. Parliamo della cosiddetta educazione gender, del fatto cioè che quella che è sempre stata una diatriba fra specialisti e militanti è ormai diventata un problema scolastico. Il genderismo ha fatto la sua irruzione nel sistema educativo pubblico innescando polemiche che scuotono alla radice i capisaldi del nostro rapporto tradizionale con la sessualità.

Le motivazioni di partenza soino di per sé inattaccabili. Si rivendica infatti non soltanto il diritto all'autogestione dei sentimenti, ma anche il dovere di combattere le discriminazioni, il bullismo, la violenza. Ma che senso ha, di frontre a questi sacrosanti obbiettivi, invitare i bambini a interrogarsi sulla propria identità sessuale, insinuando in questo modo l'idea che essa sia determinata non soltanto dalla natura, ma anche da una quantità di motivazioni che vanno dall'emulazione all'insicurezza, dal plagio alla ricerca di un proprio posto nel mondo.

La psicologia insegna: non è certo incoraggiando il rifiuto delle condizioni naturali che si trasmette un messaggio di sicurezza e di stabilità. Fermo restando che va combattuta ogni forma di discriminazione e di violenza contro chiunque metta in pratica nei propri comportamenti scelte non condivise, ci sembra ovvio che queste scelte non possano collocarsi in un'orbita meccanicamente aperta a tutte le variabili implicite in questa versione così intima del politicamente corretto.

L'introduzione nelle scuole dell'educazione di genere procede in silenzio, quasi alla chetichella. Si direbbe che non si voglia risvegliare l'interesse delle famiglie, che si sa in larga maggioranza ostili a simili sviluppi, e che dunque si tema il loro giudizio e il loro possibile intervento sul tema. Proprio le famiglie, invece, dovrebbero impadronirsi del problema e gestirlo come questione di propria competenza secondo i valori della “famiglia tradizionale”. In un mondo che tende alla polarizzazione manichea delle idee, a questi valori vengono contrappposti quelli della tolleranza. Ma è proprio necessario, sia pure in nome della tolleranza, sollecitare premature decisioni fra i nostri bambini, illustrando come normali modelli variabili di comportamento? Ci si rende conto che questa pressione può rivelarsi dannosa?

Tocca alle famiglie il compito di ricondurre il dibattito nell'ambito di quella stretta relazione con la scuola che è sempre stata negli auspici di tutti. La discussione si svolga alla luce del sole, e trovi nel rapporto scuola-famiglie la sua collocazione naturale. E per favore si lascino stare i bambini, che negli anni vitali dello sviluppo psicofisico hanno bisogno di vederci chiaro, fra i tanti afffascinanti misteri del mondo e della società.

                                                                  Alfredo Venturi

 

 


                                                  

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