Sotto
la maschera delle buone intenzioni, l'irruzione nelle
scuole della cosiddetta educazione gender rischia di trasformarsi
in una coercizione producendo danni psicologici. Il ruolo
delle famiglie
É
uno fra i temi più scottanti fra quelli che da qualche
tempo agitano il pianeta scuola, con posizioni contrastanti
e diffficilmente conciliabili. Parliamo della cosiddetta
educazione gender, del fatto cioè che quella che
è sempre stata una diatriba fra specialisti e militanti
è ormai diventata un problema scolastico. Il genderismo
ha fatto la sua irruzione nel sistema educativo pubblico
innescando polemiche che scuotono alla radice i capisaldi
del nostro rapporto tradizionale con la sessualità.
Le
motivazioni di partenza soino di per sé inattaccabili.
Si rivendica infatti non soltanto il diritto all'autogestione
dei sentimenti, ma anche il dovere di combattere le discriminazioni,
il bullismo, la violenza. Ma che senso ha, di frontre a
questi sacrosanti obbiettivi, invitare i bambini a interrogarsi
sulla propria identità sessuale, insinuando in questo
modo l'idea che essa sia determinata non soltanto dalla
natura, ma anche da una quantità di motivazioni che
vanno dall'emulazione all'insicurezza, dal plagio alla ricerca
di un proprio posto nel mondo.
La
psicologia insegna: non è certo incoraggiando il
rifiuto delle condizioni naturali che si trasmette un messaggio
di sicurezza e di stabilità. Fermo restando che va
combattuta ogni forma di discriminazione e di violenza contro
chiunque metta in pratica nei propri comportamenti scelte
non condivise, ci sembra ovvio che queste scelte non possano
collocarsi in un'orbita meccanicamente aperta a tutte le
variabili implicite in questa versione così intima
del politicamente corretto.
L'introduzione
nelle scuole dell'educazione di genere procede in silenzio,
quasi alla chetichella. Si direbbe che non si voglia risvegliare
l'interesse delle famiglie, che si sa in larga maggioranza
ostili a simili sviluppi, e che dunque si tema il loro giudizio
e il loro possibile intervento sul tema. Proprio le famiglie,
invece, dovrebbero impadronirsi del problema e gestirlo
come questione di propria competenza secondo i valori della
“famiglia tradizionale”. In un mondo che tende
alla polarizzazione manichea delle idee, a questi valori
vengono contrappposti quelli della tolleranza. Ma è
proprio necessario, sia pure in nome della tolleranza, sollecitare
premature decisioni fra i nostri bambini, illustrando come
normali modelli variabili di comportamento? Ci si rende
conto che questa pressione può rivelarsi dannosa?
Tocca
alle famiglie il compito di ricondurre il dibattito nell'ambito
di quella stretta relazione con la scuola che è sempre
stata negli auspici di tutti. La discussione si svolga alla
luce del sole, e trovi nel rapporto scuola-famiglie la sua
collocazione naturale. E per favore si lascino stare i bambini,
che negli anni vitali dello sviluppo psicofisico hanno bisogno
di vederci chiaro, fra i tanti afffascinanti misteri del
mondo e della società.
Alfredo Venturi
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