FOGLIO LAPIS - DICEMBRE - 2016

 
 

Una storia di accumulazione disinvolta di denaro con lieto fine: quell'isolato newyorchese fra la Quinta e la Settantesima in cui la grande pittura europea celebra una sorta di rivincita culturale sull'egemonia americana – Alcuni suggerimenti su come è possibile elaborare il concetto di straniero – Nella stagione delle grandi migrazioni, è assolutamente necessario confrontarsi con l'altro, faccia a faccia, per scoprire che l'altro siamo noi

 

 

Chi è giù nelle miniere / è
nel punto più lontano
dagli uccelli / In cambio
della luce dell’oro ingoia
buio / Uomini sepolti per fare anelli
“Y la más fuerte conquista
En escuro se hacía”

Frick era diventato ricchissimo con le miniere di carbone acquistate grazie all’immensa fortuna lasciatagli dal nonno, l’imprenditore ebreo Abrahm Overholt, proprietario della Overholt Whiskey Distillery. Nel 1881 aveva conosciuto Lord Carnegie, il ricchissimo imprenditore britannico, classe 1835, che sembra abbia ispirato Walt Disney nel dare vita al celebre personaggio di Paperon de’ Paperoni, come lui “venuto su dal nulla”. I due si erano scambiati una buona dose di azioni delle rispettive società: Frick aveva ottenuto l’11% della Carnegie Steel Co, ricompensando l’inglese con una fetta della sua Coke Company. Carnegie, pian piano, aveva cominciato a ritirarsi, lasciando il socio a scervellarsi su come aumentare i profitti. Alla fine, Frick non aveva trovato niente di meglio da fare che abbassare vertiginosamente gli stipendi dei suoi dipendenti, ricattati tramite nuove assunzioni si personale preso a lavorare letteralmente a cottimo. Molti gli stranieri. Africani. Asiatici. Europei. Ne era scaturita una battaglia tra scioperanti e guardie armate dei padroni (battaglia di Homestead, 1892) che aveva lasciato sul campo sette agenti e nove operai. Lo stesso Frick, nei giorni successivi, era stato raggiunto da due colpi di pistola esplosi da un anarchico, ma se l’era cavata.

Nel 1910, Frick acquistò una proprietà sulla Fifth Avenue all’incrocio con la 70th Street per costruirvi una maison, ora nota come Henry Clay House e sede della Frick Collection. Si trattò di una grande costruzione che ricopriva un intero isolato. Frick disse agli amici che stava costruendo quel palazzo per “far sembrare la casa di Carnegie come una baracca di minatori”.

Oggi la Frick Collection è una delle più importanti collezioni di pittura europea degli Stati Uniti. Essa comprende numerose opere d’arte risalenti dal pre-rinascimento fino al post-impressionismo. Oltre ai dipinti contiene anche una bellissima collezione di tappeti, porcellane, sculture e mobili di pregio ed è un meraviglioso esempio di design e architettura.
Sono a New York. Il contesto mi riconduce alla Frick Collection. Resto colto di sorpresa dal Soldato con ragazza di Jan Vermeer e dallo statuario San Giovanni di Piero della Francesca, che mi sussurra: «San Giovanni ’un vòle ’nganni!». Fiero della Francesca, interloquisco: «Anima mia senza fiato, ti amo veramente:

La parola è stata il mio
leggerissimo dio
Non eterno
Non infinito
Ma onnipotente, sì
E clemente»…

Dalí Aquí riprendo la strada per New York. I piedi mi fanno male. Immaginate di camminare con l’occhi sulle cornee… «Stasera metterò i miei piedi dolci in una zuccheriera», raffermo.

Sono volato alla clandestina, posandomi sulla pista d’atterraggio dell’aeroporto John F. Kennedy (JFK) come un fiocco di neve in fuga da Parigi. Il volo dura un attimo, come se JFK e Charles de Gaulle combaciassero. In effetti, la metropolitana di New York e la Tour Eiffel sono talmente “databili” in questa fantastica, che dalla cima della torre posso essere contaminato da chi si trova in metropolitana. E mi sento straniero. L’estraniazione è scioccante! Con senso di rapimento, di svincolamento dalla realtà, di entusiasmo fanatico e di commozione.

Mi domando: «Veramente, sono stato straniero?». “Vedere gli stranieri” mi appare delineato in diverse modalità: vederli da vicino, vederli come concittadini, e sfociare in una dimensione inattesa: gli stranieri come dono.

1. Vedere gli stranieri da lontano. La lungimiranza.
Di fronte al fenomeno migratorio – antico quanto il mondo – e alla connotazione assunta in Italia appare fuorviante definirlo “emergenza”. Sarebbe più sensato considerarlo un’inevitabile conseguenza di fattori legati ai nostri comportamenti, a cominciare da guerre, sete di potere e sfruttamento iniquo delle risorse del pianeta. Da sempre è la fame che va verso il pane, non viceversa, e non ci sono né muri né mari capaci di fermare chi è talmente disperato da considerare un viaggio senza speranza preferibile alla certezza di una morte atroce nella propria terra. O pensiamo che se uno avesse un’aspettativa di sopravvivenza “a casa sua”, metterebbe a repentaglio la vita in un’avventura bestiale? “Vedere gli stranieri” da lontano significa lungimiranza sulle cause che li muovono. Significa capacità di pensare in grande per agire “politicamente” in senso forte e responsabile, così da colpire poteri e persone che prosperano sulla morte degli altri, dai trafficanti di armi a quelli di esseri umani.

2. Vendere se stessi negli stranieri: immedesimazione e identità.
Non dovrebbe essere difficile per noi applicare questo paradigma, la nostra “stranierità” è ancor oggi riconoscibile e vissuta. Lo straniero è lo specchio della stranierità che ci abita, è la faccia nascosta della nostra identità. Riconoscendo la stranierità in noi, possiamo compiere un cammino che non rimuove, non teme, non demonizza il forestiero. Scrive Julia Kristeva: “Lo straniero ci abita: è la faccia oscura della nostra identità. Riconoscendo lo straniero in noi, possiamo non detestarlo in lui”. E Edmond Jabès: “Lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero”. Questo atteggiamento eviterebbe il rischio di assolutizzare la propria identità, con arroccamenti difensivi dei valori. L’identità, sia personale che comunitaria, si costruisce attraverso l’incontro e la relazione con gli altri, diversi e stranieri. L’identità non è statica ma un divenire, non è monolitica ma plurale. I risorgenti localismi generano spinte xenofobe e razziste, tendono all’esclusione dell’altro. Lo straniero invece è portatore di una relazione che riguarda il nostro essere più profondo e ci fa cogliere il significato del monito biblico: “Ama lo straniero perché tu sei stato straniero” e continui ad esserlo rispetto a un orizzonte che non hai ancora attraversato.

3. Vedere gli stranieri da vicino: vincere le paure.
Giunto da lontano, lo straniero è radicalmente altro. È altro da me: era lontano e ora mi è vicino. Ora compete a me farmi suo prossimo, avvicinarmi a lui. Ma proprio in questo incontro emerge la paura. Anzi, due paure: la mia paura e quella dello straniero. Innanzitutto la sua paura, quella di chi è venuto in un mondo a lui estraneo, dove non è di casa e non ha casa. La mia paura, invece, è quella di ritrovarmi di fronte a uno sconosciuto entrato nella “mia” terra. Due paure a confronto. La paura va superata, ma per farlo è necessario affrontarla e non rimuoverla. Lasciata nelle mani degli imprenditori della paura, essa lievita fino a paralizzare ogni azione e a sprigionare mostri. Se si nega, si rischia di idealizzare la differenza dello straniero. La paura va razionalizzata, assunta, così da trasformarla in stimolo e in ingrediente per soluzioni.

4. Vedere gli stranieri come cittadini.
La razionalizzazione delle paure richiede che ci si interroghi su quali modelli di incontro tra stranieri e italiani attuare. Potremmo identificare quattro modelli: assimilazione, inserimento, integrazione, cittadinanza. Con una domanda di fondo: quando e fino a quando una persona è considerata straniera? È straniero l’immigrato giunto come tale, anche se infante, e lo rimane per tutta la vita? La con-cittadinanza è lo spazio comune in cui diviene abito mentale e culturale dell’insieme della società.

5. Vedere gli stranieri per quello che portano in dono: la relazione.
Ogni essere umano è razionale e relazionale, ed è grazie alle relazioni che può costruire se stesso e diventare un soggetto. Ma la relazione con gli altri non va da sé: si tratta di assumere comportamenti che rendano possibile l’incontro nel riconoscimento della dignità dell’altro. Il cammino è esigente e faticoso, ma senza l’altro non è possibile avanzare nella propria umanizzazione. Riconoscere l’altro nella sua differenza significa ammetterlo e, quindi, accettarlo. Il dialogo non può avere come fine l’uniformità, ma il fare cammino insieme, il ricercare un “con-senso”, un senso condiviso a partire da presupposti differenti. Nel dialogo si modificano i pregiudizi che abbiamo degli altri e di noi stessi. Senza affermare e vivere in primo luogo la fraternità, anche la libertà e l’uguaglianza sono fragili. Vedere gli stranieri come compagni di umanità restituisce pienezza al meglio di noi stessi e della società.

Conclusione
In uno splendido libro sui lavoratori immigrati in Europa uscito negli anni ’70, John Berger afferma: “Per mostrare la vita dei lavoratori ci occorrevano soprattutto le fotografie”. La fotografia è un mezzo potente per metterci di fronte al dolore degli altri. Ricordo una foto del 2009 su Paris Match: un immigrato respinto in Libia, inginocchiato, afferra implorante con le mani nude la mano coperta da un guanto azzurro di chi lo sta riportando là da dove lui voleva andarsene, foto che contiene più verità di ogni ragionamento. Ecco la verità che non andrebbe mai dimenticata, ecco il momento applicativo di una politica di respingimento colto nella fisicità del “no” a un disperato. Le affermazioni di principio devono confrontarsi con un volto preciso, entrare in un faccia a faccia con una persona che chiede asilo, futuro, accoglienza. Dietro alle decisioni sull’immigrazione vi è la sfida che il corpo del povero porta con sé: e la nostra risposta non può essere un piede che schiaccia la mano appesa a un barcone. La fotografia coglie l’elemento verità che sta dietro a ogni decisione: che interferirà con il corpo di un uomo, con il suo volto, dunque con la sua anima, la sua storia, la sua famiglia. Fino al punto di aiutare la vita o di farsi complice della morte.
Scrive Edmond Jabès: “Avvicinati, dice lo straniero. A due passi da me sei ancora troppo lontano. Mi vedi per quello che sei tu e non per quello che io sono”. Stiamo parlando di vedere gli stranieri, ma l’unica cosa seria è incontrarli nel faccia a faccia, ascoltare direttamente le loro storie, vederli nell’occhio contro occhio.

Qui concludo e chiudo un occhio
Chi non è stato
amato è
spaventato / Fa
finta di giocare
alla vita / in
realtà è un baro / con mille
scuse sta
acquattato
dentro al suo
riparo.

Amate il gher (lo straniero) perché foste gherim, stranieri.

Ma vorrei affrontare questo tema usando come chiave interpretativa il testo attribuito a Shakespeare che ci invita a “vedere gli stranieri”. Rievocando la minaccia di espulsione dal paese di persone “diverse” per religione e nazionalità, il Bardo invita a interrogarsi sui motivi di questa migrazione, poi esorta a immedesimarsi nei fuggiaschi per trarne le conseguenze a livello di comportamento etico.

   

 

                                                        Filippo Nibbi 

                                         

  


                                                  

 
 

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