FOGLIO LAPIS - DICEMBRE - 2011

 
 

L'uso degli stupefacenti ricavati dalla canapa indiana è da sempre oggetto di un dibattito fra oscilla fra liberalizzazione e proibizionismo, a volte con significativi ripensamenti – Il caso del quotidiano britannico Independent, che dopo avere appoggiato nel 1997 le campagne per la depenalizzazione, dieci anni dopo pubblicò una clamorosa autocritica – Nel frattempo il contenuto nella cannabis del principio psicoattivo THC era cresciuto di ben venticinque volte

 

La cannabis indica o canapa indiana è una pianta che fa molto parlare di sé. Dalle sue infiorescenze essiccate e conciate si ricava una sostanza chiamata in Messico marijuana, mentre dagli stessi fiori si può ricavare con un procedimento più sofisticato una resina più o meno densa che porta il nome di hashish. Secondo una catalogazione approssimativa, e scientificamente inappropriata, appartengono alle cosiddette droghe leggere. Quelle per le quali forti correnti d'opinione suggeriscono il libero uso, dunque la depenalizzazione. In realtà non esistono droghe leggere: anche la cannabis dà dipendenza e produce all'organismo di chi ne fa uso danni irreversibili. Inoltre la concentrazione, nei prodotti avviati al mercato, del più deleterio fra i principi psicoattivi, che i chimici chiamano tetraidrocannabinolo o THC, è da un anno all'altro sempre più alta. Le potenti organizzazioni criminali che hanno in mano questo mercato puntano cinicamente su una dipendenza sempre più difficile da superare, e dunque non esitano a moltiplicare il danno per la loro “clientela”. Questo fenomeno ha almeno il pregio di provocare salutari ripensamenti.

Un caso esemplare è quello del quotidiano britannico The Independent, che il 18 marzo 2007 diede prova di notevole sensibilità civile e deontologica pubblicando una clamorosa autocritica e chiedendo scusa ai lettori per l'errore commesso dieci anni prima: “Nel 1997 questo giornale lanciò una campagna per depenalizzare la droga. Se soltanto avessimo saputo allora quello che oggi possiamo rivelare...”. Ciò che l'Independent poteva rivelare nel 2007 era che nel Regno Unito decine di migliaia di giovani, per quasi la metà al di sotto dei diciott'anni, erano in cura per psicosi e altri problemi di salute mentale a causa dell'uso di droga, e che da anni questo numero era in costante, allarmante aumento.

Il giornale faceva particolare riferimento a una recente versione della cannabis immessa sul mercato, che in Inghilterra chiamano skunk: un termine assai significativo perché in inglese colloquiale significa più o meno farabutto, o mascalzone. Rispetto alla droga di dieci anni prima, per liberalizzare la quale sedicimila manifestanti, salutati fra l'altro anche dal plauso dell'Independent marciarono nell'Hyde Park di Londra, lo skunk rivelava all'analisi una concentrazione di THC venticinque volte più alta. E ciò rendeva questa droga altrettanto dannosa della cocaina e dell'eroina, più dannosa dell'LSD, il micidiale dietilamide dell'acido lisergico, e della cosiddetta ecstasy. Ovviamente questa realtà, e i rischi per la salute pubblica che essa comporta, sono tali da annullare un caratteristico argomento di chi difende la liberalizzazione: il fatto cioè che il proibizionismo produce il non trascurabile effetto secondario di favorire gli affari della criminalità organizzata. Si affrontino dunque le mafie del narcotraffico non portando alla luce del sole quel commercio clandestino, ma con strumenti di polizia coordinati a livello internazionale.

A supporto della sua nuova tesi, l'Independent citava altri ripensamenti illustri come quello di Colin Blakemore, capo del Consiglio britannico per la ricerca medica. “Il legame fra cannabis e psicosi”, diceva costui, “è oggi molto chiaro”. Il giornale riportava anche il parere di Robin Murray, docente all'Istituto londinese di psichiatria: “Ciò che i drogati prendono oggi è molto più potente che in passato... la conseguenza è che sempre più persone possono ammalarsi”. Secondo Neil McKeganey, del Centro di ricerche sull'abuso delle droghe dell'università di Glasgow, “la società ha pericolosamente sottovalutato quanto in realtà sia pericolosa la cannabis”.

Il quotidiano citava anche il futuro primo ministro David Cameron, all'epoca leader del partito conservatore, che dopo avere “fumato” da ragazzo ed essersi successivamente battuto per la liberalizzazione della cosiddetta droga leggera, aveva poi cambiato opinione di fronte all'evidenza delle risultanze sanitarie.

 
 
                                                        f. s. 
                                         

  


                                                  

 
 

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