L'uso
degli stupefacenti ricavati dalla canapa indiana è da
sempre oggetto di un dibattito fra oscilla fra
liberalizzazione e proibizionismo, a volte con
significativi ripensamenti – Il caso del quotidiano
britannico Independent, che dopo avere appoggiato
nel 1997 le campagne per la depenalizzazione, dieci anni
dopo pubblicò una clamorosa autocritica – Nel frattempo
il contenuto nella cannabis del principio
psicoattivo THC era cresciuto di ben venticinque volte
La
cannabis indica o canapa indiana è una pianta che fa
molto parlare di sé. Dalle sue infiorescenze essiccate e
conciate si ricava una sostanza chiamata in Messico marijuana,
mentre dagli stessi fiori si può ricavare con un
procedimento più sofisticato una resina più o meno densa
che porta il nome di hashish. Secondo una
catalogazione approssimativa, e scientificamente
inappropriata, appartengono alle cosiddette droghe leggere.
Quelle per le quali forti correnti d'opinione suggeriscono
il libero uso, dunque la depenalizzazione. In realtà non
esistono droghe leggere: anche la cannabis dà dipendenza e
produce all'organismo di chi ne fa uso danni irreversibili.
Inoltre la concentrazione, nei prodotti avviati al mercato,
del più deleterio fra i principi psicoattivi, che i chimici
chiamano tetraidrocannabinolo o THC, è da un anno all'altro
sempre più alta. Le potenti organizzazioni criminali che
hanno in mano questo mercato puntano cinicamente su una
dipendenza sempre più difficile da superare, e dunque non
esitano a moltiplicare il danno per la loro “clientela”.
Questo fenomeno ha almeno il pregio di provocare salutari
ripensamenti.
Un
caso esemplare è quello del quotidiano britannico The
Independent, che il 18 marzo 2007 diede prova di
notevole sensibilità civile e deontologica pubblicando una
clamorosa autocritica e chiedendo scusa ai lettori per
l'errore commesso dieci anni prima: “Nel 1997 questo
giornale lanciò una campagna per depenalizzare la droga. Se
soltanto avessimo saputo allora quello che oggi possiamo
rivelare...”. Ciò che l'Independent poteva
rivelare nel 2007 era che nel Regno Unito decine di migliaia
di giovani, per quasi la metà al di sotto dei diciott'anni,
erano in cura per psicosi e altri problemi di salute mentale
a causa dell'uso di droga, e che da anni questo numero era
in costante, allarmante aumento.
Il
giornale faceva particolare riferimento a una recente
versione della cannabis immessa sul mercato, che in
Inghilterra chiamano skunk: un termine assai
significativo perché in inglese colloquiale significa più
o meno farabutto, o mascalzone. Rispetto alla droga di dieci
anni prima, per liberalizzare la quale sedicimila
manifestanti, salutati fra l'altro anche dal plauso dell'Independent
marciarono nell'Hyde Park di Londra, lo skunk rivelava
all'analisi una concentrazione di THC venticinque volte più
alta. E ciò rendeva questa droga altrettanto dannosa
della cocaina e dell'eroina, più dannosa dell'LSD, il
micidiale dietilamide dell'acido lisergico, e della
cosiddetta ecstasy. Ovviamente questa realtà, e i
rischi per la salute pubblica che essa comporta, sono tali
da annullare un caratteristico argomento di chi difende la
liberalizzazione: il fatto cioè che il proibizionismo
produce il non trascurabile effetto secondario di favorire
gli affari della criminalità organizzata. Si affrontino
dunque le mafie del narcotraffico non portando alla luce del
sole quel commercio clandestino, ma con strumenti di polizia
coordinati a livello internazionale.
A
supporto della sua nuova tesi, l'Independent citava
altri ripensamenti illustri come quello di Colin Blakemore,
capo del Consiglio britannico per la ricerca medica. “Il
legame fra cannabis e psicosi”, diceva costui, “è
oggi molto chiaro”. Il giornale riportava anche il parere
di Robin Murray, docente all'Istituto londinese di
psichiatria: “Ciò che i drogati prendono oggi è molto più
potente che in passato... la conseguenza è che sempre più
persone possono ammalarsi”. Secondo Neil McKeganey, del
Centro di ricerche sull'abuso delle droghe dell'università
di Glasgow, “la società ha pericolosamente sottovalutato
quanto in realtà sia pericolosa la cannabis”.
Il
quotidiano citava anche il futuro primo ministro David
Cameron, all'epoca leader del partito conservatore, che dopo
avere “fumato” da ragazzo ed essersi successivamente
battuto per la liberalizzazione della cosiddetta droga
leggera, aveva poi cambiato opinione di fronte all'evidenza
delle risultanze sanitarie.
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