Dall’Italia
alla Gran Bretagna febbrili manifestazioni studentesche
rivelano, dietro le contingenti motivazioni delle
proteste, il disagio profondo che investe le giovani
generazioni – Se il Sessantotto mise in discussione il
“sistema”, stavolta l’elemento di raccordo sono le
incertezze esistenziali e un futuro imprevedibile –
Attorno a un fenomeno che meriterebbe un’attenzione ben
calibrata, balbetta la politica dei luoghi comuni
Che
cosa hanno in comune le manifestazioni studentesche
inscenate le scorse settimane a Londra e nelle città
italiane? Ufficialmente si dimostrava in Gran Bretagna
contro la triplicazione delle tasse universitarie, in Italia
contro una riforma dell’istruzione superiore “al
ribasso”, cioè accompagnata e motivata da robusti tagli
di spesa. Poiché le due misure sono entrambe figlie delle
ristrettezza dei bilanci pubblici, si può dire che proprio
questo sia il collante che lega i due fenomeni. Altro
elemento corrispondente: sia a Londra, sia a Roma e in altre
città italiane, le manifestazioni sono state turbate da
incidenti, vandalismi, scontri con la polizia. Le
ricostruzioni giornalistiche più obiettive ci parlano, al
solito, dell’infiltrazione di frange violente, motivate
dalla semplice intenzione di “far casino”, in una massa
di studenti intenzionata, al contrario, a dimostrare
pacificamente in difesa delle proprie ragioni. Si parla
anche di polizia impreparata a Londra, e dunque colta dal
panico di fronte a eccessi inaspettati, di polizia anche
troppo preparata a Roma, che sbarrando la via ai
manifestanti pacifici ha fornito pretesti ai violenti che
non aspettavano altro.
Inoltre
gli studenti britannici avevano in comune con gli italiani
un elemento di fondo. Se il fattore scatenante della
dimostrazione di Londra è stato la decisione del governo di
portare le tasse universitarie alla bella cifra di novemila
sterline l’anno, nei cortei è anche risuonata la protesta
più generale contro tagli di spesa che porteranno
rapidamente alla scomparsa di mezzo milione d’impieghi
pubblici. Così in Italia, l’opposizione alla riforma
dell’istruzione superiore s’inserisce nel quadro di un
malessere che si può riassumere in un dato: nel quadro
generale della disoccupazione quella giovanile sfiora un
terzo della popolazione interessata, nel Sud supera
addirittura la metà. E trattandosi quasi sempre di persone
che ancora non hanno avuto rapporti di lavoro, il loro unico
“ammortizzatore sociale” è la famiglia. Qualcuno ha
tentato paragoni con i movimenti studenteschi del
Sessantotto: ma se quaranta anni or sono si poneva in
discussione il “sistema”, al centro della protesta ci
sono oggi problemi esistenziali, attinenti al futuro dei
singoli.
Certo,
questo grande problema è soltanto indirettamente legato
alla condizione dell’università. Di cui nessuno, che si
sappia, nega la necessità di una riforma: sono le
caratteristiche di “questa” riforma a scontentare un
po’ tutti. I ricercatori, che sono fra i peggio retribuiti
del mondo, e nel testo cercherebbero invano disposizioni
sulla periodicità dei concorsi per uscire dalla loro
precaria situazione. Gli studenti, che si vedono tagliare le
borse di studio e perfino i buoni mensa. I docenti precari,
costretti ad alimentare la “fuga dei cervelli”, cercando
all’estero quelle gratificazioni scientifiche ed
economiche che si vedono negate in patria. Nulla da eccepire
invece sull’intenzione di ridurre o accorpare le sedi:
novantacinque atenei sono effettivamente troppi, a volte con
corsi di laurea che sembrano esistere soltanto per tenere in
piedi cattedre inutili, corsi frequentati a volte da un
numero risibile di studenti. Coloro che difendono queste
obsolete “baronie” mischiano le loro discutibili ragioni
con quelle sacrosante di chi vorrebbe un’università più
snella, più moderna, effettivamente tarata sul merito,
capace di incoraggiare anche chi non ha alle spalle famiglie
ad alto reddito.
Quest’ultimo
è un altro elemento che accomuna la polemica italiana a
quella britannica. Sono due le motivazioni di chi attacca
nel Regno Unito lo smisurato rincaro delle tasse
universitarie. La prima riguarda gli studenti meno abbienti
che proprio non ce la fanno, nonostante la possibilità di
dilazioni di pagamento fino al momento in cui la
qualificazione universitaria garantirà un reddito
lavorativo, ad affrontare un simile impegno. La seconda
motivazione: poiché da una buona istruzione usciranno
cittadini in grado di fornire beni o servizi migliori, è
interesse dello stato, che ne trarrà beneficio, finanziare
la formazione. Una posizione apparentemente statalista, che
pure era evocata nel programma dei liberaldemocratici, la
terza forza britannica fra laburisti e conservatori, ora in
evidente imbarazzo di fronte alla decisione del governo di
cui fanno parte. Dunque anche a Londra la politica balbetta
di fronte a queste sfide epocali: come in Italia, dove nel
trionfo dei luoghi comuni si passa da un’accettazione
acritica delle ragioni della protesta a una sua riduzione a
semplice leva polemica, che si accusa di volere
semplicemente sconvolgere gli equilibri di potere. Come se a
suo tempo non si fosse manifestato anche contro altri
governi, altri ministri, altre riforme.
-
Alfredo Venturi
-
|