Succede
ancora, nonostante gli allarmi internazionali, soprattutto
in Africa e Asia – Bande di guerriglieri impegnati nelle
cause più disparate non esitano ad arruolare minori, che
dopo un rapido addestramento, non di rado imbottiti di
droghe, vengono gettati nella mischia – Incerte le stime
del fenomeno - A volte la pressione di gruppi bene
intenzionati riesce a sottrarli all’incubo, e in questi
casi si apre il problema di un difficilissimo recupero
psicologico
È il caso limite
nel vergognoso fenomeno dello sfruttamento dell’infanzia.
Si sa dei milioni di bambini che nel mondo invece di sedersi
ai banchi di scuola sono costretti a lavorare nei campi,
nelle fabbriche, o a chiedere l’elemosina per strada o
addirittura a vendere il proprio corpo. Ma questo è proprio
il caso limite: bambini reclutati in formazioni armate,
addestrati a combattere e uccidere, infine scaraventati
nella mischia, a volte con il “supporto” psicologico di
stupefacenti. Capita in alcuni paesi, soprattutto africani o
asiatici, nei quali croniche situazioni di crisi determinano
guerriglie che a volte durano da anni.
Qualche giorno fa
l’Unicef, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa
specificamente dei problemi dell’infanzia, ha annunciato
di avere ottenuto dai guerriglieri Mayi Mayi, una formazione
armata ribelle che opera nel Kivu, una provincia della
Repubblica democratica del Congo (è l’ex Zaire, o per
andare più addietro nel tempo l’ex Congo belga) la
liberazione di 232 ragazzi, età media quattordici anni, che
erano inquadrati nei loro reparti combattenti. Adesso per
quei piccoli reduci si apre la problematica fase del
recupero psicologico e del reinserimento sociale. Subito
dopo la liberazione sono stati posti in istituti temporanei,
poi si cercherà di restituirli alle rispettive famiglie. Ma
il loro ritorno a una vita normale si preannuncia
tutt’altro che facile.
Una buona
notizia, quella che arriva dal Congo, ma che una volta
ancora ci pone di fronte al problema drammatico dei
bambini-soldato. La stessa Unicef che è riuscita a
riscattare i 232 ragazzi fa sapere che soltanto in quel
paese africano, dove la guerra civile strisciante da decenni
ha conosciuto di recente un inasprimento soprattutto nelle
province settentrionali, si registra un aumento preoccupante
dei reclutamenti di minori. Quanti siano è difficile
valutare, i reclutatori hanno tutto l’interesse a tenere
nascoste le cifre del fenomeno: certamente si tratta di
centinaia, forse di migliaia. E aree di crisi simile a
quella congolese ce ne sono molte altre, in Africa come in
Asia.
Di fronte a un
problema come questo, non è facile immaginare una
soluzione. Si può soltanto auspicare che operazioni come
quella portata a termine con successo dall’Unicef nella
Repubblica democratica del Congo si possano tentare anche
altrove con lo stesso esito. L’organizzazione umanitaria
ha tenuto segrete le modalità della trattativa, ha soltanto
precisato di avere avuto la collaborazione del gruppo Save
the Children e dei caschi blu, le truppe delle Nazioni Unite
che sono schierate nel paese africano in una problematica
missione di pace. Il riserbo dell’Unicef alimenta la
speranza che iniziative simili siano in corso con altri
gruppi armati: attendiamo dunque altre liberazioni, altri
bambini da strappare alla guerra e restituire alla scuola,
alla vita.
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f. s.
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