Il
programma di valutazione ha preso in esame i ragazzi di
cinquantasette paesi: il nostro si è classificato al
trentatreesimo posto per capacità di lettura, al
trentaseiesimo per competenze scientifiche, al
trentottesimo per familiarità con la matematica – Ma
questo non significa, come hanno titolato i giornali, che
i nostri quindicenni sono “somari”: infatti i criteri
dell’indagine penalizzano una scuola come l’italiana,
geneticamente svincolata dal reale
Molti lo ricorderanno: il primo trauma è datato 2000,
l’anno in cui per la prima volta l’Ocse (Organizzazione
per la cooperazione e lo sviluppo economico) realizzò il
Pisa (Programme for International Student Assessment). Si
trattava di intervistare un vasto campione di ragazzi di
quindici anni, chiamati a rispondere per iscritto a una
serie di domande relative alle competenze individuali in
materia di lettura nella propria lingua nazionale,
matematica e scienze naturali. Lo scopo era quello di
valutare non tanto l’avvenuta acquisizione di nozioni,
quanto la capacità di applicare le conoscenze maturate a
scuola alla soluzione di problemi nella vita reale. Si
voleva insomma stabilire se i ragazzi fossero in grado di
usare concretamente ciò che avevano imparato. I risultati
furono sconfortanti per l’Italia, irrimediabilmente
classificata ai piani bassi della graduatoria. Svettavano al
contrario alcuni paesi del Nord Europa e altri dell’Asia
orientale. Il nostro non fu il solo paese a dover fare i
conti con una realtà mortificante: la pessima posizione
della Germania, spietatamente rivelata dal Pisa 2000, provocò
in quel paese indignazione, polemiche, dibattiti, voglia di
correre ai ripari.
A sei anni di distanza dal primo esperimento, oggi il
Pisa è arrivato alla sua terza edizione. Nel corso del 2006
sono stati interpellati 400 mila studenti in 57 paesi. I
risultati confermano nella sostanza la situazione del 2000,
ma con alcuni spostamenti significativi. La Finlandia si
conferma al vertice sia per la lettura, sia per le scienze e
la matematica: così la Corea del Sud e Hong Kong, mentre il
Giappone, forte in matematica e scienze naturali, occupa una
posizione vicina alla media quanto a capacità di lettura.
Mentre la Germania, con le misure adottate in seguito al
salutare scossone di sei anni or sono, ha potuto scalare
qualche gradino in classifica (e lo stesso ha fatto il
Canada, che del resto già si trovava al di sopra della
media), Gran Bretagna e Francia sono scivolate indietro. Ma
non fino al punto di precipitare accanto all’Italia, che
rispetto a un 2000 già deludente ha perduto altre
posizioni. L’impressione complessiva, oggi come nelle due
precedenti rilevazioni del 2000 e del 2003, è il ruolo
dell’omogeneità sociale nel determinare risultati
positivi. Vediamo infatti ai vertici società compatte,
mentre i paesi a forte eterogeneità nazionale, come gli
Stati Uniti, navigano al di sotto della media.
Naturalmente non si tratta soltanto di questo. La
caratteristica dei sondaggi Pisa, volti non a stabilire
l’accumulo di conoscenze ma piuttosto la capacità di
servirsene, offre una facile chiave di lettura del disagio
che affligge la scuola italiana. Essa viene punita non perché
sia incapace di trasmettere conoscenze, ma perché le
conoscenze che trasmette tendono a essere astratte,
teoriche, svincolate dalla realtà. S’insegna a leggere ma
non a amare né a scegliere le letture, s’insegnano le
scienze con pochissime attività sperimentali di
laboratorio, s’insegna la matematica come se fosse
nient’altro che un insieme di regole astruse, senza farne
capire e apprezzare la capacità di lettura e
interpretazione del mondo. Al centro di queste lacune, e del
grande malessere che ne consegue, c’è un corpo docente
mal pagato e peggio motivato.
Scorporando il dato italiano nelle sua articolazioni,
si può vedere che le cose vanno un poco meglio al Nord
rispetto al Sud, un poco meglio nei licei rispetto agli
istituti tecnici. Ma la strada da fare è lunga, in tutto il
territorio nazionale e in tutti gli ordini di scuole. La si potrà percorrere puntando su un’accurata selezione
degli insegnanti, sulla loro formazione permanente, sul
recupero da parte loro di un ruolo sociale e di un livello
di trattamento economico che renda appetibile questa
professione, troppo spesso considerata come un ripiego.
Bisogna ostinarsi a pretendere una scuola che sappia essere
contemporaneamente vicina all’elaborazione scientifica,
che nel nostro paese offre livelli assai elevati, e alle
concrete esigenze della società.
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a. v.
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