C’è
molta approssimazione nei dati che riguardano la capacità
di leggere e scrivere: anche per la difficoltà di
definire esattamente che cosa s’intende come soglia di
alfabetizzazione – Ma una cosa è certa: la situazione
italiana è fra le più desolanti se si considerano i
paesi comparabili – I risultati di un’inchiesta
fondata sul censimento del 2001 non fanno che confermarlo
– Una sola luce nel buio: il ritorno della comunicazione
alfabetica attraverso i messaggi sms
Che cosa s’intende per analfabeta? L’analisi della
parola è facile: c’è un bell’alfa privativo davanti
all’alfabeto, dunque qualcuno sprovvisto dell’alfabeto,
o per essere precisi della conoscenza di quella preziosa
serie di segni grafici chiamati a rappresentare i suoni
della lingua. In pratica, la parola designa chi non sa
leggere né scrivere. Secondo l’Unesco, analfabeta non è
soltanto chiunque non conosca l’alfabeto ma anche chi,
conoscendolo, non è in grado di adoperarlo se non per
scrivere soltanto il proprio nome, o al più una frase
rituale mandata a memoria. Ci sono insomma dei gradi di
analfabetismo o piuttosto, se si preferisce considerare il
bicchiere mezzo pieno, dei gradi di alfabetizzazione. Ci
sono analfabeti totali e parziali. C’è inoltre un
analfabetismo di ritorno, che sarebbe nient’altro che una
ricaduta nel vuoto della non lettura e della non scrittura
da parte di chi un po’ di abc lo aveva incorporato.
La sostanziale imprecisione del concetto spiega
l’approssimazione dilagante negli studi in materia. Quanti
sono gli italiani, per esempio, che non sanno leggere né
scrivere? L’1,1 per cento fra gli uomini, il 2 fra le
donne, risponde l’Unesco (dati resi pubblici nel 2000, la
percentuale si riferisce al totale della popolazione oltre i
15 anni di età). Magari!, risponde l’Unla (Unione
nazionale per la lotta contro l’analfabetismo),
diffondendo i risultati di uno studio condotto
dall’università di Castel Sant’Angelo sui dati del
censimento del 2001. Fra quei risultati ce n’è uno che
parla addirittura di un 12 per cento della popolazione che
si può considerare analfabeta. È chiaro che qui il
concetto viene esteso ben oltre la totale incapacità di
leggere e scrivere. In questo studio si arriva a indicare
una massa di 36 milioni d’italiani, quasi i due terzi
della popolazione, che pur essendo tecnicamente in grado di
leggere e di scrivere ha ben poca dimestichezza con queste
pratiche.
Verso la fine dell’Ottocento un poeta siciliano,
Mario Rapisardi, facendo il verso a Goethe cantava beffardo:
“Conosci tu il paese dei floridi aranceti/ che ha su cento
abitanti settanta analfabeti?” Bene, da allora qualche
progresso lo abbiamo fatto, ma l’istruzione elementare
obbligatoria è ben lontana dall’aver compiuto l’atteso
miracolo, quello di produrre un paese di lettori tenaci e
appassionati, di gente disinvolta davanti al foglio bianco,
o alla tastiera alfanumerica. Il fiasco della scuola
italiana è cocente: risulta infatti che fra un quinto e un
quarto dei ragazzi e delle ragazze che escono dalla media
non sa leggere se non in modo approssimativo. Di fatto non
leggono, e alimentano le mortificanti statistiche sul
consumo di libri e giornali. Il linguista Tullio De Mauro,
uno dei massimi esperti del settore, denuncia che di fronte
a questa emergenza non solo non si fa nulla, ma si arriva a
tagliare i fondi destinati all’educazione degli adulti che
pure, a differenza dall’investimento scolastico, darebbero
frutti immediati.
Si parla tanto di scuola di massa, eppure ecco qui i
dati: sono soltanto quattro milioni gli italiani che hanno
seguito il corso completo di studi fino alla laurea, si
tratta di appena il 7,5 per cento della popolazione. Quelli
che hanno completato la scuola media superiore sono il 25,85
per cento. Il 30,12 per cento non è andato oltre la media
inferiore, mentre il 36,52 per cento si è fermato alla
quinta elementare. Poiché non può trattarsi soltanto di
vecchi, di gente cioè che andava a scuola quando
l’obbligo si limitava alle prime cinque classi, è chiaro
che siamo di fronte a una massiccia evasione del dovere
costituzionale di passare almeno otto anni sui banchi di
scuola, per tacere dell’obbligo prolungato più
recentemente introdotto. Non sorprende dunque che le
statistiche Ocse sull’istruzione collochino l’Italia al
ventottesimo posto fra i trenta paesi che fanno parte
dell’organizzazione: fanno peggio soltanto Messico e
Portogallo.
Ora poi si fa strada, con l’irrompere delle nuove
tecnologie, una nuova forma di analfabetismo, quello
informatico. Anche qui l’Italia è in ritardo rispetto
alla maggior parte degli altri paesi comparabili per reddito
e tradizioni culturali: i due terzi della popolazione non
sanno usare il computer. Non a caso la spesa per prodotti
informatici si limita al 2,02 del prodotto interno lordo,
mentre se si aggiunge quanto si spende per le
telecomunicazioni si arriva al 4,26: un dato che vede
l’Italia ventitreesima fra i venticinque paesi
dell’Unione Europea (più indietro soltanto Spagna e
Grecia).
Insomma andiamo piuttosto male, sia con la
lettura-scrittura tradizionale, sia con quella che si
avventura sugli infiniti sentieri della Rete. Il solo
spiraglio nel buio, per chi si sa contentare, è
rappresentato da quella sorta di riscoperta della
comunicazione alfabetica che è avvenuta fra i giovani e i
giovanissimi grazie ai messaggi sms. Si tratta di una
scrittura rudimentale e sincopata, ma essendo chiamata a
colmare un vuoto pneumatico davvero sconfortante, va
salutata e incoraggiata. In fondo non è poi così sballato
scrivere ke al posto di che: si faceva anche agli albori
della lingua italiana. E l’uso di sigle o di formule
abbrevianti (xke al posto di perché) non fa che condensare
il messaggio, può essere visto come un apprezzabile lavoro
di sintesi. Dopo decenni in cui la comunicazione,
soprattutto fra i più giovani, sembrava ridursi alla sola
oralità, i telefoni cellulari propongono dunque qualcosa di
simile a una riscossa, a una rivincita dell’alfabeto.
r.f.l.
|