Sono
stati raccolti in due volumi alcuni saggi comparsi sulla rivista Ricerche
Pedagogiche – I limiti delle riforme che si sono succedute
negli ultimi anni, da Berlinguer alla Moratti, rispetto a una
concezione dell’istituzione scolastica che sia fondata sulla scienza
pedagogica – Si tende invece a creare una scuola ideologica, che per
ciò stesso contraddice agli sbandierati principi dell’autonomia –
Il controverso rapporto fra educazione e istruzione |
La
trasformazione della scuola italiana in corso da alcuni anni, partita
con la riforma che portava il nome del ministro Luigi Berlinguer, poi
cancellata dal successivo governo di centro-destra, e sostituita con
la nuova riforma di Letizia Moratti, è al centro di una monografia di
Luciana Bellatalla, docente di Storia della scuola e delle istituzioni
educative all’università di Ferrara, che raccoglie e riorganizza
una serie di articoli comparsi sulla rivista Ricerche Pedagogiche:
La scuola che cambia: problemi tra competenza e conoscenza, Edizioni
del Cerro, Tirrenia, 2004. Le due riforme, dunque, che tanto hanno
fatto discutere. Si tratta di proposte assai diverse, e per
sottolineare questa diversità basta forse ricordare come da
Berlinguer e De Mauro, ministri della Pubblica Istruzione, si
sia passati a un ministro Moratti che ribattezzando il dicastero
(Istruzione, Università e Ricerca) non ha esitato a sbarazzarsi
dell’aggettivo così caro alla sinistra. Eppure
le due riforme così diversamente concepite hanno un elemento in
comune, l’enfasi sull’autonomia. Purtroppo, lamenta Bellatalla,
questo concetto viene inteso in modo ambiguo. Le fa eco Giovanni
Genovesi, che a Ferrara è docente di Pedagogia generale, nel suo
contributo introduttivo a un altro volume, da lui stesso curato ancora
per le Edizioni del Cerro: Scuola. Politica, saperi e
organizzazione, Tirrenia, 2004. Nessuna autonomia, scrive
Genovesi, è autoreferente, ma è l’anello di una catena, la cui
funzionalità come insieme deve essere puntualmente verificata. Di
fatto, in presenza della visione ideologica, dunque non scientifica,
della scuola che caratterizza la riforma Moratti, l’autonomia
finisce con il mascherarne l’accentuazione privatistica e
aziendalistica, e con il favorirne la deriva confessionale. Il volume
curato da Genovesi raccoglie i saggi di un gruppo di studiosi delle
università di Ferrara, Bologna, Milano-Bicocca e Parma, anche questi
ripresi da Ricerche Pedagogiche. Mentre
si rimanda alla lettura dei due libri, che sono opera di specialisti
ma non certo riservati agli addetti ai lavori, per entrare dei
dettagli delle singole analisi, ci preme qui gettare uno sguardo
d’insieme sull’idea di scuola che emerge da queste pagine. È una
scuola che considera se stessa non già un servizio, ma una struttura
portante dell’organizzazione sociale. Che non fornisce erudizione ma
cultura, e che considera la cultura un valore in sé. Che insegna non
a fare ma a pensare. Che cura la qualità della conoscenza, piuttosto
che la sua quantità. Che all’istruzione, cioè alla trasmissione
del sapere, antepone l’educazione, volta a realizzare le potenzialità
dell’individuo e a inserirlo armoniosamente nella società. Che si
propone di formare non dei produttori ma delle persone. Che rispetta,
nutrendosene, le specificità locali, ma in un quadro garantito dallo
Stato. Che svolge un ruolo essenziale per radicare nel corpo sociale
la solidarietà interculturale. Insomma,
una istituzione abbastanza diversa da quella immiserita nella formula
delle tre I (inglese, internet, impresa: ma anche italiano, si fa
notare, ha la stessa iniziale…), dalla scuola-ufficio di
collocamento, dalla scuola abbarbicata al nozionismo, dalla
scuola-azienda che offre il suo prodotto accuratamente confezionato
nel Pof, quel piano dell’offerta formativa che dovrebbe essere,
denuncia Bellatalla, la carta d’identità dell’istituto e che si
risolve invece in strumento promozionale, cui si affida il compito di
catturare finanziamenti e clientele. Del
Manifesto per la scuola del Duemila sottoscritto da Franco Frabboni e
Giovanni Genovesi rispettivamente delle università di Bologna e
Ferrara, che costituisce la conclusione propositiva del volume Scuola.
Politica, saperi e organizzazione, vogliamo qui riportare il punto
5, che s’intitola Difesa della scuola pubblica: “La scuola è un
affare pubblico, di cui è compito precipuo dello Stato, in tutte le
sue articolazioni, interessarsi senza indulgere a pericolose forme di
espropriazione a favore della privatizzazione del progetto formativo.
Soltanto ponendo la scuola pubblica al centro della sempre più
mutevole e complessa rete dei luoghi della formazione si potranno
sfidare e contrastare – con armi pluraliste (perché la scuola
pubblica è la sola agenzia educativa capace di assicurare il rispetto
della molteplicità delle culture: quindi, della pluralità dei punti
di vista antropologici, etnici, religiosi) e democratiche (perché la
scuola pubblica è la sola agenzia educativa capace di assicurare
all’intera sua utenza l’accesso alla cultura: dando di più a chi
ha di meno) – le persistenti sacche di marginalizzazione/esclusione
dell’infanzia come dell’adolescenza presenti tuttora nel nostro
Paese. In questa prospettiva, il sistema formativo pubblico è il solo
in grado di perseguire la finalità istituzionale e curriculare di una
scuola: efficienza, efficacia, equità.” La
scuola come affare pubblico: un punto da tenere fermo anche in tempi
di neoliberismo privatizzante, anche dopo la scomparsa del prezioso
aggettivo dai documenti ufficiali del ministero di Viale Trastevere.
a.v. |
FOGLIO LAPIS - DICEMBRE 2004