FOGLIO LAPIS - DICEMBRE - 2003

 
 

Tre storie, tre modi di porsi di fronte alla disabilità - Un ragazzo conteso: da una parte la famiglia, i compagni e alcuni insegnanti che lo vogliono integrare, dall'altro un capo d'istituto che lo intende escludere - Una docente che è troppo facile schernire, anche perché certi genitori difendono chi schernisce - Ma c'è anche il disabile che si fa strada nella vita, considera la questione con la necessaria lucidità e conduce con successo la sua battaglia dall'interno del problema   

 

C'è un ragazzo, Alberto, al quale viene negato un regolare esame di stato in un liceo scientifico a causa del suo handicap psicofisico, c'è una professoressa non vedente fatta bersaglio di un dileggio oltraggioso dai suoi allievi di terza in un istituto tecnico, e c'è Gabriele Viti, ventotto anni, una laurea in scienze politiche, un lavoro di ispettore alla Usl, consigliere comunale nella sua città, Cortona in provincia di Arezzo, scrittore (ha già pubblicato quattro libri) e da due anni promotore e membro di una commissione di medici e legali che si battono in tutta Europa e nel mondo affinché sia riconosciuta ed accettata l'affettività della persona con handicap, compreso l'aspetto della sessualità.

Gabriele porta con sé dalla nascita una grave disabilità di tipo muscolare, ha difficoltà nel camminare, nel mangiare e perfino nel parlare. Gabriele sostiene che la vicenda dell'alunno Alberto e della professoressa non vedente sono riconducibili a un'unica matrice, la carenza di educazione sociale alla diversità. Diversità che può esprimersi non soltanto in presenza di handicap psicofisici ma anche di nazionalità o radici culturali diverse, oppure di stato sociale: un povero è necessariamente un diverso in mezzo a gente cui non manca nulla.

La storia di Alberto si colloca in un ambiente, quello dell'Italia meridionale, già in se stesso problematico. Basti pensare che alla povertà vera e propria di molte famiglie e alle condizioni civiche spesso carenti (mancanza di adeguati collegamenti fra le città, carenza di acqua corrente per buona parte dell'anno) si contrappone l'amministrazione della Regione Sicilia, unica nel suo genere quanto a sprechi di denaro pubblico. É lo stesso padre di Alberto, pubblico ufficiale in quanto vigile urbano, a confermarci tristemente che la sanità regionale è la più penalizzata, mentre gli uscieri ricevono stipendi di sogno e certi funzionari vanno in pensione con liquidazioni di un miliardo di vecchie lire. Eppure ci sono sprechi perfino all'interno dell'assistenza sanitaria: per esempio i genitori di Alberto sono costretti ad andare in America, a Philadelphia, ogni sei mesi per le terapie, perché la Asl rimborsa questi costosissimi viaggi ma non la medesima cura che il figlio potrebbe seguire a Pisa, in un centro del tutto simile a quello americano. Assurdità che penalizzano l'intera comunità e sarebbe ora che finissero.

Dunque Alberto frequenta il quinto anno del liceo scientifico a Scordia, un paese dell'entroterra siciliano fra Catania e Siracusa. Nei primi anni di frequenza non ci furono problemi particolari, tanto è vero che alla fine del terzo anno Alberto, promosso con la media dell'otto nonostante l'impossibilità di eseguire le prove scritte, vinse una borsa di studio. L'anno scorso, in quarta, il preside cominciò a parlare di certificazioni di frequenza al posto di esami regolari, nonostante le proteste della docente di italiano e dell'insegnante di sostegno. Quest'anno docente di italiano e insegnante di sostegno sono state destinate altrove, alla faccia della continuità didattica, e la nuova professoressa all'inizio dell'anno ha detto ai genitori di Alberto che senza prova scritta non giudicherà il ragazzo idoneo a sostenere l'esame di stato.

Il padre di Alberto ricorda le norme che tutelano il disabile, o diversamente abile: per esempio è previsto per gli alunni con handicap intellettivo non grave la possibilità di svolgimento conforme ai programmi ministeriali, anche se semplificati attraverso la riduzione dei contenuti per alcune discipline. Tutto dipende, precisa la norma, da una decisione a maggioranza del consiglio di classe. In tal caso ogni docente deve precisare quali siano i contenuti minimi che l'alunno deve padroneggiare per potere raggiungere una valutazione sufficiente. Dunque nessuno può aprioristicamente stabilire che l'alunno non può essere in grado di sostenere l'esame.

Nel caso specifico gli insegnanti si trovano fra due fuochi: da una parte la famiglia e i compagni di classe, tutti solidali con Alberto, dall'altra il preside fermo nella sua decisione di non permettere che il ragazzo arrivi all'esame di maturità. Insomma è guerra aperta, se di guerra si può parlare: contro una famiglia che ha già i suoi problemi per gestire una situazione del genere. All'inizio dell'anno, quando la docente di italiano annunciò che senza prova scritta non avrebbe giudicato l'alunno, i genitori ritirarono Alberto dalla scuola con l'intenzione di non rimandarcelo: ma i compagni del ragazzo e le loro famiglie insistettero per riaverlo in classe. I compagni arrivarono a minacciare di non presentarsi all'esame, se Alberto non sarà ammesso. A scuola ci sono dei computer, ma l'uso ne è vitato ai ragazzi disabili, dunque proprio Alberto, che può scrivere solo alla tastiera, non può servirsene e deve portarsi un portatile da casa.

Una storia penosa, come penosa è quella di quei genitori che hanno preso le difese dei figli, allievi di terza in un istituto tecnico di Arezzo, che approfittando della cecità di una professoressa si erano esibiti abbassando i pantaloni davanti a lei: in questo stato li trovò un altro docente, entrato improvvisamente ed inaspettatamente in classe.

Gabriele sostiene che la famiglia ha un ruolo fondamentale nel formare la coscienza dei ragazzi cosiddetti normali. Gli ho chiesto che cosa si può fare quando invece la famiglia non trasmette certi fondamentali valori di rispetto umano. Mi ha risposto che l'arma vincente contro questo genere di incultura e insensibilità è l'integrazione più precoce possibile dei diversi nella comunità dei normali. Se fin dalla scuola materna i bambini imparano a convivere con la diversità, sarà ben difficile che da grandi qualcuno si permetta di insultare o deridere un diverso: la coscienza si forma infatti con l'esperienza e la condivisione. I compagni di Alberto, dopo avere vissuto alcuni anni con lui, non si permetterebbero mai, nonostante vivano in una difficile realtà ambientale e culturale, un comportamento come quello dei ragazzi di Arezzo davanti alla professoressa non vedente. Ne sono sicura anch'io come Gabriele.

 

                                                  Marilena Farruggia  

 

 

 
 

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