Tre
storie, tre modi di porsi di fronte alla disabilità - Un
ragazzo conteso: da una parte la famiglia, i compagni e
alcuni insegnanti che lo vogliono integrare, dall'altro un
capo d'istituto che lo intende escludere - Una docente che
è troppo facile schernire, anche perché certi genitori
difendono chi schernisce - Ma c'è anche il disabile che
si fa strada nella vita, considera la questione con la
necessaria lucidità e conduce con successo la sua
battaglia dall'interno del problema
C'è un ragazzo, Alberto, al quale viene negato un
regolare esame di stato in un liceo scientifico a causa del
suo handicap psicofisico, c'è una professoressa non vedente
fatta bersaglio di un dileggio oltraggioso dai suoi allievi
di terza in un istituto tecnico, e c'è Gabriele Viti,
ventotto anni, una laurea in scienze politiche, un lavoro di
ispettore alla Usl, consigliere comunale nella sua città,
Cortona in provincia di Arezzo, scrittore (ha già
pubblicato quattro libri) e da due anni promotore e membro
di una commissione di medici e legali che si battono in
tutta Europa e nel mondo affinché sia riconosciuta ed
accettata l'affettività della persona con handicap,
compreso l'aspetto della sessualità.
Gabriele porta con sé dalla nascita una grave
disabilità di tipo muscolare, ha difficoltà nel camminare,
nel mangiare e perfino nel parlare. Gabriele sostiene che la
vicenda dell'alunno Alberto e della professoressa non
vedente sono riconducibili a un'unica matrice, la carenza di
educazione sociale alla diversità. Diversità che può
esprimersi non soltanto in presenza di handicap psicofisici
ma anche di nazionalità o radici culturali diverse, oppure
di stato sociale: un povero è necessariamente un diverso in
mezzo a gente cui non manca nulla.
La storia di Alberto si colloca in un ambiente, quello
dell'Italia meridionale, già in se stesso problematico.
Basti pensare che alla povertà vera e propria di molte
famiglie e alle condizioni civiche spesso carenti (mancanza
di adeguati collegamenti fra le città, carenza di acqua
corrente per buona parte dell'anno) si contrappone
l'amministrazione della Regione Sicilia, unica nel suo
genere quanto a sprechi di denaro pubblico. É lo stesso
padre di Alberto, pubblico ufficiale in quanto vigile
urbano, a confermarci tristemente che la sanità regionale
è la più penalizzata, mentre gli uscieri ricevono stipendi
di sogno e certi funzionari vanno in pensione con
liquidazioni di un miliardo di vecchie lire. Eppure ci sono
sprechi perfino all'interno dell'assistenza sanitaria: per
esempio i genitori di Alberto sono costretti ad andare in
America, a Philadelphia, ogni sei mesi per le terapie, perché
la Asl rimborsa questi costosissimi viaggi ma non la
medesima cura che il figlio potrebbe seguire a Pisa, in un
centro del tutto simile a quello americano. Assurdità che
penalizzano l'intera comunità e sarebbe ora che finissero.
Dunque Alberto frequenta il quinto anno del liceo
scientifico a Scordia, un paese dell'entroterra siciliano
fra Catania e Siracusa. Nei primi anni di frequenza non ci
furono problemi particolari, tanto è vero che alla fine del
terzo anno Alberto, promosso con la media dell'otto
nonostante l'impossibilità di eseguire le prove scritte,
vinse una borsa di studio. L'anno scorso, in quarta, il
preside cominciò a parlare di certificazioni di frequenza
al posto di esami regolari, nonostante le proteste della
docente di italiano e dell'insegnante di sostegno.
Quest'anno docente di italiano e insegnante di sostegno sono
state destinate altrove, alla faccia della continuità
didattica, e la nuova professoressa all'inizio dell'anno ha
detto ai genitori di Alberto che senza prova scritta non
giudicherà il ragazzo idoneo a sostenere l'esame di stato.
Il padre di Alberto ricorda le norme che tutelano il
disabile, o diversamente abile: per esempio è previsto per
gli alunni con handicap intellettivo non grave la possibilità
di svolgimento conforme ai programmi ministeriali, anche se
semplificati attraverso la riduzione dei contenuti per
alcune discipline. Tutto dipende, precisa la norma, da una
decisione a maggioranza del consiglio di classe. In tal caso
ogni docente deve precisare quali siano i contenuti minimi
che l'alunno deve padroneggiare per potere raggiungere una
valutazione sufficiente. Dunque nessuno può
aprioristicamente stabilire che l'alunno non può essere in
grado di sostenere l'esame.
Nel caso specifico gli insegnanti si trovano fra due
fuochi: da una parte la famiglia e i compagni di classe,
tutti solidali con Alberto, dall'altra il preside fermo
nella sua decisione di non permettere che il ragazzo arrivi
all'esame di maturità. Insomma è guerra aperta, se di
guerra si può parlare: contro una famiglia che ha già i
suoi problemi per gestire una situazione del genere.
All'inizio dell'anno, quando la docente di italiano annunciò
che senza prova scritta non avrebbe giudicato l'alunno, i
genitori ritirarono Alberto dalla scuola con l'intenzione di
non rimandarcelo: ma i compagni del ragazzo e le loro
famiglie insistettero per riaverlo in classe. I compagni
arrivarono a minacciare di non presentarsi all'esame, se
Alberto non sarà ammesso. A scuola ci sono dei computer, ma
l'uso ne è vitato ai ragazzi disabili, dunque proprio
Alberto, che può scrivere solo alla tastiera, non può
servirsene e deve portarsi un portatile da casa.
Una storia penosa, come penosa è quella di quei
genitori che hanno preso le difese dei figli, allievi di
terza in un istituto tecnico di Arezzo, che approfittando
della cecità di una professoressa si erano esibiti
abbassando i pantaloni davanti a lei: in questo stato li
trovò un altro docente, entrato improvvisamente ed
inaspettatamente in classe.
Gabriele sostiene che la famiglia ha un ruolo
fondamentale nel formare la coscienza dei ragazzi cosiddetti
normali. Gli ho chiesto che cosa si può fare quando invece
la famiglia non trasmette certi fondamentali valori di
rispetto umano. Mi ha risposto che l'arma vincente contro
questo genere di incultura e insensibilità è
l'integrazione più precoce possibile dei diversi nella
comunità dei normali. Se fin dalla scuola materna i bambini
imparano a convivere con la diversità, sarà ben difficile
che da grandi qualcuno si permetta di insultare o deridere
un diverso: la coscienza si forma infatti con l'esperienza e
la condivisione. I compagni di Alberto, dopo avere vissuto
alcuni anni con lui, non si permetterebbero mai, nonostante
vivano in una difficile realtà ambientale e culturale, un
comportamento come quello dei ragazzi di Arezzo davanti alla
professoressa non vedente. Ne sono sicura anch'io come
Gabriele.
Marilena
Farruggia
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