L’iniziativa
della Commissione europea, che ha dedicato il 2003 alle
persone disabili, ha il merito di far riflettere su un
problema che investe particolarmente l’organizzazione
scolastica – Il nodo dei docenti di sostegno,
indispensabile supporto per una buona fruizione della
scuola da parte di chi deve superare uno svantaggio che può
essere fisico ma anche psichico – Alla classificazione
degli handicap ne andrebbe aggiunto uno di speciale
attualità: quello che riguarda gli alunni stranieri
Tutti
a bordo! È davvero indovinato, lo slogan della campagna che
la Commissione di Bruxelles ha lanciato proclamando il 2003
anno europeo delle persone disabili. Tutti a bordo, perché
non può essere certo la presenza di uno svantaggio
personale, di qualunque natura esso sia, a limitare il
diritto di ognuno di noi a una partecipazione la più
completa possibile a tutti gli aspetti della vita di
relazione. Poiché lo svantaggio, l’handicap come lo si
chiama prendendo in prestito una parola che a suo tempo
designava un gioco (hand in cap, mano nel cappello, da dove
si estraeva a sorte…), può anche essere irreversibile: ma
le sue conseguenze su una soddisfacente fruizione
dell’esistenza no, su quelle si può intervenire. Dunque
si deve intervenire. Si è molto parlato delle barriere
architettoniche, per esempio, che sono i meccanismi
attraverso i quali la disabilità fisica passa per così
dire dalla potenza all’atto, realizza cioè il suo
contenuto implicito. Rimuovere le barriere significa
eliminare l’atto, confinare l’handicap alla sua
dimensione potenziale. Significa tutti a bordo, senza
eccezioni.
Se
c’è un’imbarcazione, per restare nella metafora scelta
a simbolo dell’iniziativa europea, che davvero non può
permettersi di lasciare qualcuno fuori bordo, questa è
sicuramente la scuola: luogo per eccellenza in cui tutte le
provenienze individuali dovrebbero confrontarsi alla pari,
indipendentemente non solo dalle condizioni economiche e
sociali ma anche dai problemi personali rappresentati dalla
disabilità, o dalla diversa abilità, come anche si chiama.
A questo proposito la questione cruciale in Italia è quella
degli insegnanti di sostegno, che rappresentano
l’indispensabile supporto per chi altrimenti si trova
svantaggiato rispetto agli altri sia nell’apprendimento,
sia nell’altrettanto necessario processo di
socializzazione. La scarsità di questi docenti, legata
all’insufficienza delle deroghe rispetto a un rapporto
insegnanti/alunni notoriamente troppo basso, è uno dei temi
della grande protesta in corso, per esempio della
manifestazione del 29 novembre che ha visto centomila
persone, studenti, insegnanti, genitori, personale non
docente, sfilare nelle strade di Roma per iniziativa dei
sindacati. La soluzione che si profila, declassificare gli
handicap di tipo psicologico o legati alla provenienza
sociale, ai quali verrebbero negati gli interventi di
sostegno, non sembra certo tale da risolvere granché, a
parte qualche buco di bilancio.
Soprattutto
questo grossolano stratagemma, che pretende di risolvere il
problema cancellandolo, e confinando arbitrariamente la
disabilità al solo ambito fisico, non ci sembra affatto in
linea con lo spirito che anima l’anno europeo della
persona disabile. Non è lecito risparmiare risorse proprio
sulla pelle di chi attende, da una società che voglia
considerarsi civile, l’eliminazione di difficoltà
derivate da un particolare deficit personale, che altrimenti
impediscono al singolo di sviluppare appieno la sua
personalità e il suo contributo alla vita della comunità.
Un altro problema riguarda l’ambiente di accoglienza, non
sempre adeguato allo spirito di solidarietà che dovrebbe
animare la scuola. Troppo spesso ci tocca registrare le
reazioni di rigetto di chi rifiuta l’inserimento in classe
del disabile: nel timore che questo possa portare
pregiudizio agli altri, ai normodotati, e al buon
funzionamento didattico. Niente di più sbagliato, e proprio
dal punto di vista didattico, per cominciare: poiché al
contrario le presenze dei “diversamente abili” sono
spesso fattori di stimolo, e di identificazione della classe
in una frazione fedele della società.
Quando
si parla di handicap, disabilità, disagio bisognerebbe
includere in questa tematica, a nostro parere, una categoria
con cui la scuola italiana sempre più massicciamente sta
facendo i conti. È la categoria degli alunni stranieri, in
costante aumento da vent’anni a questa parte a causa del
sempre più consistente fenomeno immigratorio. I ragazzi
stranieri sono ormai più di 270 mila e si avvicinano al tre
per cento della popolazione scolastica. Secondo stime
ministeriali potranno superare il mezzo milione entro il
2010 e i 700 mila nel 2017. Perché li consideriamo nel
contesto della disabilità? Perché sono portatori di
profondi disagi, che vanno dalla conoscenza spesso
imperfetta e a volte approssimativa della lingua italiana
fino all’emarginazione cui spesso si vedono costretti,
quando la classe propone il riflesso speculare dei contrasti
che in materia di immigrazione agitano la società italiana.
Per queste ragioni quei ragazzi rischiano spesso di finire
fuori bordo.
Eppure
proprio la scuola è il luogo in cui, per appianare quei
contrasti e affrontare la grande sfida interculturale che
sarà tipica di questo secolo agli inizi, è possibile
lavorare a fondo. Certo, non ci si può nascondere che
quelle presenze implicano problemi di adeguamento e
strategie specifiche. Per esempio andrebbe correttamente
gestita la distribuzione degli alunni stranieri nei vari
istituti e nelle varie sezioni, in modo da evitare per
quanto possibile concentrazioni eccessive. Ma come spesso
capita il problema è anche risorsa, e la risorsa va
impiegata a vantaggio di tutti. Sappiamo che in molte scuole
già lo si fa, grazie a genitori tolleranti e insegnanti
illuminati che hanno scoperto, accanto alle necessità
particolari, soprattutto linguistiche, di quei ragazzi, la
grande ricchezza che possono portare in classe. Anche loro
sono “diversamente abili”, perché in cambio
dell’attenzione che meritano sono in grado di offrire le
testimonianze del loro mondo, della loro cultura, e perché
no, della loro religione. Insomma grazie a loro la scuola
italiana può rigenerare l’atmosfera asfittica che
tradizionalmente la soffoca, aprendo le sue finestre sul
vasto mondo.
Alfredo
Venturi
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