La
nascita e i primi dieci anni nella selvaggia natura
africana: per Tippi, una bambina francese,
l’accostamento al modello letterario di Mowgli è
d’obbligo – La piccola ha imparato a comunicare con
gli animali: ma ora, trapiantata a Parigi, non ne è più
capace – Riprendiamo la sua storia per gentile
concessione del settimanale la Repubblica delle donne, che
l’ha pubblicata nel numero del 20 ottobre 2001
Come
deve sembrarle piccola, Parigi. Quanto insulsi i lampioni,
l’alta moda, le brasserie, il Centre Pompidou che guarda
dalle finestre di casa, i compiti di matematica che
l’aspettano sul tavolo. E soprattutto gli uomini. Della
sua Africa, quella in cui Tippi è nata, dieci anni fa, le
sono rimasti il sofà, un paio di credenze, i tappeti, gli
orpelli, le foto e i ricordi. Nel bilocale in cui i suoi
genitori si sono trasferiti qualche mese fa, il resto del
suo vecchio mondo non può entrare. Abu, l’elefante
trentenne che era il suo angelo custode e nel tempo libero
faceva l’attore per i film di Disney; Linda, lo struzzo
che la portava in groppa attraverso la savana del Kalahari,
al confine tra Namibia, Sudafrica e Botswana, il loro
sterminato giardino privato; Mufasa, il leoncino che si
rotolava con lei. Da quest’avventura parigina devono
restare tutti fuori. Nell’appartamento in cui abita adesso
non le è neppure concesso di tenere un cane.
Tippi
collage, di Silvana Licari |
Quando
Silvie e Alain Degré, che di Tippi sono i genitori, le
spiegarono che dovevano partire, lasciare l’Africa, che il
lavoro che li aveva portati lì come fotografi era finito e
la loro vita sarebbe cambiata, per la bambina fu un piccolo
dramma. Tippi non rivolse la parola a nessuno per un mese.
Mentre gli altri organizzavano il trasloco, lei taceva.
Parlava soltanto con i suoi amici a quattro zampe. Per
salutarli. Per spiegare loro che non sarebbe tornata, che il
tempo dei giochi e delle corse era finito. “Ognuno di noi
ha un dono. C’è chi sa scrivere, chi fotografare, come
mamma e papà, chi recitare, come Abu. Io parlo con gli
animali. Lo so che mi chiamano piccola Mowgli. Ma io non uso
la voce. Capisco cosa i miei amici mi vogliono dire da uno
sguardo, dal modo in cui muovono le piume, alzano una zampa,
usano gli artigli”, scrive con tono da adulta la bimba in Tippi
aus Afrika, il libro-diario pubblicato dalla casa
editrice tedesca Ullstein. Non è supponenza né
presunzione, solo infantile candore. Nessun o come lei ha
avuto a disposizione uno zoo senza gabbie né confini. Tippi
ha vissuto dentro un documentario,
per dieci anni. I genitori hanno scelto per lei questo
destino, farne la protagonista di un lungo studio
fotografico e cinematografico sui rapporti fra i bambini –
una bambina, la loro – e la natura. Adesso le foto, la
storia, il film fanno il giro dei network e delle copertine
dei magazine.
Neppure
i tre nomi scelti per lei sono stati un caso. Tippi come
l’attrice Tippi Hedren, amata protagonista del cult
supremo di Hitchcock, Gli uccelli; Beniamine, più
semplicemente, dal nome di un amico di famiglia; Okanti come
la parola che la tribù
sudafricana degli Ovambo usa per chiamare la
mangusta. Selvaggia per nome, dalla nascita, e per scelta
altrui. Poi la vita parigina. Che, Tippi sostiene, le ha
insegnato soprattutto una cosa: parlare agli animali non è
un talento innato: “Adesso non ne sarei più capace”.
Artemide
Villani
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