Una
singolare ventata di nostalgia ha accolto il varo della
riforma dei cicli scolastici - Si rimpiange il passato,
si evoca la scuola elementare di De Amicis, commentatori
e personaggi della cultura e dello spettacolo vengono
sollecitati a evocare le loro prime esperienze fra i banchi
- Una volta ancora l'emotività prevale sulla ragione,
un misoneismo istintivo sulla documentata necessità dell'innovazione
E'
stato un pianto corale, una gara di nostalgiche evocazioni.
Quotidiani, periodici, trasmissioni radiotelevisive si sono
contesi i racconti, i ricordi, le lacrime. Che cosa ricorda
dei primi anni di scuola? Molti personaggi dell'attualità
non si sono fatti pregare: chi potrebbe resistere alle tenere
memorie dell'infanzia?
Particolarmente
richieste le testimonianze di gente un pochino attempata,
dunque in grado di tuffarsi con il ricordo in anni già ricoperti
dalla magica polvere della storia. Abbiamo così passato
in rassegna i banchi di legno verniciati di nero, le penne
col pennino, le indelebili macchie d'inchiostro, i calamai
periodicamente riempiti dai bidelli, la grande stufa di
terracotta rossa che riscaldava l'aula, le ore passate in
castigo dietro la lavagna. Qualcuno ha evocato ritratti
di re e duci appesi alle pareti, carte geografiche con grandi
pezzi di Africa dipinti di verde, le nostre colonie perbacco.
E soprattutto lei, la maestra, o lui, il maestro, visto
che l'insegnamento elementare non è sempre stato risorsa
quasi esclusiva dell'altra metà del cielo. L'insegnante
dei primi anni, protagonista della fase più delicata, e
spesso risolutiva, della nostra formazione. E' stato un
inno alla scuola deamicisiana delle buone intenzioni e dei
buoni sentimenti, alla piccola vedetta lombarda, alla maestrina
dalla penna rossa. Ai luoghi comuni insomma.
Un
autorevole commentatore del Corriere della Sera, Angelo
Panebianco, commenta criticamente l'annunciata riforma dei
cicli scolastici e versa una lacrima sulla fine di quella
scuola elementare che, cito testualmente, "ha insegnato
a tutti noi a leggere e scrivere". A tutti noi? Leggere
e scrivere? Ma una recentissima indagine comparata del Cede,
ripresa dall'Ocse e citata da Tullio De Mauro, ministro
della Pubblica Istruzione, rivela impietosamente che un
terzo degli italiani è sulle soglie dell'analfabetismo e
un altro terzo si aggira pericolosamente nei paraggi. Dunque
solo un italiano su tre è in grado di leggere e scrivere
senza problemi. Quanto poi al consumo di libri, alle cognizioni
di massa facilmente verificabili dando un'occhiata a una
della tante trasmissioni televisive fondate sui quiz, siamo
a livelli non esattamente lusinghieri. Se questi sono i
risultati della maestrina dalla penna rossa, sembra davvero
il momento di mandarla in pensione.
Ma
è proprio così? La riforma manda in pensione la vecchia
figura dell'insegnante elementare? Niente affatto. Si limita
piuttosto a integrarne la funzione con quella dei docenti
attualmente impegnati nella scuola media. Finora si è parlato
di cicli, creando il nuovo percorso della scuola di base,
ma ancora non sono stati definiti i programmi e i compiti.
Si pensa a un ruolo ancora esclusivo del maestro nel primo
biennio, quello della prima alfabetizzazione, seguita da
anni in cui i docenti "medi" affiancano l'insegnante elementare
e da anni in cui essi assumono il ruolo centrale. I critici
sostengono che in questo modo si fa un impresentabile miscuglio,
confondendo un personale programmato per avere a che fare
con i piccolissimi e professori addestrati per insegnare
agli adolescenti. Ma questo non è esatto: in realtà gli
attuali docenti di scuola media non hanno, di solito, una
formazione didattica. Sono semplicemente portatori di competenze
che si ritiene siano in grado di trasmettere. Tutto questo
viene facilmente dimenticato, nel fuoco di una polemica
preconcetta e misoneista, che prende il posto di quello
che invece potrebbe e dovrebbe essere un vasto articolato
dibattito sui contenuti della riforma.
Un
altro argomento critico riguarda gli organici. Si dice che
la riforma dei cicli finirà con il ridurre il fabbisogno
complessivo di insegnanti. Ora io non so se questo sia vero,
il ministero smentisce decisamente questa prospettiva, altri
la considerano realistica e inevitabile. Ma il punto non
è questo. Il punto è che la scuola non può ridursi a ufficio
di collocamento: la qualità di una organizzazione scolastica
non si misura sulla base della densità di occupazione che
vi è connessa. Si misura unicamente sulla base dei risultati:
del patrimonio di cognizioni, della capacità di pensare,
di organizzarsi, di risolvere i problemi, dell'attitudine
alla lettura, del livello di curiosità e del desiderio di
continuare ad apprendere che i ragazzi portano con se' all'uscita
dall'esperienza scolastica. Se, come sembra ovvio, una scuola
più efficiente significa anche un organico più folto di
insegnanti, tanto meglio: ma con tutto il rispetto per le
organizzazioni di categoria anche questo punto, come i tanti
che hanno polarizzato l'attenzione all'annuncio della riforma,
non è altro che un sacrificio della ragione sull'altare
del sentimento e del luogo comune. Così come lo è, con in
più l'aggravante del calcolo strumentale, la tentazione
di cavalcare, dopo averlo alimentato, il malcontento di
molti docenti di fronte alla riforma, visto che gli insegnanti
sono una bella fetta del corpo elettorale. La formidabile
scommessa di adeguare la scuola alla sfida dei tempi merita
ben altro che la miopia di queste visioni e il piagnucolio
delle nostalgie deamicisiane.
Alfredo
Venturi
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