Guelfi e ghibellini

Da una parte il bastione dello stato laico difeso a oltranza, dall’altra i lamenti della cattolicità assediata – Il dibattito sulla parità scolastica ha assunto toni fortemente ideologici, configurando due fronti contrapposti e inconciliabili fra i quali arrancano i propositi riformatori del governo – Eppure lo spessore del tema e il futuro della nostra scuola nel suo insieme meritano una riflessione più serena, sgombra di pregiudizi, lontana dalle misere astuzie della politica

Occupazione e scuola sono le due grandi priorità nazionali. L’occupazione, perché da essa dipende il presente. La scuola, perché da essa dipende il futuro. Dopo alcuni anni in cui la necessità di portare l’Italia in Europa ha imposto politiche stabilizzatrici che hanno finito con il sacrificare l’investimento sociale, oggi il mutare di certe coordinate permette di riaprire il discorso. Bisogna investire nel lavoro, bisogna investire nella scuola. Venendo alla parte che più direttamente ci interessa, l’istruzione richiede un ingente afflusso di risorse: anche umane, e qui la priorità scuola si lega felicemente con la priorità occupazione. Il nuovo secolo che sta per nascere impone che la scommessa della scuola, cioè la scommessa del futuro, venga impostata su basi di efficienza e di modernità. Il pacchetto delle regole sull’autonomia è un buon inizio ma non basta: è necessario un vasto programma di investimenti, sia a sostegno della stessa autonomia che altrimenti resterebbe una dichiarazione di buone intenzioni, sia per il rinnovamento delle strutture, per il loro adeguamento al domani che incalza. E’ del tutto evidente che di fronte alla grandiosità di questa sfida l’acceso dibattito in corso nel nostro paese, attorno alla proposta governativa di destinare fondi al soccorso indiretto della scuola privata, appare come uno sproporzionato esercizio polemico. Quasi risibile, se si pensa al cammino da farsi perché l’impegno per l’istruzione si adegui ai livelli resi imperativi dall’integrazione europea. La polarizzazione delle opinioni, e il loro aspro contrapporsi in parlamento, sui giornali, nelle piazze è scaturita da due circostanze: il fatto che la materia è stata oggetto di trattativa politica, merce di scambio per usare l’espressione più cruda, e il fatto che quando si parla di scuola privata si intende esclusivamente scuola cattolica. Una identificazione che si spiega con il peso preponderante degli istituti religiosi nell’istruzione non statale, ma che tuttavia non basta a definire correttamente, soprattutto in prospettiva, l’insieme dell’offerta privata. A parte le esasperazioni, dall’intransigenza ghibellina all’intolleranza guelfa, le ragioni che si contrappongono sono tutte rispettabili. Da una parte si invoca una libertà di insegnamento che i bilancini rosso potrebbero compromettere, dall’altra una costituzione che vieta allo stato (articolo 33, terzo comma) di accollarsi oneri per finanziare la scuola privata. Proprio per aggirare questo ostacolo si parla di aiuti indiretti: cioè non agli istituti ma alle famiglie, e saranno poi le famiglie a scegliere in piena libertà. A noi sembra irragionevole, nell’ottica laica che ci appartiene, qualificare tutto questo come un inaccettabile "regalo ai preti". Non a caso un laico come Giorgio La Malfa avanza una proposta di sovvenzione ancora meno diretta: perché non elevare dall’8 al 9 per mille la quota che dichiarando i redditi ogni contribuente può destinare alla propria confessione religiosa? Un altro laico, Umberto Eco, teme che in nome della parità lo stato possa arrivare, un giorno, a sovvenzionare scuole islamiche in cui magari s’insegna l’infibulazione. E’ facile rispondere che il contributo pubblico sarebbe un’arma in più, per pretendere da quelle scuole il pieno rispetto della legge. Eco ha comunque il merito di ricordarci quanto sia poco esauriente l’identificazione scuola privata-scuola cattolica. Un pluralismo culturale, e religioso, sempre più accentuato si tradurrà presto o tardi in una offerta formativa più articolata. Arroccarsi, come fa qualcuno oggi, nel bastione della laicità dello stato e pertanto negare alla "scuola etnica" del futuro la possibilità di esistere equivarrebbe a una brutale opera di assimilazione. E’ questo che si vuole? Ci sembra decisamente più saggio, più democratico e persino più laico, se si considera il senso profondo delle parole, sostenere la possibilità di una scuola che sia radicalmente rinnovata nel suo insieme, e si arricchisca al tempo stesso dei contributi che può offrire, all’interno di un’autonomia limitata solo dai vincoli di legge, ognuno degli universi culturali che fanno varia e multiforme la società italiana.

 

 

Parità, le ragioni delle scelte

I toni del dibattito sui finanziamenti diretti o indiretti alla scuola privata contrastano singolarmente con le motivazioni che spiegano i comportamenti delle famiglie, facilmente leggibili nei dati statistici – Nella maggior parte dei casi non si tratta di opzioni di principio, ma di scelte dettate da considerazioni eminentemente pratiche – Non a caso è nell’istruzione prescolare, dove l’offerta pubblica è carente, che la presenza di istituti non statali raggiunge dimensioni di massa, con oltre un quarto degli iscritti

Come si può desumere dalla tabella ISTAT che riportiamo, su circa nove milioni di iscritti ai vari ordini di scuole italiane, dalla materna alla secondaria superiore, meno di novecentomila frequentano le scuole private. Il dato, l’ultimo disponibile in forma elaborata, si riferisce all’anno scolastico 1995-96: ma si può considerare che il quadro tracciato tre anni fa sia nelle grandi linee ancora attuale. Uno contro nove: questo dunque il rapporto fra privato e pubblico in materiali istruzione prescolare, elementare e media inferiore e superiore. Se poi si passa all’analisi del rapporto pubblico-privato in riferimento ai singoli tipi di scuola, si può notare come il fenomeno sia estremamente differenziato. Come è tipico di tutti i valori medi, dal famoso pollo di Trilussa in avanti, anche questo inevitabilmente appiattisce un andamento che ha una sua dinamica eloquente e significativa. Soltanto nell’istruzione prescolastica la presenza del settore privato è massiccia, con il 26 per cento degli iscritti. Il fatto che questa considerevole percentuale non è confermata nei passaggi successivi, che vedono al contrario un brusco ridimensionamento della scuola privata rispetto al preponderare di quella statale, si può spiegare in un solo modo. A dispetto del tono prevalente nelle polemiche di questi giorni, che hanno fortemente ideologizzato il dibattito fino a configurare, attraverso la sommaria identificazione dell’istruzione privata con l’istruzione cattolica, il solito scontro italiano fra guelfi e ghibellini, la scelta della scuola privata è soltanto marginalmente una opzione di principio. Più frequentemente dipende da fattori del tutto pragmatici, da considerazioni di convenienza e di utilità estremamente concrete e niente affatto ideologiche. In particolare la forte presenza privata in materia di istruzione prescolare è chiaramente legata al fatto che in materia l’offerta pubblica è in certi luoghi cronicamente insufficiente e anche al fatto che la materna privata ha calendari e orari più ampi e flessibili. Una madre che lavora porta il bambino dalle suore non per scelta confessionale, ma a volte perché l’asilo pubblico è troppo lontano o ha chiuso le iscrizioni per esaurimento di posti, o infine più semplicemente perché le suore offrono un servizio più adeguato rispetto agli orari di lavoro. 

Distribuzione degli alunni fra scuola pubblica e scuola privata
Anno scolastico 1995-96
Tipo di scuola

numero alunni

sc. pubblica

sc. privata

Scuola materna

1582556

74,0

26,0

Scuola elementare

2816128

92,7

7,3

Scuola media inferiore

1901208

96,3

3,7

Scuola secondaria superiore

2693328

93,5

6,5

TOTALE

8993220

90,4

9,6

(fonte ISTAT, Rapporto sull'Italia - Edizione 1998, Il Mulino)

Questo aspetto era ancora più rilevante in passato, visto che più di recente anche l’offerta pubblica ha cominciato, sia pure in misura non omogenea al territorio, a tener conto di questa esigenza: ma ha ancora una sua concreta influenza statistica. Passando alla scuola dell’obbligo, abbiamo su un totale approssimativo di 4,7 milioni di alunni meno di trecentomila bambini iscritti alle scuole private. A sua volta questo dato appare vistosamente disomogeneo se consideriamo separatamente le elementari e le medie. I piccoli accuditi dalla scuola privata erano tre anni fa il 7,3 per cento del totale alle elementari, ma appena il 3,7 alle medie. Che cosa significa questo? Anche qui, probabilmente, incidono in qualche misura considerazioni di opportunità analoghe a quelle fatte a proposito della materna. In più, ci sono famiglie che iscrivono i bambini alle private perché solo qui è possibile iniziare gli studi prima dei sei anni: e a volte dopo la "primina" decidono di lasciarli proseguire il ciclo nello stesso istituto, anche per evitare un secondo impatto, non sempre facile, con la novità dell’ambiente. Una volta terminate le elementari, a ulteriore dimostrazione del carattere prevalentemente non ideologico di queste scelte, buona parte dei piccoli provenienti dalle private approda alla scuola media statale, che come si può vedere nella tabella ISTAT si occupa di oltre il 96 per cento dei quasi due milioni di ragazzi che frequentano i tre anni delle secondarie inferiori. Quello relativo alle medie inferiori è il massimo risultato conseguito dall’offerta pubblica, che in questo caso lascia alla concorrenza privata soltanto le briciole: nemmeno il quattro per cento degli alunni. Ma subito dopo la terza media ecco la concorrenza che risale qualche posizione. Oltre la soglia dell’obbligo la percentuale dei bambini che si affidano agli istituti privati torna infatti a salire, con un 6,5 per cento sul totale dei circa 2,7 milioni di iscritti alle medie superiori. E’ assai interessante notare il variare della consistenza media delle classi: mentre nelle scuole pubbliche dal primo al quinto anno il numero di alunni per classe diminuisce costantemente (in media da 24,6 il primo anno a 19,9 l’ultimo), nelle private succede esattamente il contrario: sono 14,1 alunni per ogni classe il primo anno, arrivano a 21,1 il quinto. Ancora una volta la spiegazione del fenomeno confuta la tesi dello scontro confessionale adombrata dal dibattito in corso: è evidente infatti che le classi in crescita delle medie superiori private accolgono via via ragazzi che alle pubbliche non ce l’hanno fatta e che solo per questo si rivolgono all’altro tipo di scuola, in cerca di una possibilità di riscatto. Si può valutare come si crede il fatto che nella scuola privata si va più facilmente avanti (non a caso gli avversari di quel sistema lo bollano come "diplomifico"): ma è un fatto che l’istituzione non pubblica funziona anche come struttura di recupero nei confronti di ragazzi in crisi di rendimento scolastico. Un ruolo sul quale varrebbe la pena di riflettere, nel momento in cui il recupero dei ragazzi difficili viene posto al centro di molte proposte innovative, a cominciare dalle nuove regole sull’autonomia. Il particolare affollamento delle ultime classi nelle secondarie superiori private si spiega anche con un’altra considerazione: l’ultimo anno di corso è precisamente quello in cui viene a cessare il vantaggio fin qui goduto della maggior facilità di promozione. C’è infatti di mezzo l’esame di maturità, che fa inesorabilmente rimbalzare indietro un certo numero di bocciati. Va anche considerato un ulteriore elemento che differenzia l’offerta privata da quella pubblica: il rapporto alunni-insegnanti. Sempre stando ai dati ISTAT riferiti all’anno scolastico 1995-96, nelle classi della scuola secondaria superiore statale ci sono mediamente 9,1 alunni per insegnante. Nelle private si scende a 4,8 alunni per insegnante. Parallelamente, la classe tipo nelle superiori pubbliche comprende 21,9 alunni, la classe privata solo 16,9. Questi valori assorbono, appiattendolo nell’uniformità della media, l’andamento degli organici di classe dal primo all’ultimo anno di corso, discendente nella scuola statale e discendente nella privata, al quale abbiamo accennato più sopra. Va infine considerata la distribuzione territoriale dell’offerta, che si presenta piuttosto eterogenea. Circa un terzo delle secondarie superiori private si trova nella parte nordoccidentale del paese. La Lombardia è la regione con la più alta affluenza a questo tipo di scuole, con un 11,4 per cento che si avvicina al raddoppio rispetto alla media nazionale del 6,5. Al di sopra della media nazionale si collocano anche la Liguria e il Piemonte (attorno al 10 per cento), in misura minore il Lazio (8,4 per cento) e la Sicilia (7,8).

                                                                         f.s.

 

Verso la scuola arcobaleno

Sono poco più di 50 mila gli alunni stranieri sui banchi delle materne, delle elementari, delle medie inferiori e superiori, con una presenza maggioritaria, quasi la metà, nelle elementari – La tendenza, connessa con i forti flussi migratori, è in aumento – Erano infatti 20 mila nell’anno scolastico 1990-91 e saranno 100 mila nel 2000-01 – Provengono da 35 paesi e sono particolarmente concentrati nelle grandi città – Le iniziative di sostegno per superare lo scoglio linguistico e il problema dell’intolleranza

Il record appartiene alla scuola elementare di via Russo a Milano, dove gli alunni stranieri costituiscono il 26,3 per cento degli iscritti. La presenza scolastica dei figli delle comunità immigrate si concentra nelle grandi città, in particolare Milano, Roma e Torino. Rispetto a quegli addensamenti metropolitani, che già caratterizzano la scuola come tipica di una moderna società multietnica, il dato medio nazionale può apparire persino fuorviante. Si parla infatti di una presenza straniera complessivamente ancora modesta: soltanto nelle elementari supera l’uno per cento degli iscritti mentre nelle materne, secondo i dati Caritas riferiti all’anno scolastico 1996-97, si ferma allo 0,87, nelle medie allo 0,80, e nelle secondarie superiori non va oltre lo 0,26 per cento. Provengono da 35 paesi di tutti i continenti. In tutto sono poco più di 50 mila, cioè neanche lo 0,5 per cento della popolazione scolastica complessiva, che fra le materne e le medie superiori sfiora i nove milioni. Ma non si tratta certo di un dato statico: basti pensare che otto anni fa gli stranieri sui nostri banchi erano soltanto 20 mila, e che si calcola raddoppieranno, superando così i centomila cioè oltre l’uno per cento del totale, entro i prossimi due anni, per poi proseguire in costante progressione negli anni successivi. I flussi migratori compensano così parzialmente gli effetti del declino demografico italiano, rallentando il calo della popolazione scolastica. In prospettiva, si delinea dunque un accentuato dualismo fra scuole metropolitane multietniche e istituti dei centri minori in cui la componente straniera rimarrà marginale o del tutto assente. Tutto questo comporta naturalmente la necessità di certi adeguamenti, a cominciare dalle iniziative di sostegno per aiutare gli alunni stranieri a superare lo scoglio della lingua. Uno scoglio che per alcuni, i bambini nati in Italia o venuti qui piccolissimi, è relativamente modesto, ma che per gli ultimi arrivati, e sono tanti dal momento che i flussi migratori si sono intensificati proprio negli anni più recenti, è piuttosto arduo. Il problema riguarda indirettamente anche i loro genitori, che si trovano spesso in difficoltà negli adempimenti burocratici e nei rapporti con la scuola: ma l’esperienza insegna che viene gradualmente superato dopo i primi anni di frequenza fino a rimanere soltanto un ricordo. Dove invece le strutture scolastiche mostrano fino in fondo il loro tradizionale difetto di flessibilità è nel campodell’accettazione dei figli di immigrati non in regola con l’anagrafe. Come si sa esiste una norma molto avanzata, la legge Contri, che impone l’obbligo di accogliere i bambini indipendentemente dal fatto che le loro famiglie abbiano o non abbiano le carte in regola. Ma di fatto la legge è largamente disattesa, e si continuano a richiedere documenti e certificati impossibili da esibire da parte dei non residenti, nel consueto palleggio di responsabilità e competenze. Ancora una volta siamo insomma di fronte alla caratteristica contraddizione italiana: ottime intenzioni da una parte, dall’altra l’incapacità di concretizzarle. Naturalmente la presenza in classe di alunni stranieri rappresenta per gli insegnanti una sfida e uno stimolo. Uno stimolo, perché offre di per sé un prezioso ampliamento di orizzonte, una base dalla quale partire per affrontare i temi della diversità delle culture, delle lingue e dei costumi, della frammentazione nazionale e statuale dell’umanità, della pluralità delle esperienze storiche, delle coordinate geografiche e climatiche, dei movimenti migratori che stanno mutando la composizione della società, della trasformazione del nostro paese da terra di emigranti a luogo di immigrazione. Un’occasione per insegnare il rispetto dell’altro, che è come dire farlo sentire meno "altro", anche puntando sulla naturale capacità di socializzare, nel gioco per esempio, che caratterizza i bambini. Ma quella presenza rappresenta anche una sfida, perché non di rado i bambini si portano da casa pregiudizi che a volte sconfinano apertamente nella xenofobia e nel razzismo. Problema questo che del resto non riguarda soltanto gli stranieri: sono recenti i casi di intolleranza, registrati in scuole di Roma e di Genova, a danno di alunni italiani di religione ebraica. Ovviamente in questa materia la vigilanza non è mai troppa: purtroppo si cerca troppo spesso, quando si verificano casi come questi, di mettere la cosa a tacere evitando ogni pubblicità e soprattutto ogni sanzione,rinunciando così a trarre spunto dagli episodi per dimostrare – non è certo difficile – l’intrinseca stupidità dell’intolleranza e dei complessi di superiorità. E’ lecito augurarsi che ci siano insegnanti in grado non solo di impartire queste lezioni, ma anche di trasmettere alle famiglie, attraverso i loro figli, quel messaggio rassicurante di cui molto spesso hanno bisogno. L’intolleranza nasce a volte da una sensazione di insicurezza, nel caso specifico connessa con l’enfasi della stampa sull’"invasione" dei clandestini, sulla frettolosa identificazione straniero-criminale, su slogan tipo "vengono qui a portarci via il lavoro". Una pacata riflessione in aula sul carattere largamente arbitrario di questi luoghi comuni, naturalmente con gli strumenti logici appropriati, può essere utile non soltanto alla crescita intellettuale dei bambini, ma di rimbalzo anche a una visione più equilibrata, da parte delle famiglie, della lenta e profonda mutazione sociale alla quale stiamo assistendo.

                                                                                                     s.f.

 

Come recuperare i ragazzi difficili

L’esperienza di un ex campione di pallacanestro per sei anni assessore a Trapani – Una città in cui scarseggia il lavoro, il che spinge certi genitori a rivolgersi ai figli, sottraendoli così alla scuola, per far quadrare in qualche modo il bilancio – Se la frequenza scolastica implicasse un ritorno economico per le famiglie più disagiate… - La breve fortuna di una iniziativa che offriva bambini e ragazzi la possibilità di socializzare attorno alla cultura, alla musica e alo sport

"A Trapani, dice Francesco Mannella, la dispersione scolastica è un fenomeno legato alla mancanza di lavoro. Mi spiego: poiché il lavoro manca anche per gli adulti, se si profila peri bambini la possibilità di guadagnare qualcosa vengono ritirati dalla scuola.questo succede soprattutto nei quartieri popolari, dove le famiglie tendono a riversare la questione lavorativa anche sui figli. Se il bambino può produrre qualcosa, anche le trecentomila lire al mese, preferiscono mandarlo a lavorare che mandarlo a scuola. Io penso che il problema non nasce dalla società in sé, nasce dalla famiglia. Più che sui ragazzi, bisognerebbe lavorare sulle famiglie, o quanto meno sugli uni e sulle altre. Ogni progetto che non coinvolga anche le famiglie rischia di fare buchi nell’acqua…". Mannella è stato per sei anni assessore a Trapani, una città difficile per molte ragioni non soltanto economiche e sociali. Si è occupato di servizi sociali, sport e tempo libero: oggi è consigliere comunale. Con un passato atletico di successo, è stato nazionale giovanile di pallacanestro, è particolarmente attento al ruolo sociale dello sport. Nella sua analisi sul malessere scolastico chiama dunque in causa il ruolo della famiglia. "Coinvolgere i genitori è difficile, me ne rendo conto, ma è fondamentale. Ci sono certe situazioni, per esempio il ragazzo con il padre in carcere, in questo caso è facile che il circolo vizioso continui, o almeno che in mancanza dell’introito del padre incarcerato la madre dica al figlio che deve andare a lavorare… Ora, se i progetti prevedessero un ritorno economico sulla famiglia in caso di frequenza scolastica, potrebbe essere una soluzione…"

Si parla di abbandoni scolastici determinati dalle necessità economiche della famiglia. Ma una delle cause degli abbandoni non può essere l’insuccesso a scuola?

"E’ una delle cause, una causa importante, ma non saprei dire quanto influisca sull’insieme del fenomeno. Una causa che comunque pone alla scuola un problema difficile: è meglio avere ragazzi ben preparati a costo di perdere qualcuno per strada o tenerli tutti a costo di un livello medio di formazione un poco più basso? A me pare meglio accettare gente meno formata che rassegnarsi ai disadattati. Meglio tenersi vicine le persone, se sono vicine puoi intervenire in mille modi, ma se sono lontane non le rivedi più".

Anche noi della LAPIS pensiamo che le bocciature nella scuola dell’obbligo siano assurde.

"Così come è assurdo espellere una persona e poi spendere energia per recuperarla quando non è più possibile. Cerchiamo piuttosto di mantenere il contatto con il ragazzo difficile, interveniamo prima che abbandoni, con delle risposte, delle strutture…"

Ma ci sono le strutture? A Trapani per esempio?

"Da assessore avevo avviato un centro socioculturale, avevo l’intenzione di farne non un ‘lebbrosario’ o un ghetto per quelli che hanno bisogno. Doveva essere aperto a tutti, allo stesso tempo essere un osservatorio per capire dove stava il problema. Ma la nuova amministrazione di centro-destra ha bloccato l’esperimento. E’ un peccato, perché poteva nascerne qualcosa di buono, cominciavano a ruotare su quella struttura tutti i bambini del centro storico. Molti recuperi reano diventati possibili. C’erano una ludoteca, un teatro delle marionette, un grande spazio da animare, corsi di teatro e di musica, un ‘progetto week-end’ con attività per i bambini il sabato e la domenica, per esempio danza e aerobica, e cominciava a venire gente… Ma poi il mandato è finito,la maggioranza è cambiata, mi è mancata la possibilità di consolidare le iniziative nei successivi quattro anni…"

Tutto questo non c’è più?

"E’ tutto fermo, sostituito magari da iniziative più spettacolari ma a mio parere meno incisive. Dove io mi attendevo un ritorno sociale, si vuole invece un ritorno politico. Mi hanno persino accusato di gestire i soldi del comune in maniera disinvolta, hanno detto che consideravo il conto corrente come se fosse mio personale… Per cautelarmi ho dovuto fare un esposto alla magistratura".

Quali erano le idee guida di questo lavoro?

"Il discorso basilare era questo: i ragazzi vanno bene a livello ricreativo fino ai 12 anni, perché ci sono associazioni sportive che fanno egregiamente il loro lavoro. A 13 anni c’è la famosa mortalità sportiva, perché lo sport non è più ricreativo ma diventa agonistico. Questo comporta una selezione naturale: nel momento in cui lo sport diventa agonismo i ragazzi che non sono adatti vengono scartati: un po’ come nella scuola. Allora mi sono detto: il comune non deve più occuparsi dei cento bambini che fanno attività dagli 8 ai 13 anni, ma di quei novanta che a 13 anni smettono di fare sport, perché vanno avanti solo in dieci. E soltanto uno di questi dieci continuerà oltre i 19 anni".

Che rapporto c’è fra abbandoni scolastici e criminalità minorile?

"Diciamo che ci deve essere un humus particolare, mi riferisco agli ambienti di provenienza. Non è che un ragazzo va rubare perché non sa che fare. Certo, si può andare a rubare le ciliegie o le mele per stare insieme, per divertimento, per gusto del rischio, chi non lo ha fatto… ma il rubare per il profitto credo che nasca perché ci sono altri che ti invitano a farlo. Purtroppo le famiglie che hanno l’esigenza di far quadrare il bilancio hanno i figli a rischio perché sono proprio i genitori che li spingono a procurare soldi. Quindi se il ragazzo non può inserirsi nel mondo del lavoro che cosa gli resta? Rubare e rivendere".

Dunque si marina la scuola per fare attività illecite?

"No, marinare per questo no. In genere chi decide di fare questo a scuola non ci va più, segue modelli di comportamento che lo fanno crescere in un certo modo, ed è molto difficile a questo punto fargli capire certe cose…"

Esiste a Trapani un problema di tossicodipendenza nella scuola?

"Non credo che si possa parlare di tossicodipendenza, solo dell’uso di droghe leggere, lo spinello per intenderci, che nelle medie superiori è molto diffuso. A non c’è niente di strano, per ragazzi che si avvicinano alla sigaretta a 13-14 anni lo spinello diventa un passaggio quasi automatico. Quando io cominciai a fumare lo spinello non c’era, ma se ci fosse stato probabilmente ne avrei fatto uso".

Che ne dice dell’elevamento dell’obbligo scolastico, della prospettiva di portarlo fino ai 18 anni di età?

"Credo che cambierà ben poco riguardo alla frequenza scolastica. Ovviamente la cosa è positiva, ma l’esigenza lavorativa viene prima. Qui il problema numero uno è il lavoro non la scuola".

E le nuove regole sull’autonomia, la possibilità a partire dal 2000/01 di adeguare programmi e orari alle esigenze locali?

"Potrebbe essere una cosa buona. L’autonomia è sempre un’ottima cosa, quando nasce con lo spirito giusto. E lo spirito c’è, le cose piano piano cominciano a cambiare, si usano i computer, ci sono ragazzi che tornano il pomeriggio e fanno attività sportive. Anche a Trapani. Dal punto di vista dell’edilizia scolastica questa città è un’isola felice: per esempio ogni scuola ha una palestra, cosa obbligatoria per legge ma non sempre le cose vanno così. E’ un guaio, perché la scuola dovrebbe essere un posto accattivante per il bambino, un punto di riferimento. E lo sport è importante, può salvare molte situazioni".

 

Che classe hai fatto?

Grazie a un’intesa fra la LAPIS e il Comando della Regione Militare Sud, fra pochi mesi partirà in alcune province meridionali un’indagine conoscitiva sulle esperienze scolastiche dei giovani di leva – Un campione di 24 mila interpellati.

Come va la scuola in Italia? Proviamo a chiederlo ai militari di leva, freschi di studi o di abbandoni scolastici. Un’indagine conoscitiva su vasta scala sta per scattare in alcune aree nevralgiche del Sud. Per due mesi, febbraio e maggio 1999, tutti coloro che si presenteranno alla visita di leva-selezione nei distretti di Napoli, Bari e Catanzaro saranno interpellati sul loro grado di istruzione e sulla loro esperienza scolastica. L’indagine, che riguarderà un campione altamente significativo della popolazione maschile, circa 24 mila giovani, è frutto di un’intesa, sottoscritta a Napoli il mese scorso, tra il Comando della Regione Militare Sud e la LAPIS. Come ben sanno i lettori di questo mensile, fin dalla sua fondazione poco più di un anno fa la LAPIS si è imbattuta in un ostacolo: sui temi della dispersione scolastica, che sono al centro della sua azione, i dati sono incerti e le statistiche approssimative. Questa indagine fra i ragazzi del Sud, un’area di particolare interesse per le tematiche del disagio giovanile, si ripromette dunque di colmare, grazie alla collaborazione dell’Esercito, un vuoto di conoscenze che nuoce alla comprensione delle nostre problematiche e a ogni attività di studio e di proposta. I giovani di leva saranno invitati a rispondere, con ovvie garanzie di riservatezza e anonimato, a domande che riguardano il curriculum scolastico, il rapporto scuola-famiglia, le eventuali abitudini di lettura, la valutazione del tema educativo e delle sue prospettive. Dopo questo primo esperimento si progetta di estendere l’indagine ad altri distretti.

 

Prima la musica, poi le parole

Ancora sull’"arte di inventare il possibile" – Perché a Cecilia piaceva tanto il numero sei: un numero con la pancia, come la sua mamma incinta – Il mistero di una "contina" che attraversa, forse aiutata dalla storia, le aree linguistiche d’Europa: da Milano alla Croazia e fino in Russia – Come insegnare ai bambini a ritrovare una strada e a fare un lavoro, riproducendo percorsi mentali che si sovrappongono a quelli naturali

Fantastica: "L’arte di inventare il possibile e di renderlo reale con il gusto del sogno, della creatività e del piacere" (F. Nibbi): disciplina propedeutica alla poesia (momento di autenticità assoluta, conseguito mediante la re-invenzione linguistica e la ri-fondazione della realtà). (Devoto – Oli, Dizionario della lingua italiana).
La Fantastica – aggiungo – stabilisce un binomio fantastico tra significante e significato, esprimibile con un’unica frase: "Prima la musica, poi le parole". Ciò significa che, quando si costruiscono le parole, deve scattare una scintilla d’ordine intuitivo fantastico, prettamente musicale, che ci permette d’avere orecchio e naso nel riconoscere come nostra ogni parola e adoperarla come "picciola metafora" (l’espressione è di Vico) nella creazione della realtà.
Come fare a conseguirlo?
Osserviamo i bambini: come gatti annasano ogni cosa. Annasano e annusano per scoprire il proprio ambiente, circoscriverlo, per ritrovare il proprio simile. Ho visto Cecilia, una bimba di tre anni, e le sue compagne fare "naso-naso" "orecchio-orecchio" "lingua-lingua" l’una con l’altra. Sicuramente, l’ho fatto anch’io, fin da bambino, di strofinare il mio naso su quello di un altro, o lo volevo fare!… Forse l’ho visto fare, ma non l’ho mai fatto, e sono rimasto bloccato in una situazione di stallo, tra l’annasamento e la fuga. Se potessi ritrovare la musica prodotta dai nasi durante lo strofinio, sicuramente ritroverei l’impronta del mio naso su quello di un altro, il mio carattere. Tra tanti bambini ritroverei la mia differenza. Cecilia, quando aveva due anni, voleva ancora il seno della mamma, "perché sento la mamma fuggire": come disse quando suo padre le chiese perché continuava a volere la poppa. Osservavo che, come la piccola annasava il seno materno, la mamma annasava la figlia. Le parole originali di Cecilia nascevano tutte in questo "fattore campo": poi si creava la fuga della bambina dalla mamma e viceversa. Si creavano situazioni in cui l’annasamento e la fuga avevano una zona incerta di confine. Le parole di Cecilia si perdevano in questa zona. Le ripeteva felicissima, se la mamma gliele ricordava! Poi le ricreava per sé, attraverso la sua conoscenza, che aveva intanto acquisito un costrutto simbolico, un universo di parole-musica e di musica-numeri. Uno, due, tre… poi diceva "tanti tanti". Costruiva continue contine. Cecilia mostra una mano e aggiunge un dito solo dell’altra. Per lei, questo segno: è un numero vero, il sei, il solo-numero, tutto suo, perché è "una mamma intera".
E’ un ricciolo di capelli, questo sei?
"E’ un numero con la pancia… come la mia mamma!" dice Cecilia.
La sua mamma è incinta.
Quando sarà grande, Cecilia, ricordando la pancia del sei, riscoprirà parole diventate ormai reliquie verbali, suoni legati a immagini strofinate sulla mamma, che talvolta continueranno a vivere autonomamente risvegliate da simboli, da abbinamenti, da assonanze che –come la Madeleine di Proust – saranno capaci di dare loro vita e vivacità autonoma.
Osserva Gianni Rodari: "La contina che i ragazzi usano per distribuirsi le parti nel gioco, assegnare il ruolo di chi deve dare la caccia agli altri che si nascondono, sono spesso dei veri e propri nonsensi, nei quali si sono fuse antiche misteriose reliquie verbali. A Milanese ne usa probabilmente ancora una che comincia: "ènchete, pènchete…".Qualche anno fa abbila sorpresa di scoprire in Jugoslavia, fatta da tanti popoli, una contina che cominciava allo stesso modo e conteneva altre misteriose parole uguali a quelle in uso a Milano: "àbeli, fàbeli…", per esempio. La contina aveva avuto origine, probabilmente, quando milanesi e croati appartenevano insieme all’impero austroungarico. Era un gioco in cui verbi, sostantivi e avverbi tedeschi, grottescamente deformati, sopravvivevano come paurose caricature: enigmi. Qualche mese fa, in Russia, ho scoperto bambini che per distribuirsi le parti recitavano una contina che cominciava così: "èniki, bèniki – jeli varèniki…". Le prime due parole sono senza senso e intraducibili: ma ricordano sicuramente lo "ènchete pènchete" milanese e quello croato. "Jeli varèniki" vuol dire invece: "mangiato agnolotti". Dunque porta lontano. Più avanti, anche nella contina russa, in certe regioni, compaiono le parole "àbeli, fàbeli". Come spiegare in mondi così lontani la stessa contina? Chissà, forse un soldato russo arrivato a Milano o in Croazia durante le guerre napoleoniche udì questa contina e la trovò abbastanza buffa da ricordarne qualche frase, intercalandovi delle rime comiche". I popoli della Polinesia ornarono il Pacifico riproducendo mentalmente le isole attraverso contine. In Australia, gli indigeni ritrovavano il mare attraverso contine… Costruire contine durante il lavoro è come annasare quello che si produce: così si faceva! Ugualmente, costruire contine durante una marcia era come annasare la strada: così si faceva, quando la strada continuava bianca e polverosa fino a perdersi in una galassia di polvere. Le contine sono strutture "galattiche" che mettono ordine riproducendo percorsi mentali che si sovrappongono a quelli naturali. Insegnare a costruire contine ai bambini è come insegnare a ritrovare una strada e a fare un lavoro. E’ un esercizio di Fantastica tra i più efficaci per sviluppare la memoria usando la fantasia. Per questo – secondo me – sarebbe interessante formare dei "Ròdari club" dove si dà il via a questi movimenti di fantasia.

Chi ha idee in proposito, le può comunicare a:

                                                       Filippo Nibbi

                                                                          (2- continua)

 

Dalla multicultura all’intercultura

Come trasformare l’attuale realtà storica della convivenza più o meno pacifica delle varie culture in una armonia osmotica,che nel rispetto delle identità arricchisca la società nel suo insieme – L’insegnamento di mons. Di Liegro nelle parole del prof. Alessandro Baldi del Forum per l’intercultura della Caritas - Una intuizione fondamentale: l’uomo è il primo contenuto essenziale del progetto pedagogico, i suoi bisogni materiali sono uno dei cardini dell’azione interculturale

Proseguiamo la pubblicazione delle relazioni svolte al convegno di studi sul tema L’evasione scolastica, una sfida per la società, organizzato ad Arezzo il 25 e 26 ottobre 1997. In questo numero la parte iniziale dell’intervento del prof. Alessandro Baldi, responsabile della formazione degli insegnanti e degli operatori del volontariato nella direzione del Forum per l’intercultura della Caritas

Consentitemi prima di tutto di ricordare mons. Luigi Di Liegro che è venuto a mancare appena pochi giorni fa, il 12 ottobre. Di Liegro non è stato un semplice monsignore, un semplice prete, è stato l’innovatore, l’inventore, anche da un certo punto di vista un eversivo nel campo della formazione, dell’impegno, del volontariato. Eversivo perché non ha giocato con il potere, lo ha in qualche modo contrastato, è vissuto dentro le contraddizioni di questa società. E’ stato un grande prete militante per molti di noi anche per i più credenti, perché sappiate che nel volontariato cattolico ci sono credenti, meno credenti, non credenti, ma tutti noi insieme lavoriamo intorno a questa idea guida che è la realizzazione non utopica di una convivenza democratica. Vedete, noi non usiamo paroloni, siamo molto con i piedi per terra: il volontariato cattolico, soprattutto il Forum per l’intercultura di cui io faccio parte, lavora ed è impegnato nel nostro paese per la costruzione di una convivenza democratica pacifica e solidale tra esseri umani: che penso sia il compito della pedagogia ufficiale, delle scienze della formazione e dell’educazione. La società italiana come la società europea è strutturalmente, essenzialmente ormai una società multiculturale. Non lo è ancora ovviamente per quello che sono i rapporti, le organizzazioni culturali, i consolidamenti, ecc., però si può dire nella sostanza che orma l’Europa, l’Occidente, in particolare l’Italia sono una società di più culture. Come diciamo noi una società polifonica, di più voci, di più colori. Si tratta di farla diventare una società interculturale, ossia passare da uno stato di fatto a uno stato reale, come dire passare da ciò che è formalmente a ciò che dovrebbe essere sostanzialmente. Questo non è facile. Ma l’impegno ormai di tutti noi è intorno alla costruzione di una società solidale pacifica e ricca di convivenza democratica: noi dobbiamo lavorare e lavoriamo per realizzare una realtà interculturale. Abbiamo intorno a noi tanti bambini di colore, tanti bambini di altre culture, asiatici, africani, dell’America Latina eccetera, che sono venuti nel nostro paese come in altre parti del mondo non per fare una gita turistica ma perché spinti dalla necessità del lavoro e oggi, come diceva fino a pochi giorni fa mons. Di Liegro, spinti dalla sopravvivenza. Il fatto è che il movimento umano è da sempre stato una caratteristica di questo pianeta, è dimostrato anche dal punto di vista antropologico, etnologico, per esempio dagli studi di Vittorio Lanternari sulla scia di quelli che ha fatto De Martino, quelle bellissime ricerche sulla Calabria: le comunità, anche le più radicate, sono comunità nomadi. Anche quelle che non si sono mai spostate nel corso dei secoli. Allora i bambini che stanno intorno a noi, gli adulti che stanno intorno a noi, di un’altra cultura eccetera, realizzano di fatto la società multiculturale. Ma non è quello che noi vogliamo. La società multiculturale è ciò che è, ciò che si verifica storicamente. Noi vogliamo invece essere consapevoli di un cambiamento, stare dentro il cambiamento, lavorare per un cambiamento. Ecco perché la realtà interculturale, diciamo noi, è una realtà da costruire insieme. Quindi Laura, la bambina che vedo fra il pubblico, la nostra più piccola uditrice, potrà vivere con Sara, con Isma eccetera, con altre bambine di altre provenienze, se insieme costruiscono e vivono un progetto educativo, quindi realizzano un passaggio da ciò che sono, multiculturali cioè diversi, a ciò che devono essere: interculturali, cioè in un rapporto profondamente osmotico, rispettando ovviamente le identità, ma un rapporto di reciproco arricchimento. Negli interventi che hanno preceduto il mio si è parlato di insegnanti e di studenti, insegnanti "e" studenti, sempre con questa congiunzione. Noi invece assumiamo come ottica pedagogica ormai da un decennio questa che è come ben capite una endiadi: non sono due parole, è un’unica parola, insegnamento-apprendimento. Noi dobbiamo avvicinarci alla verità, fare uno sforzo di avvicinamento, per questo parliamo di rapporto insegnamento-apprendimento, rapporto, un po’ da un punto di vista kantiano, ossia non tanto più la realtà fenomenica quanto la realtà intellettuale, quanto la costruzione e quindi il trascendentale kantiano riportato nel nostro discorso interculturale. Non voglio essere difficile ma è importante il rigore in questa idea: cioè noi lavoriamo nel rapporto fra cittadini italiani e cittadini stranieri, rifiutando termini come extracomunitari che sono assolutamente avvilenti e in qualche modo offensivi per chi li pronuncia più che per chi li riceve… perché siamo dentro una relazione educativa, la costruiamo nel rapporto fra insegnante e allievo, tra adulto e giovane, quindi quello che ci interessa è capire la relazione, l’"iter" della cultura, non tanto la cultura che poi è un falso singolare, dovrebbe essere interculture. No: noi lavoriamo sull’"iter", ciò che mette in rapporto Laura con Sabina, che è la bambina mettiamo tunisina, Laura con Carlos, il bambino peruviano, eccetera eccetera. E’ qui il progetto educativo di cui vengo a parlare. Il progetto educativo, formativo intorno a cui si può costruire l’intercultura. Passare da una realtà di fatto che è subita, che è patita, che è quella della pluralità, molto spesso infastidente perché tocca i nostri interessi, i nostri bisogni, le nostre pigrizie- la gente ha bisogno anche di essere in qualche modo rassicurata – a un progetto interculturale. La prima condizione è che il punto di vista da adottare sono i bisogni reali degli immigrati. Come sentite noi stravolgiamo l’impostazione pedagogica tradizionale, in qualche modo la dobbiamo stravolgere perché altrimenti il nostro discorso non serve a niente. Lo può fare benissimo un’accademia, una università, un centro di ricerca. Ossia: nell’intercultura, nel progetto pedagogico interculturale il primo contenuto – attenzione, dobbiamo capirlo subito – il primo contenuto essenziale è l’uomo. E’ la persona, la persona umana, è l’individuo. Questo ogni volta che lo diciamo stupisce, io mi ricordo anche il preside del corso di laurea in scienze della formazione di Bari che ad Erice rimase in qualche modo colpito e poi disse: è vero. Noi parliamo sempre di libri, autori, ecc.: non parliamo mai della persona come contenuto essenziale della formazione. Allora: se parliamo della persona come contenuto essenziale, il primo punto del progetto educativo sono i suoi bisogni. Ecco perché nella pedagogia interculturale assume rilevanza educativa, pedagogica, psicopedagogia l’accoglienza fisica, il dar da mangiare e dar da dormire e dar da vestire a qualcuno, cose che di solito sono sempre viste come assistenzialismo. Sentite il termine Caritas: il termine Caritas ha due grandi accezioni che non vanno mai disgiunte. Una è quella di donare qualche cosa a qualcuno, l’altra è quella di prendere qualcosa da qualcuno. La Caritas tradizionale non è assistenza china, ma è erezione visiva di qualcuno che costruisce col vicino, col fratello, col prossimo un percorso di dare e di ricevere. Quindi il primo elemento fondamentale del progetto educativo interculturale sono i bisogni materiali delle persone. Ecco la battaglia di Di Liegro che io considero un grande pedagogista, uno dei grandi, perché ha individuato nella materialità dell’esistenza uno dei cardini della pedagogia interculturale. Se voi pensate bene la materialità dell’esistenza nei processi formativi non stata mai individuata né considerata, a meno di non risalire alla fine del Cinquecento e alla prima metà del Cinquecento e alla prima metà del Seicento. Ecco, quindi Di Liegro individua e noi sentiamo di dovere a lui questa impostazione – anche perché, e su questo primo punto chiudo, ricordiamoci che il Cristo è Verbo incarnato… il credente molto spesso questo quasi in qualche modo lo salta, non lo riconosce. Cioè non è Verbo, quella non è la tradizione cristiana profonda, teologicamente corretta: è Verbo incarnato, ossia si fa carne e facendosi carne si espone ai rischi della finitezza e si espone alla terrestrità, cioè si espone ai bisogni materiali del mangiare, bere, dormire, avere un vestito…

                                                        ( 7 – continua )

                                                                                                            

 

 

                                                                                                     

 

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