Alla fine degli anni cinquanta la Giustizia minorile fu affidata ad un pedagogista che sarebbe stato fondamentale per molte delle situazioni che si sarebbero verificate negli anni a venire: Umberto Radaelli. Erano tempi difficili. Il fenomeno della dissocialità giovanile sembrava diffondersi sotto molte forme. Le borgate romane, già sotto l’occhio attento di Pier Paolo Pasolini, i quartieri spagnoli a Napoli, la Vucciria a Palermo: tre esemplificazioni di un malessere che aveva (e continua ad avere) radici nella povertà delle risorse, ma che soprattutto sembrava voler dividere il Paese in due. Quello della ripresa economica, alle soglie del boom e quello che, a tutti sembrava convenire, rimanesse nelle stesse condizioni del secondo dopoguerra.

I tempi non erano difficili solo per le ragioni sociali cui si è fatto cenno. Si stava appena uscendo dall’incubo del Governo Tambroni e da tutto ciò che di negativo aveva prodotto (compreso un tentativo, ormai antistorico, di reprimere le proteste operaie con le cariche a cavallo dei carabinieri). Troppe le similitudini, come avviene da alcuni decenni, con la storia americana. Noi Tambroni, loro il senatore Mc Carthy, entrambi ossessionati dal pericolo comunista. Noi con “i ragazzi di vita”, loro con “una gioventù bruciata”. Noi Bertolini con la sua “pedagogia per i ragazzi difficili” (1965), loro con Albert Cohen (1955).

In questo clima nacquero gli “apostoli di Radaelli”, un gruppo selezionato di direttori carcerari giovani, animati da un solo credo: “tutti i ragazzi sono recuperabili” (parafrasando il “Nessun uomo è un’isola” di Thomas Merton (1955), vera bibbia per gli operatori dell’epoca). Luigi Turco, Enzo De Orsi, Peppino Del Curatolo, e poi Ziccone, Campanaro e Salvatore alcuni dei nomi che avrebbero immolato la propria gioventù nel nome dell’ideale trasmesso dal loro Direttore generale, Radaelli, dall’alto della sua barba bianca: i ragazzi devono vivere bene negli Istituti e devono sentire il vostro affetto.

La premessa è fondamentale per definire, con gradualità, il senso di una convinzione, oggi ormai condivisa, che rinvia a due postulati secondo cui “il carcere non rieduca” e “non si può pensare ad una politica penitenziaria, in grado di produrre effetti, se non inserita in un sistema di welfare”.

Era il 1974. Gli stessi direttori che avevano profondamente creduto nell’immagine riabilitativa delle case di rieducazione, unitamente a personaggi della psichiatria romana come lo stesso Antonucci o Carmine Saccu o Massimo Ammaniti, ad avvocati illuminati come Guido Calvi o un non ancora famoso Nino Marazzitta e a molti operatori dei servizi sociali minorili, iniziavano a premere per la chiusura delle carceri minorili, perché il problema dei ragazzi si doveva risolvere lì dove nasceva: nel territorio, incapace di dare sostegno alle esigenze delle famiglie da cui provenivano.

Su tutti aleggiava il verbo basagliano che aveva messo profondamente in crisi la ideologia riabilitativa (Basaglia, Basaglia Ongaro, 1971).

Le sperimentazioni di Trieste e di Gorizia avevano il loro fascino. Quei matti che giravano per le strade cittadine non erano diversi dai ragazzi del Tommaseo o di Casal del Marmo che, a metà degli anni sessanta, andavano in campeggio sulle Dolomiti, accompagnati da questi “direttori della nuova via” e da pochi educatori.

Erano i tempi in cui molto si discuteva sull’alienazione istituzionale. Da Goffmann (1961) a Foucault (1961), era tutto un rincorrere a comprare libri da Feltrinelli.

Il territorio: ecco la risposta. Invece che rinchiudere i matti o i minori, era necessario strutturare risposte più articolate nei mondi dove la violenza dei processi di inurbamento stava producendo danni irreparabili.

I Direttori di cui ho parlato tutto questo lo avevano compreso. Gettando le basi per quella riforma del processo penale minorile (D.P.R. 448 del 22 settembre 1988) che sarebbe arrivata con quindici anni di ritardo. Ma soprattutto evidenziando un aspetto, ai quei tempi, assolutamente improponibile, per l’universo dei penitenziari: le carceri dovevano aprirsi alla comunità civile.

Allora come oggi, il carcere vive un problema centrale, che è quello della comunicazione. Diffondere la logica della interprofessionalità non significa solo promuovere azioni in cui sicurezza e trattamento si coniughino in armonia.

E’ molto di più. Significa incidere sugli stili personali delle figure professionali, significa superare gli steccati degli stereotipi. La polizia penitenziaria si è rinnovata. Non c’è dubbio. La stessa area trattamentale (un’area cui, se presto non verrà fornito un ricambio generazionale, andrà verso l’estinzione della specie) ha compreso l’importanza di una convivenza, fatta di accordi quotidiani, di piccoli passi che, di fronte a certi eventi negativi, possono essere facilmente messi in discussione. I detenuti cambiano modo di pensare e di agire perché “devono farlo” e non perché “vogliono farlo”. Come i giocatori compulsivi che di fronte a certi livelli di disperazione decidono di smettere perché non hanno alternative e non perché realmente vogliono porre fine al loro massacro. Come i tossici o come gli alcoolisti, i detenuti, che sono stati, ovviamente, tossici, alcoolisti o gamblers, smettono perché devono.

Ci si chiederà: “ma non è giusto che sia così?”. Certo, il discorso è, però, più complesso e riguarda quell’aria di depressione che si vive in tante carceri italiane dove lo stile della relazione è quello di un piccolo paese.

Si è trattato solo di chiacchiere e sangue”: con questa frase si conclude il film, molto teatrale, “I Fatti della Banda della Magliana”. A tale proposito non posso non citare la geniale frase illustrativa di una condizione, la frase con cui Renatino De Pedis - il Dandi- si rivolge a Pippo Calò - zio Carlo- per attenuarne l’ira, dopo la mancanza di rispetto con cui Maurizio Abatino - il freddo- si sarebbe rivolto: “dovete scusarlo, noi non abbiamo una famiglia alle spalle come la vostra. Siamo ragazzi di strada”.

La Strada. Vengono tutti da lì. Una volta era Primavalle, oggi è Corviale o Tor Bella Monaca o il Trullo a Roma. Una volta erano i quartieri a Napoli. Oggi è Scampia.

Strade su cui si affacciano palazzoni tutti uguali. Senza anima. E dentro il carcere certe storie rimangono le stesse.

Il cambiamento, quello vero, si concretizza solo quando la porta del carcere si apre ed entrano in scena i volontari.

Attori, spesso inconsapevoli, di un film che può andare a lieto fine, se non si sbagliano certe mosse.

Il ruolo del volontariato ha assunto, negli ultimi anni, il giusto rilievo che non solo l’ordinamento penitenziario, ma la storia sociale del nostro sistema, ha voluto e imposto.

Aprire non significa rinchiudere i cancelli dietro altre spalle che, per svariati motivi, personali o di gruppo, decidono di trascorrere una parte del proprio tempo, assistendo i carcerati. Aprire significa portare fuori i detenuti.

Progressivamente. Con l’aiuto dei volontari. Ma soprattutto con la consapevolezza di un territorio in grado di produrre “accoglienza”. Il carcere è luogo di assorbimento di risorse. Anche di fronte ai direttori più progressisti, come avviene da sempre con gli educatori, l’idea dell’utilizzo dei volontari è in una logica di controllo. Che il carcere non rieduchi è fatto altrettanto assiomatico, quanto quello della funzione a favore di una gestione di controllo istituzionale, da parte di tutti gli operatori trattamentali, volontari compresi.

Il problema è legato a come vengono utilizzate tutte queste risorse e il loro dispendio.

Per certi versi l’idea che il carcere apra le porte ai detenuti e non solo agli esterni, sembra essere stata ritardata proprio da questa disponibilità assistenzialistica del mondo del volontariato. Una presenza che ha attenuato l’entità di certe carenze storiche e storicamente volute.

Sono meno di cinquecento gli educatori che lavorano nelle carceri italiane. Un numero ridicolo, di fronte agli oltre quarantamila agenti di polizia penitenziaria.

I ritardi di una politica penitenziaria che assegnasse un reale valore alla dimensione trattamentale sono ormai cronici. Forse, aldilà di Nicolò Amato e dei personaggi dell’epoca, al trattamento non ci ha creduto nessuno. Se non in una logica di contenimento.

La presenza dei volontari ha costituito un comodo alibi.

Quando le agenzie territoriali comprendono che il loro ruolo equivale a dare un senso all’apertura dei portoni del penitenziario, non solo per denunciarne le eventuali lacune, ma soprattutto per incidere sui reciproci stili culturali, allora le premesse cambiano.

Su questo iter occorre insistere. Dando, soprattutto, corpo ad un movimento unitario che non differenzi di molto gli interventi.

La preoccupazione trova facili stimoli se si pensa alla attualità dei dati relativi alla presenza del volontariato e delle imprese no-profit che offrono la solita immagine di sperequazione tra Nord e Sud dell’Italia. Il 51% delle imprese, emerge dalla Quarta Rilevazione della FIVOL (Frisanco, 2006a), è infatti attivo nel nostro settentrione, con una ulteriore differenziazione che riguarda una netta prevalenza nel Nord-Est, mentre solo il 27% produce occupazione nel Meridione. Dati analoghi sulla consistenza dell’intervento degli oltre 8000 volontari che lavorano nelle strutture penitenziarie. Come determinato dalla Quinta Rilevazione della FIVOL (Frisanco, 2006b), tra “le regioni spiccano in positivo la Toscana per numero assoluto di presenza in rapporto ai detenuti precedendo in questa graduatoria, il Veneto e, alla pari, il Friuli, l’Emilia Romagna e la Basilicata. Al contrario il rapporto meno favorevole tra detenuti ed operatori non istituzionali si registra nelle regioni del Molise e soprattutto della Campania”. Non a caso, aggiungerei. Con un ulteriore dato sul quale riflettere che è quello del rapporto numerico tra detenuti e operatori esterni: 5 a 1 per il Centro (il migliore di tutti), 10 a 1 per il Sud (il peggiore).

Ed è proprio questo uno dei punti centrali da affrontare. In Italia non si riesce a comprendere sino in fondo l’importanza dell’economia no-profit. La storia degli ultimi anni del nostro Paese ha chiarito che, tanto nei sistemi neo-liberisti, quanto in una concezione classica di Welfare State, un ruolo significativo è assunto da un soggetto specifico che si chiama “privato sociale”.

Il superamento di una concezione statalizzata, nella organizzazione sociale del Paese, ha prodotto la necessità di prevedere una ridistribuzione dei servizi, assegnando una funzione centrale dapprima all’Ente Locale e successivamente al Terzo Settore che rappresenta il naturale interlocutore nella gestione di molte aree operative.

Questo processo ha, ovviamente, un suo riflesso nel carcere, da qualche tempo assunto come luogo privilegiato di attenzione. In molte realtà italiane, gli enti Locali hanno iniziato a collaborare con le strutture penitenziarie per individuare percorsi comuni, tesi a favorire il reinserimento dei detenuti. Sarebbe troppo provocatorio ribadire che ci sono voluti quaranta anni per comprendere verità quasi banali.

E la discontinuità, la mancata circolazione di informazioni su quel che avviene in sede territoriale, la mancata omogeneizzazione degli interventi rinviano alla necessità di riflessioni profonde su come articolare un progetto concreto in cui il carcere sia parte integrante di un sistema di welfare.

La sicurezza dei cittadini, è opportuno affermarlo con sempre maggiore convinzione, passa attraverso alcune fasi organizzative, in cui la rielaborazione del Codice Penale, il potenziamento delle politiche di inclusione, il consolidamento di un linguaggio socio-giuridico che attivi un rapporto costante tra le politiche sociali e le politiche penitenziarie, si propongono solo come alcuni degli elementi irrinunciabili di questo percorso.

Ed occorre accentuare i ritmi di certe consapevolezze. Troppe le incongruenze e troppe le paure. Per un verso quel che, da decenni, si propugna come unica modalità operativa efficace, il “sistema di rete”, continua ad essere una sorta di sinfonia incompiuta. Dall’altro gli stilemi classici della malavita tradizionale fanno ormai parte del passato.

Gli operatori sono ancora intrappolati nella logica della appartenenza professionale. Difficile trovare progetti e fasi di lavoro in cui le Istituzioni si muovano all’unisono. I percorsi formativi sono diversi, gli interventi sull’utenza sono separati. “I miei detenuti”, “i miei ragazzi”, sono le frasi con cui, ancora oggi, senti parlare gli operatori carcerari e gli operatori minorili, frasi dietro le quali si nasconde una richiesta di riconoscimento della propria soggettività professionale. Non riesce a decollare, o, comunque, è ancora in una situazione di strutturazione, l’idea della “integrazione tra servizi”. E se questo, episodicamente, accade tra quelli istituzionali e territoriali, certamente il prodotto non viene confezionato in una ipotesi più alta di sistemi di servizi integrati. Con l’area socio-sanitaria e quella socio-penitenziaria, spesso distanti, ingabbiate in formalismi che dovrebbero essere superati dalla tendenza a considerare l’utente come un soggetto sociale unitario.

La richiesta di sicurezza è naturalmente da comprendere. Soprattutto l’esplosione della microcriminalità e le gesta efferate di extracomunitari e delinquenza comune hanno esasperato la quotidianità della gente.

Il quadro presentato narra, dunque, di un momento di profonda trasformazione, ma che nasconde insidie controriformistiche, dietro ogni delitto che colpisca l’immaginario collettivo.

Del resto l’antinomia tra politiche di sicurezza e politiche di inclusione è al centro di un dibattito, non solo politico e istituzionale, ma anche dottrinale, che, negli ultimi anni, ha determinato, in particolar modo, ritardi.

Ritardi nell’affrontare, con coerenza, problemi, la cui natura è nota. Se è troppo semplicistico ridurre tutto alla sperequazione economica e infrastrutturale tra Nord e Sud, se è riduttivo pensare alla centralità, attuale, della questione degli immigrati, se appare banale parlare ancora di crisi dei valori, non si potrà, però,non riflettere sui dati della popolazione detenuta. Chiunque ragioni in una logica di analisi sistemica, provenga la deduzione anche da una ottica neo-liberista, non potrà non accorgersi che i tre quarti della popolazione detenuta in Italia è composta da persone appartenenti a sole quattro regioni (Campania, Sicilia, Calabria, Puglia nell’ordine di incidenza numerica) e da cittadini extracomunitari.

Trovare gli antidoti a questa situazione significa capovolgere il senso storico del Paese. Una difficoltà immane, se si pensa alle spinte indipendentiste e corporative di una parte del nostro Settentrione, stanco di pagare i balzelli a “Roma ladrona” e di sostenere il peso del meridione, che si potrebbe regalare a Gheddafi.

Eppure la strada da percorrere non può che essere quella della integrazione. A tutti i livelli. Cominciando proprio dai Servizi. Che un giorno o l’altro impareranno a interagire sempre e costantemente e proseguendo per il mondo politico che rischia tante “piccole rivolte sottoproletarie come quella di Parigi”.

Il tema è delicato e rinvia, anche in questo caso, alla necessità di iniziare ad omogeneizzare il livello di conoscenze e di linguaggio tra gli operatori.

Non è possibile, infatti, pensare che non sia esteso, ovunque, tanto tra gli operatori carcerari, tanto tra quelli dei servizi territoriali, un livello di consapevolezza nell’individuare nel Terzo Settore una risorsa oggi irrinunciabile. Questo, spesso, corrisponde ad una chiusura culturale nel rapportarsi a ciò che avviene oltre i confini del proprio lavoro.

In questa prospettiva, sarebbe auspicabile una riflessione sui nuovi temi che agitano lo scenario del sociale.

Parlare di globalizzazione e carcere, ad esempio, dovrebbe risultare del tutto naturale, considerato quanto è stato scritto sui rischi che tale processo attiva.

Jeremy Rifkin, Ulrich Beck, Zygmunt Baumann (1999) sono solo alcuni della generazione dei socio-economisti che, dalla metà degli anni novanta, invitano gli studiosi, gli studenti, gli operatori, i cittadini comuni, tutti gli appassionati di scienze sociali, ad interrogarsi sulla molteplicità di funzioni che la globalizzazione può esprimere.

Come noto, Rifkin, ne “l’Era dell’accesso” (2000) - il terzo dei suoi libri, dopo “La fine del lavoro” (1995) e “Il secolo biotech” (1998) -, pone l’accento sulla progressiva modifica dell’economia capitalistica, sottolineando come la nuova economia in rete, la fusione della micro-elettronica e della telecomunicazione, sta determinando il cambiamento del senso di proprietà come merce di scambio. Rifkin ha dimostrato l’emergere di una economia che trasforma i beni in servizi e il tempo umano in merce. Soprattutto ha introdotto il concetto di superamento della territorialità degli Stati e la tendenza a concentrare nelle Multinazionali e nelle grandi Imprese la quasi totalità del potere economico. Un potere che deriverebbe loro dall’accesso, appunto, al mondo immateriale del cyberspazio. In tale ottica, la denuncia di Rifkin riguarda la possibilità di “accesso” agli strumenti produttivi e di controllo che non investirebbe più del 15% dell’umanità.

E’ necessario spendere ancora qualche parola sul tema, perché, per certi versi, “globalizzazione” può essere interpretata anche come “lotta alla povertà”. Nel 2004 (Rebuffini, 2004) ha fatto un’analisi profonda del concetto Monsignor Diarmuid Martin, Osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite e il WTO (l’organizzazione mondiale del commercio). Nel ricordare come, a più riprese, i rappresentanti del Fondo Monetario internazionale e della Banca Mondiale hanno evidenziato il bisogno, nella interpretazione dei rapporti tra economia e sociale nel contesto globale, di attivarsi nella lotta alle povertà, Monsignor Martin ha sottolineato un’altra verità. Quella per cui nessuno può contestare che vi sia mai stato un “progresso sociale sostenibile senza crescita economica sostenuta” ed in ogni caso che “la semplice crescita economica di per sé non garantisce un progresso sociale equo”. Nelle affermazioni successive, Martin ha chiarito due altri concetti fondamentali. Il primo è quello del rapporto tra etica ed economia. Il secondo è quello del rapporto tra economia e conoscenza.

Rispetto al primo punto occorre superare la logica per cui gratuità e solidarietà, concetti sostanzialmente condivisi anche dai liberisti, non debbano più rapportarsi alla chiave di lettura della legge di concorrenza. Se il rischio non viene superato, l’etica continuerà ad essere una sorta di ”cornice” che abbellisce il quadro, senza modificarne il contenuto, in tal senso riprendendo le parole di Papa Wojtila per il quale “la libertà economica è solo un elemento della libertà umana”. Il secondo aspetto riguarda la natura dell’economia moderna che non è più solo una economia industrializzata, ma una economia fondata sulle conoscenze. La principale risorsa di questa economia è la persona umana. E sulle skills (le capacità) umane è necessario puntare.

Le economie che, in questi anni, hanno avuto maggiore successo sono quelle che hanno investito nell’istruzione, nella creazione di una cultura imprenditoriale locale, nell’aggiornamento tecnologico dei lavoratori per consentire loro di inserirsi nella economia globalizzata. Le nazioni senza infrastrutture sociali sono destinate a rimanere ai margini.

Il risveglio delle coscienze” che dovrebbe produrre, nello scenario delle “società a rischio”, di cui parla questo sociologo, la base per una democrazia reale, non può ridursi soltanto alle proteste dei poveri di Parigi che chiedono un diverso livello di attenzione.

Di riforme il nostro Paese ha espresso bisogno. Di riforme anche legate al modo di pensare. I pericoli della “glocalizzazione”, tipicamente legata alla deplorevole tendenza a chiudere i confini, anche solo regionali, possono essere sconfitti da una “politica di welfare”, basata sulla partecipazione solidaristica. Laddove la solidarietà non sia soltanto un valore, ma un valore aggiunto di processi produttivi che assegnino al Terzo Settore, e a ciò che rappresenta, il giusto rilievo.

E’ questo il terreno da arare. Così come, nel campo di azione del penitenziario, sarà indispensabile rendere attivo e reale il sistema di rete di cui, da troppo tempo, si parla. Puntando a rinforzare i canoni organizzativi della “giustizia riparativa” (il nuovo eden degli operatori), e a sperare che la riforma del codice penale finalmente si concretizzi. Sul tema si è pronunciato, più volte, Giuliano Pisapia, il presidente della Commissione Ministeriale per la riforma del codice penale.

Il grande penalista ha affermato testualmente “la caratteristica di un codice penale equo, efficace, e nel contempo capace di garantire anche le esigenze di sicurezza della collettività, deve necessariamente avere come presupposto la capacità di uscire dalla logica per cui l’unica sanzione penale è quella carceraria. Mi riferisco ai reati non gravi: una pena mite, ma certa, tale però da evitare quel senso di impunità che spesso è la premessa per un nuovo reato, è certamente più utile e più efficace di una pena carceraria, che spesso è, invece, l’anticamera della recidiva. Così come un altro strumento è quello di misure prescrittive, quali il lavoro socialmente utile”. Sul risarcimento del danno, come risposta non sanzionatoria, Pisapia si è così espresso: ”se ci si limitasse a prevedere il risarcimento quale sanzione di carattere penale, si finirebbe per creare una inaccettabile disparità di trattamento, tra chi ha possibilità economiche e chi, al contrario, si trova in uno stato di indigenza. Il concetto di riparazione pone tutti sullo stesso piano: ciascuno, sulla base delle proprie possibilità, deve fare quanto necessario per attenuare le conseguenze dannose del reato commesso. Allo stesso tempo la minima entità del danno causato e l’occasionalità della condotta illecita possono essere condizioni sufficienti per prevedere la non punibilità in sede penale. Un diritto penale minimo inciderà positivamente anche sui tempi, vergognosamente lunghi, della giustizia”.

Queste indicazioni che, fra qualche tempo, potrebbero tradursi in realtà, sono legate ad una corrente di pensiero che individua nel carcere, l’extrema ratio. Perché il tutto si tramuti in efficacia sarà necessario che cresca il livello di consapevolezza di tutti della opportunità di certi percorsi che inseriscano il “progetto carcere” in un sistema più ampio di ridefinizione delle risorse e dei servizi. Se tutto ciò, con il tempo, dovesse tradursi in un più alto livello di comunicazione interprofessionale, molto cambierebbe, anche nella comunicazione con il mondo politico. Ed allora un sogno si avvererebbe.

Perché, in altre parole, le speranze di quei giovani direttori di cui si è parlato all’inizio, erano legate all’idea sovrana di “aprire il carcere”. Non solo per fare entrare la comunità civile, percorso questo indispensabile per rendere visibile la vita penitenziaria, ma soprattutto per “far uscire i detenuti”.

Dietro questa visione (basata sull’utopia del duo De Orsi-Turco, per cui “nessun uomo può giudicare un altro uomo”), c’era in particolare, non esplicita, inconscia e non detta, una aspirazione. Quella di contribuire a creare i presupposti perché “nessun uomo entri in carcere”. Un giorno, non ci è dato sapere, forse la società fermerà questa corsa verso l’autodistruzione e lascerà scendere tutti. Nessuno escluso.

                                                   Antonio Turco 
                                         

    


                                                  

 
 

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