1.      Boom penitenziario e incarcerazione dei migranti

 

Da anni ormai i dati relativi alla popolazione detenuta dei principali paesi europei mostrano un impressionante trend crescente, con l’unica importante eccezione della Francia. In ognuno di essi si sta procedono alla costruzione di nuove carceri e si incrementano le spese destinate alle “forze della legge e dell’ordine”, in primo luogo alle forze di polizia e al per­sonale carcerario adibito alla custodia. Di pari passo si assiste in questi paesi alla proliferazione di misure volte a prevenire o re­primere quanto potrebbe turbare il tranquillo sviluppo delle re­lazioni pubbliche (si diffondono per esempio i provvedimenti che vietano o limitano la mendicità, si istituisce il coprifuoco per gli adolescenti, ecc.), si ricorre al massiccio impiego della vi­deo-sorveglianza in luoghi e mezzi di trasporto pubblici. Il controllo elettronico è sempre più usato, nonostante che esso tenda non a sostituirsi ma ad aggiungersi alla carcerazione. Inoltre sono radicalmente cambiate le retoriche che accompagnano la detenzione: essa viene dipinta sempre meno come strumento di reinserimento sociale e sempre più come mezzo di incapacitazione e neutralizzazione degli autori dei reati.

La rapida progressione con cui, in questi paesi, cresce la quota del­la popolazione considerata in aperto conflitto con la giustizia e con cui si diffonde la convinzione che essa andrebbe sottoposta a misure meramente repressive, pone un problema di trasformazione qualitativa delle politiche penali[1]. I dati sembrano suggerire che è accaduto qualcosa che rende necessario, agli occhi dei governi e dell’opinione pubblica, da un lato un ricorso alla istituzionalizzazione delle persone molto più ampio rispetto ai decenni precedenti e dall’altro una detenzione che si preoccupi esclusivamente di escludere chi vi è sottoposto dalle normali relazioni sociali.

Nei paesi meta di massiccia immigrazione (Austria, Belgio, Olanda, Germania, Italia, Spagna e Svezia), gli stranieri rappresentano una percentuale rilevante della popolazione detenuta, spesso tale da spiegare il suo aumento. Il loro numero in questi paesi oscilla da circa un terzo a poco meno della metà dei detenuti, una percentuale quindi decisamente superiore a quella del numero degli stranieri presenti sul territorio nazionale rispetto alla popolazione autoctona. Un discorso a parte va fatto per Francia e Regno Unito, dove la percentuale degli stranieri detenuti è relativamente bassa. Questi paesi sono, o sono stati, caratterizzati da una politica di facile concessione della cittadinanza[2], specialmente alle persone provenienti dalle ex colonie, per cui sono più indicativi i dati relativi all’origine etnica dei detenuti[3]. L’Home Prison Service (2005) nel suo rapporto annuale del 2005, segnala che il 22% delle persone entrate in carcere per la prima volta tra marzo 2004 e aprile 2005 apparteneva a minoranze etniche. Dato che oltre il 12% dei detenuti sono stranieri, similmente a quanto accade negli altri grandi paesi europei meta di migrazioni, circa un terzo dei detenuti non è autoctono. Per quanto concerne la Francia (dove gli stranieri rappresentano comunque più di un quinto dell’intera popolazione detenuta), è stato osservato (Palidda 1999, 42) che, se si tenesse conto dell’origine dei detenuti, la percentuale di detenuti stranieri e d’origine straniera sarebbe molto elevata, addirittura superiore alla percentuale di afro-americani reclusi nelle carceri statunitensi[4].

 

Paese[5]

Popolazione detenuta

N./100000 cittadini

Trend 1992 – 2001

n. e n./100000 cittadini

Detenuti stranieri (% sulla pop. det.)

Austria

8766 (9.6.06)

105

6913 (87) – 6915 (85)

45.1 (1.11.05)

Belgio

9597 (8-2006)

91

7111 (71) – 8764 (85)

42,0 (16.1.06)

Danimarca

4198 (17.10.05)

77

3406 (66) – 3150 (59)

17.5 (28.2.06)

Eire

3080 (1.9.06)

72

2155 (61) – 3025 (78)

9,0 (20.4.06)

Finlandia

3954 (1.4.06)

75

3295 (65) – 3040 (59)

8,0 (1.4.06)

Francia

52009 (1.9.06)

85

48113 (84) – 46376 (78)

21,4 (1.4.03)

Germania

78581 (31.3.06)

95

57448 (71) – 80333 (98)

28,2 (31.3.04)

Inghilterra e Galles

79642 (29.9.06)

148

44719 (88) – 66301 (127)

12,5 (30.6.05)

Italia

59523 (31.12.05)

102

46152 (81) – 55136 (95)

33.32 (31.12.05)

Lussemburgo

768 (1.6.06)

167

352 (89) – 357 (80)

75,0 (1.6.2006)

Nord Irlanda

1464 (26.9.06)

84

1811 (112) – 877 (52)

0.8 (30-1-06)

Norvegia

3048 (1.8.06)

66

2477 (58) – 2666 (59)

17.2 (1.8.06)

Paesi Bassi

21013 (1.7.06)

128

7397 (49) – 15246 (95)

31,7 (1.7.2006)

Portogallo

12870 (1.9.06)

121

9183 (93) – 13500 (131)

17,3 (31.12.04)

Scozia

7212 (29.9.06)

141

5357 (105) – 6172 (122)

1.3 (1.9.04)

Spagna

64183 (15.9.06)

145

35246 (90) – 46962 (117)

29,7 (21.4.06)

Svezia

7450 (1.4.06)

82

5431 (63) – 6089 (68)

26.3 (1.10.05)

 

La letteratura stranamente non tende a mettere questo dato sulla popolazione carceraria in correlazione con le politiche migratorie seguite dai vari paesi europei. Eppure sembra irrealistico pensare che non ci sia alcun nesso tra l’alto tasso di carcerizzazione degli stranieri e il loro status giuridico. Spesso gli stranieri sono costretti a vivere, nel migliore dei casi, in condizioni di grande precarietà, che rendono molto difficile difendere i propri diritti, o, nella peggiore delle ipotesi, si vedono attribuire lo status di irregolari, che non consente loro di esercitare praticamente alcun diritto. L’aumento dei migranti nelle carceri europee va di pari passo alla rilevazione di un gran numero di migranti irregolari presenti nei diversi paesi e a frequenti “regolarizzazioni” che attribuiscono ad una parte di loro uno status legale, spesso precario e che quindi modifica di poco le loro condizioni di soggetti senza diritti.

In questo saggio cercherò di mostrare come le politiche dei vari Stati europei si siano orientati verso una strategia volta a favorire la presenza di stranieri irregolari sul loro territorio, quelli che riescono a rimanere per un discreto lasso di tempo, senza incorrere nelle maglie della giustizia penale, vengono poi periodicamente fatti oggetto di regolarizzazione di massa. Sosterrò poi che questa politica, apparentemente paradossale, trova la propria ratio in una profonda cesura del rapporto tra Stato e popolazione. Sulla scorta delle analisi di Foucault, argomenterò che si sta passando da una fase in cui lo potenza dello Stato era legata alla sua capacità di rendere produttiva e disciplinata la popolazione ad una fase in cui lo Stato può limitarsi a selezionare i suoi cittadini. Questo passaggio comporta l’abbandono di strategie inclusive di riconoscimento dei diritti di cittadinanza a favore di una concezione della cittadinanza che si erge come un muro che esclude i migranti che giungono in Europa. Sosterrò infine che il carcere, modificando il suo tradizionale ruolo di strumento di disciplina, si è erto a perno di queste politiche, svolgendo, di fatto, la funzione di selezionatore dei migranti destinati ad essere espulsi, di quelli destinati alla clandestinità perenne e di quelli che si possono avviare a percorrere l’accidentato sentiero che li porterà ad uno status legale e a godere di un paniere progressivamente crescente di diritti.

 

2.      Il governo delle migrazioni tra produzione dell’irregolarità e sanatorie

Con il termine regolarizzazione si intende l’autorizzazione a soggiornare concessa dallo Stato a cittadini stranieri presenti irregolarmente sul proprio territorio. Nel secondo dopo guerra, sino alla crisi economica dei primi anni ’70, i principali paesi europei di destinazione dei flussi migratori (Germania, Francia, Belgio, Olanda, Regno Unito) hanno gestito, di fatto, la presenza irregolare di stranieri attraverso regolarizzazioni permanenti. Questa politica è stata adottata fino alla fine degli anni ottanta del secolo scorso anche dai paesi dell’Europa meridionale, verso cui si sono diretti i flussi migratori via via che i paesi del Nord Europa, tradizionale destinazione dei migranti, hanno introdotto rigidi limiti all’ingresso di cittadini di paesi terzi. Contemporaneamente anche queste nazioni hanno progressivamente introdotto vincoli sempre più stringenti all’ingresso degli stranieri.

Ormai da un paio di decenni si è diffusa tra i governi europei la prassi di ricorrere a programmi di regolarizzazione per gestire i migranti sprovvisti di documenti di soggiorno. Molti paesi europei si sono orientati verso una strategia basata sulla restrizione degli accessi regolari, la sostanziale tolleranza (al di là delle retoriche) di un alto tasso di migranti che soggiornano irregolarmente e poi ad ondate cicliche vengono regolarizzati. Queste politiche comportano che in Europa è oggi presente una massa di migranti privi di uno status regolare e quindi senza diritti. Secondo il Terzo Rapporto di Caritas Europea (2006) sulla povertà sono circa 5 milioni[6]. Inoltre un mezzo straordinario, come la regolarizzazione, per gli immigrati è diventata paradossalmente oggi nell’Unione uno dei canali più importanti, da un punto di vista numerico, di acquisizione di uno status legittimo.

Negli ultimi vent’anni si è assistito all’emanazione di una lunga serie d’interventi puntuali (definiti “sanatorie” o provvedimenti one-shot): misure straordinarie finalizzate a concedere il permesso di soggiornare solo a coloro in grado di dimostrare la presenza all’interno dei confini prima di una certa data, precedente all’emanazione dell’atto normativo. A volte questi provvedimenti hanno mirato alla regolarizzazione di quasi tutti gli stranieri non in regola presenti (la legge italiana 39/1990, detta “legge Martelli”, aveva questo scopo) o sono sfociati, attraverso il progressivo ampliamento del bacino dei possibili beneficiari, nella regolarizzazione di tutti quelli che potevano vantare un inserimento lavorativo e non avevano precedenti penali (di nuovo in Italia questo percorso si è compiuto in occasione dell’approvazione della legge 40/1998, cosiddetta “legge Turco-Napolitano”). In Francia, paese in cui ci sono state solo due provvedimenti one-shot, esisteva un sistema di regolarizzazione permanente che consentiva, in ogni momento, a chiunque poteva dimostrare di trovarsi sul territorio nazionale da oltre dieci anni di acquisire uno status regolare. Questa possibilità è stata abrogata nel 2006.

In Francia si sono avute due sanatorie una nel 1981 e nel 1997. Questa seconda sanatoria prese avvio il 25 giugno 1997 quando Chevènement, Ministro degli Interni del governo Jospin, pubblicò una circolare che definiva le modalità di riesame dei casi degli stranieri in situazione irregolare. Il 28 ottobre 1997, 140.000 stranieri irregolari avevano presentato la loro domanda[7]. Tra il 1995 e il 1998 c’è stata una sanatoria in Grecia e due in Belgio.

La politica del governo italiano in questo campo sarà esaminata in dettaglio nelle prossime pagine perché si può assumere come emblematica, probabilmente per il fatto che l’Italia è diventata destinazione di immigrazioni nello steso periodo in cui prendeva consistenza l’idea di un mercato unico mondiale (anche della forza lavoro). Come vedremo, in Italia da un lato le sanatorie hanno rappresentato senza ombra di dubbio il canale privilegiato di acquisizione di status di residenti regolari dei migranti, dall’altro ormai da anni, i dati relativi agli stranieri detenuti mostrano un impressionante trend crescente. Al 31 dicembre del 1998 erano 11.973, pari al 25,04% del totale; dopo un anno erano 14.507, pari al 27,13% della popolazione detenuta; al 31 dicembre del 2000 erano diventati 15.582, pari al 29,3% dei detenuti presenti nelle carceri; a fine 2001 erano 16.294, corrispondenti al 29,5% delle persone complessivamente detenute; nel 2002 arrivavano ad essere il 30,2% della popolazione detenuta, raggiungendo la cifra di 16.788; nel 2003 i migranti in carcere erano diventati 17.007, pari al 31,44% dei 54.237 detenuti complessivi. Il 31 dicembre del 2004, risultano 17.819 stranieri presenti nelle carceri italiane su una popolazione detenuta pari complessivamente a 56.068 persone; la percentuale dei migranti è giunta quindi al 31,84% dei detenuti complessivi (se si prendono in esame le donne detenute, la percentuale delle straniere è molto maggiore: su 2.589 donne presenti nelle carceri alla fine del 2004, erano straniere 1.131, pari al 43,85%). A fine 2005 la percentuale dei migranti sale ancora arrivando al 33,32% (sono 19.836 su una popolazione detenuta di 59.523 persone). In quest’anno si registrano due dati eclatanti: i migranti rappresentano il 45% dei soggetti entrati in carcere dalla libertà nel corso dell’anno; sono straniere il 46,43% delle donne che risultano detenute a fine anno (1.302 su 2.804).

In Spagna, dove l’arrivo massiccio di immigrati si è verificato nello stesso periodo, la gestione del fenomeno è stata del tutto simile a quella italiana: poche possibilità per entrare legalmente, grande diffusione del lavoro nero e una lunga serie di sanatorie, la prima nel 1985, quando si approvò la prima legge sull’immigrazione, e dopo nel 1991, 1996, 2000 e 2001. L’ultima sanatoria è stata varata nel 2005, il regolarizzando doveva dimostrare di non avere precedenti penali nel suo paese, di essere arrivato in Spagna prima dell’agosto del 2004[8] e di avere un contratto di lavoro per almeno sei mesi. La legislazione sull’immigrazione approvata nel 1985 è stata modificate negli ultimi anni in tre occasioni - legge 4/2000, 8/2000 e 14/2003 – introducendo ogni volta parametri più rigidi per l’ingresso degli stranieri e restringendo i loro diritti. Il risultato di queste scelte è che secondo l'Istituto nazionale di statistica (Ine), in Spagna vivevano nel 2005 più di un milione e mezzo di immigrati clandestini. Quelli con i requisiti per presentare la domanda di regolarizzazione erano stimati tra i 500 e gli 800mila[9].

 

2.1.   La restrizione dei canali legali d’immigrazione

Il continuo ricorso alle sanatorie e l’enorme numero di migranti senza permesso di soggiorno avrebbe dovuto spingere i governi a rendere più facile il percorso di ingresso degli stranieri, consentendo in primo luogo la conversione del permesso di soggiorno per motivi di turismo in permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato o autonomo, qualora il migrante nel periodo di permanenza sul territorio sia stato in grado di mettersi nelle condizioni di accedervi. Il permesso di soggiorno, infatti, rende il migrante titolare di un patrimonio di diritti la cui preservazione dipende necessariamente dall’inserimento nel mondo del lavoro regolare e dall’osservanza di una serie di doveri. Tanto più sostanzioso è questo patrimonio, tanto più esso rappresenta un efficace stimolo a non percorrere le strade dell’illegalità (se quelle legali non vengono ostruite da troppi vincoli). La presenza sul territorio di migranti irregolari, invece, rende impossibile garantire loro i diritti fondamentali della persona, senza dimenticare che il mancato rispetto dei minimi salariali e delle disposizioni in materia fiscale e contributiva, oltre a costituire un grave danno economico per il lavoratore e per lo Stato, rappresenta un fattore di concorrenza sleale ai danni dei lavoratori regolari, nazionali o stranieri che siano.

Gli Stati europei hanno invece percorso la via inversa. Una giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo ormai consolidata[10], riconosce ad ogni Stato un potere sovrano in merito all'ammissione, al respingimento, all'espulsione e all'estradizione dello straniero che migra per motivi di lavoro. In questo ambito, gli Stati europei, invece che allargare le possibilità di ingresso per ricerca di lavoro per combattere l’immigrazione clandestina, hanno teso, da un lato, a restringere i canali di ingresso e, dall’altro, hanno concepito un sistema dei visti che lega la regolarità del soggiorno al contratto di lavoro, rendendo comunque precario lo status degli immigrati e quindi scoraggiando la loro stabilizzazione sul proprio territorio. Ancora più rilevante è la politica restrittiva adottata nei confronti dei flussi migratori per motivi familiari ed umanitari. In questo settore il potere discrezionale degli Stati dovrebbe essere limitato dalla presenza di norme di diritto internazionale che configurano un vero e proprio diritto soggettivo al ricongiungimento familiare o alla protezione umanitaria. Con riferimento al governo di questi flussi si parla infatti di embedded liberalism, ossia di un contesto istituzionale che “vincola enormemente il potere decisionale dei singoli Stati, riducendo drasticamente la loro capacità di determinare il volume e la composizione dell'immigrazione” (Zanfrini 2004, 123). Gli ordinamenti giuridici dei paesi europei dovrebbero sentirsi infatti pressoché costretti a riconoscere ai migranti il diritto di ricongiungersi con i propri familiari e il diritto di Asilo, in forza rispettivamente dell'art. 8 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo[11] (CEDU) e di tutta una seria di trattati internazionali in materia di rifugiati che hanno il loro capostipite nella Convenzione di Ginevra. Nonostante queste norme, di fronte alla crescita esponenziale delle migrazioni umanitarie e per motivi familiari gli Stati europei hanno fatto di tutto per limitare il diritto dei migranti a fare ingresso nel loro territorio.

Emblematica è la direttiva 2003/86/CE sul ricongiungimento familiare. Di fronte alle dimensioni eclatanti raggiunte dai ricongiungimenti familiari, che secondo alcune stime (Zanfrini 2004, 123) rappresentano circa la metà degli ingressi regolari registrati ogni anno nei paesi dell'Unione europea, la direttiva cerca di ridurre al minimo il diritto all’unità familiare riconosciuto dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Essa, infatti, impone agli Stati membri di riconoscere il diritto al ricongiungimento esclusivamente al coniuge del soggiornante e ai figli minorenni. E’ rimessa alla discrezionalità dei singoli Stati la possibilità di ricongiungimento familiare con gli ascendenti diretti di primo grado del soggiornante o del suo coniuge, se a carico di questi ultimi e privi di un adeguato sostegno familiare nel paese di origine, con i figli maggiorenni non coniugati o incapaci di provvedere al proprio sostentamento per ragioni di salute, con il partner legato al soggiornante da una relazione stabile e duratura o formalmente registrata. Per questi soggetti non si può quindi parlare di titolarità di un diritto al ricongiungimento familiare da far valere nei confronti degli Stati ospiti. Il diritto al ricongiungimento degli stessi soggetti, ma in altre condizioni (genitori dotati di un proprio reddito nel paese di origine, i figli maggiorenni autosufficienti e/o coniugati), non è proprio preso in considerazione. Inoltre la direttiva prevede un periodo di soggiorno legale di almeno a due anni come condizione per la richiesta di ricongiungimento, e prevede che gli Stati possono far trascorrere fino a tre anni tra la presentazione della domanda e l'effettivo rilascio del titolo di soggiorno. Gli Stati possono anche limitare il diritto al ricongiungimento familiare dei figli minori che abbiano già compiuto dodici anni, condizionando il loro ingresso all’espletamento di un esame circa le condizioni per la loro integrazione, e possono esigere “che le domande riguardanti il ricongiungimento familiare di figli minori debbano essere presentate prima del compimento del quindicesimo anno di età”. Queste ultime disposizioni, che consentono agli Stati di vanificare del tutto il già angusto riconoscimento del diritto alla unità familiare riconosciuto dalla direttiva, sono state oggetto di un ricorso per annullamento presentato il 22 dicembre 2003 dal Parlamento europeo contro il Consiglio dell'Unione europea (Causa C-540/03). La Corte di Lussemburgo ha avvallato la scelta dei governi europei sostenendo che le limitazioni poste non sono discriminatorie e affermando, abbastanza sorprendentemente e, a mio parere, in contrasto con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che l’art. 8 della CEDU non conferisce ad alcun membro della famiglia di un migrante, neppure ai figli minorenni, “il diritto soggettivo ad essere ammessi nel territorio di uno Stato”.

Con lo slogan che l’immigrazione “deve essere scelta e non subita”, una normativa sui ricongiungimenti familiari in linea con la direttiva comunitaria è stata recentemente approvata (maggio 2006) in Francia. La normativa, a conferma della tendenza a non distinguere le politiche relative alle migrazioni per motivi di lavoro, regolabili discrezionalmente, e da quelle relative alle migrazioni per motivi familiari ed umanitari, dove vigono una serie di diritti dei migranti, si inserisce nel quadro di un generale restringimento delle possibilità di accedere al territorio francese (sono irrigiditi i criteri di selezione per gli studenti stranieri, così come le condizioni di soggiorno per i lavoratori, mentre aumentano i titoli richiesti per fare domanda di ingresso).

A riprova dello spirito che anima i governi europei, in una lunga intervista al Journal du Dimanche, il ministro Nicolas Sarkozy, promotore della legge, sostiene che quando a partire dal 1974 l'immigrazione familiare ha cominciato a sostituirsi a quella economica, si è provocato un “guasto” nelle politiche di controllo dell’immigrazione. Oggi l’immigrazione familiare, con oltre 100 mila ingressi l'anno, rappresenta la gran parte dell'intero movimento, mentre solo il 5% degli immigrati regolari arriva in Francia per motivi di lavoro. Per cui se il governo si limita alla regolamentazione dell’immigrazione per motivi di lavoro perde il controllo dei flussi migratori. Sarckozy imputa al forte aumento del flusso legato alle dinamiche familiari i problemi di integrazione, la formazione di ghetti e l'impoverimento del tessuto sociale delle periferie francesi. In conclusione passare da un’immigrazione “subita” a un’immigrazione “scelta” vuol dire limitare gli ingressi per motivi familiari per favorire l'arrivo di lavoratori stranieri utili all'economia.

Anche in Germania il governo sta discutendo una riforma della regole dell’immigrazione che prevede assunzioni veloci per i lavoratori stranieri qualificati e un giro di vite sui ricongiungimenti familiari. In Danimarca le politiche adottate negli ultimi anni, hanno portato secondo uno studio pubblicato da “Le Figaro”nel marzo 2006, ad una riduzione dell'80% del numero delle richieste di asilo e del 65% delle domande di ricongiungimento familiare. In Austria nel 2005 è stato allungato il periodo necessario per chiedere asilo.

La degradazione del “diritto” all’unità familiare dei minori a mera situazione di fatto da trattare con benevolenza è resa evidente dalle ultime sanatorie approvate o discusse nei paesi del nord Europa: queste, che possono essere considerate dei provvedimenti di “grazia”, assumono come criterio per concedere un permesso di soggiorno ad una famiglia irregolare la presenza di bambini la cui vita è fortemente radicata nel paese ospite. In Francia, dove pure l’attuale governo considera disastrosa l’esperienza delle precedenti sanatorie, è stata emanata una circolare il 13 giugno del 2006 che consentiva ai prefetti di concedere il permesso di soggiorno alle famiglie straniere con bambini nati in Francia o giuntivi “in tenera età” che non parlano la lingua del loro paese d’origine. Sono state accolte 6.924 delle oltre 30.000 domande di sans papiers. Questo numero è irrisorio se si considera che le stime parlano di 200.000/400.000 immigrati clandestini presenti attualmente in Francia.

Anche il governo Tedesco sta valutando la concessione di un permesso di soggiorno di lunga durata ai cittadini stranieri che vivono irregolarmente in Germania, ma non possono essere espulsi perché hanno figli perfettamente integrati nella società tedesca[12]. Secondo le stime dello stesso governo sarebbero tra i 150.000 e i 200.000 gli immigrati interessati a questa sanatoria, per la maggior parte profughi dalla ex Jugoslavia che si sono visti negare negli anni scorsi il riconoscimento del diritto di asilo.

 

2.2.  Le politiche italiane: migranti e clandestini

L’analisi delle politiche migratorie italiane ha come punto di partenza obbligato la legge 39/1990 (cosiddetta legge Martelli). Questa legge per la prima volta si propone di disciplinare in modo organico l’immigrazione, cercando di evitare che si formino sacche di irregolarità. A questo scopo il legislatore prevede l’emanazione di un decreto governativo annuale (il cosiddetto “decreto flussi”) per la definizione dei criteri di ammissione dei lavoratori immigrati e delle misure atte al loro inserimento sociale[13]. Contestualmente il legislatore offre agli stranieri presenti irregolarmente sul territorio nazionale la possibilità di sanare la loro posizione[14]. Gli effetti di questa sanatoria si dispiegano nel corso del 1991, quando essa consente a 234.841 persone di mettersi in regola[15].

Secondo l’Istat (2004, 9) il primo gennaio 1992 risultavano regolarmente presenti in Italia 648.935 stranieri. Molti di loro erano entrati o si erano trattenuti irregolarmente sul territorio italiano, avevano poi acquisito il permesso di soggiorno grazie alle tre sanatorie che si erano succedute dal 1982 al 1990. Prima della Martelli, nel 1982, una circolare del ministero del lavoro permise di regolarizzare circa 2.500 persone, poi la legge 943 del 1986 (al titolo IV) consentì a 118.709 persone di acquisire un permesso di soggiorno, così che nel 1987 i migranti regolarmente soggiornanti passarono da 450.277 a 572.103 (con un incremento del 27,1%). Grazie alle sanatorie, nel decennio immediatamente precedente al rilevamento dell’Istat, si erano dunque messe in regola poco meno di 357.000 persone. Se fossero tutte rimaste in Italia fino al 1992, avrebbero rappresentato ben più della metà degli stranieri presenti al primo gennaio di quell’anno: è realisticamente ipotizzabile che circa la metà degli stranieri presenti sul nostro territorio al primo gennaio 1992 fossero entrati nel territorio statale, o vi avessero soggiornato, irregolarmente e dopo qualche anno di clandestinità avessero usufruito di una sanatoria. Questo calcolo approssimativo è confermato dall’Istat (2004, 10), secondo il quale oltre un terzo dei migranti presenti sul territorio nazionale il primo gennaio del 1992 era costituito da individui che avevano beneficiato della legge n. 39 del 1990, in maggioranza africani e asiatici.

Gli effetti dell’instabilità dei permessi rilasciati in base alla sanatoria del 1990 si fanno sentire nel corso del 1992: a fine anno risultano circa 160.000 permessi non rinnovati, con una marcata riduzione dei migranti regolarmente soggiornanti il primo gennaio dell’anno successivo che sono circa 589.000, quindi 60.000 in meno. L’Istituto nazionale di statistica osserva che un tale esito “era in parte prevedibile” dato che la legge Martelli “puntava essenzialmente a portare alla luce la quota illegale della presenza straniera” e quindi consentiva agli irregolari di sanare la loro situazione con grande facilità: per ottenere il permesso di soggiorno bastava dimostrare di essere in Italia alla data del 31/12/1989, solo al momento del rinnovo del permesso di soggiorno si doveva dimostrare di avere un lavoro. Rimarrebbe da chiedersi quanti, dei 160.000 migranti a cui non fu rinnovato il permesso di soggiorno, hanno effettivamente lasciato il territorio nazionale. Mancano tuttavia i dati che consentano di rispondere a questa domanda.

Anche dopo la legge Martelli, come è noto, il legislatore non ha smesso di ricorrere alle sanatorie, anzi i dati mostrano che le sanatorie, e non i meccanismi che presiedono all’ingresso, sono state dal 1990 in poi il principale mezzo attraverso cui i migranti hanno potuto accedere allo status di residenti in regola. Nei primi anni di applicazione della legge 39/90, i decreti flussi si sono limitati a permettere l’ingresso secondo le modalità previste dalla legge 943 del 1986, quindi in pratica per la sola chiamata nominativa, senza peraltro fissare il numero massimo di ingressi consentiti. La chiamata numerica di lavoratori residenti all’estero, fatta esclusivamente basandosi su liste organizzate per competenza professionale, è utilizzata solo da industrie medio-grandi per lavori ad alto contenuto tecnico, per i quali l’incontro tra domanda e offerta può prescindere dall’instaurarsi di un rapporto di fiducia tra lavoratore e datore di lavoro. Ad essa, invece, non hanno fatto ricorso, pressoché mai, le piccole imprese, che evidentemente hanno spesso preferito servirsi di migranti a loro noti, presenti irregolarmente sul territorio nazionale. Le limitazioni imposte dal decreto sui flussi hanno dunque proposto, come canale quasi normale d’accesso al titolo di soggiorno, un percorso tracciato dalle seguenti tappe: ingresso irregolare o per motivi di turismo, soggiorno irregolare, che consente di trovare un inserimento nel mondo del lavoro sommerso, e sanatoria.

Dal gennaio 1993 al dicembre 2002 i migranti regolarmente soggiornanti passano da circa 589.000 a circa 1.503.000. Su questo dato influiscono le sanatorie disposte nel 1995 dal decreto legge 489 (cosiddetto “decreto Dini”) e dal decreto legge del 16/10/98, emanato immediatamente dopo l’approvazione della legge 40 del 1998 (cosiddetta “legge Turco-Napolitano”), che hanno permesso rispettivamente la regolarizzazione di 246.000 e 215.000 migranti circa. Quindi, ancora una volta, dei circa 914.000 stranieri che in un decennio acquistano un titolo di soggiorno regolare sul territorio statale, oltre la metà (circa 461.000) non ha seguito il percorso previsto dalle norme, ma ha soggiornato clandestinamente per qualche tempo sul territorio italiano[16]. Come chiarisce l’Istat (2004, 10 e 11), è grazie alla sanatoria predisposta con il d.l. 489 del novembre 1995 che gli stranieri regolarmente soggiornanti al primo gennaio 1997 sono il 35% in più di quelli dell’anno precedente[17] e, analogamente, alla base della crescita di circa 250.000 migranti regolarmente soggiornanti, verificatasi tra gennaio 1999 e gennaio 2000, sta “la regolarizzazione avviata con il D.p.c.m. del 16 ottobre 1998 e poi definita con il D.l. n. 113 del 13 aprile 1999”. Ma il dato più interessante posto in evidenza dall’Istituto di statistica è che i migranti regolarizzati in entrambe le occasioni, al contrario di quelli regolarizzati con la legge Martelli, si sono dimostrati capaci di conservare il loro status di regolari e di rinnovare i loro permessi di soggiorno[18]. Ancora una volta quindi si può stimare che per almeno la metà dei 1.503.000 migranti presenti sul territorio italiano al primo gennaio 2003 la conquista del permesso di soggiorno è passata attraverso un periodo, più o meno lungo, di clandestinità.

Questo dato diventa ancora più eclatante con la sanatoria predisposta con la legge 189 del 2002, per la quale risultano presentate 702.156[19] domande, a fronte delle quali risulta che al 31 dicembre 2003 gli stranieri non comunitari residenti erano aumentanti di oltre un terzo (circa 533.000 unità) rispetto al primo gennaio, raggiungendo il numero di 2.036.682, mentre i permessi di soggiorno erano arrivati a 2.193.999[20]. Questo balzo in avanti è dovuto ai migranti che hanno ottenuto la sanatoria, stimata dall’Istat di circa 650.000 persone[21], la stragrande maggioranza dei quali prevede di restare in Italia per un periodo ragionevolmente lungo, visto che si affretta a prendere la residenza. Questi dati statistici portano a concludere che non si dovrebbe essere lontani dalla realtà se si afferma che quasi due terzi dei migranti oggi legalmente residenti in Italia è passato attraverso un periodo più o meno lungo di permanenza clandestina sul nostro territorio[22].

Questa stima appare realistica, tenendo conto anche del fatto che il migrante assunto per chiamata nominale non di rado è un soggetto che auto-sana la propria posizione sul territorio nazionale. Spesso, infatti, questi migranti non sono all’estero, come vorrebbe la legge, ma presenti in modo irregolare sul territorio nazionale, e magari già lavorano per un datore di lavoro “onesto”, che alla pubblicazione del decreto flussi, richiede la loro assunzione, per permettere loro di godere delle più elementari forme di protezione previste per i lavoratori[23]. Se la domanda del datore di lavoro rientra nella quota, il migrante fa rientro nel suo paese di origine, ottiene un regolare visto di ingresso e torna nel nostro paese dove gli viene rilasciato un permesso di soggiorno per motivi di lavoro che lo protegge dalla forme più odiose di sfruttamento. Se si tiene poi conto che quasi un quarto dei permessi di soggiorno esistenti alla fine del 2003 risultava rilasciato per motivi di famiglia[24], si arriva alla conclusione che la stragrande maggioranza dei migranti che dispongono di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, lo hanno ottenuto grazie ad una sanatoria. Volendo essere rigorosi, poi, tra coloro che hanno acquisito un titolo di soggiorno sfruttando la condizione di irregolarità andrebbero anche calcolati tutti i migranti che si sono serviti indirettamente della sanatoria per entrare nel territorio dello Stato, cioè tutti quei migranti che sono entrati grazie al ricongiungimento familiare con lavoratori che hanno usufruito di una sanatoria.

Il messaggio, quindi, che le nostre politiche migratorie comunicano è che se un migrante vuol entrare in Italia deve essere pronto ad affrontare un periodo di clandestinità sul nostro territorio e forse anche a varcare clandestinamente la frontiera. I dati relativi all’ultima sanatoria, gli unici che abbiamo relativi al rapporto tra migranti entrati irregolarmente e overstayers, cioè diventati “clandestini” perché rimasti alla scadenza del permesso di soggiorno, dicono che il 75% delle oltre 700.000 persone che avevano chiesto di regolarizzarsi erano entrate in Italia regolarmente e vi sono rimaste dopo la scadenza del visto o dell’autorizzazione al soggiorno[25].

Come nel resto di Europa, il continuo ricorso alle sanatorie e l’enorme numero di migranti che acquisivano il permesso di soggiorno per questa via è stato lungi dal convincere il legislatore italiano della necessità di rendere più facile il percorso di ingresso degli stranieri. In particolare il legislatore si è sempre rifiutato di consentire la conversione del permesso di soggiorno per motivi di turismo in permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato o autonomo, qualora il migrante nel periodo di permanenza sul territorio sia stato in grado di mettersi nelle condizioni di accedervi. Questo passo sarebbe stato di fondamentale importanza dato che, come riconosce il governo nell’ultimo documento programmatico, la maggioranza dei “clandestini” è rappresentata non da migranti che si sottraggono ai controlli alla frontiere, ma dai cosiddetti “overstayers”. Siamo cioè “in presenza di un numero notevole di soggetti che, entrati legalmente, permangono dopo la scadenza di visti o permessi di soggiorno”.

Ad una politica di maggior apertura certo non ostava la difficoltà di inserire i migranti nel tessuto sociale e/o nel mondo del lavoro. La stabilizzazione dei migranti regolarizzati con sanatorie a partire dal 1995 mostra che il contesto sociale e lavorativo italiano era in grado di assorbire (e di fatto, al momento della regolarizzazione, aveva già assorbito) un numero di migranti molto maggiore di quelli cui era consentito l’ingresso regolare. Il legislatore italiano non ha però mai proceduto in questa direzione. Recentemente ha addirittura intrapreso la strada inversa, rendendo sempre più difficile l’ingresso dei migranti e procedendo contestualmente alla più grande sanatoria fino ad oggi effettuata.

Il sistema predisposto dalla legge Martelli fissava due principi regolativi dell’ingresso dei migranti, che sono poi rimasti inalterati: perché il migrante potesse entrare in Italia erano previsti un requisito soggettivo e uno oggettivo. Dal punto di vista soggettivo il migrante doveva dimostrare “la disponibilità in Italia di beni o di una occupazione regolarmente retribuita” (art. 3 comma 6). Dal punto di vista oggettivo non doveva essere superato il limite di ingressi fissato di anno in anno dal decreto previsto dall’art. 2 comma 3 della stessa legge (questo meccanismo era già previsto dalla legge 943 del 1986). Potevano dunque entrare in Italia i migranti che avevano un lavoro, o comunque un reddito, nel limite dei numeri fissati di anno in anno dal decreto interministeriale. Un percorso agevolato di ingresso avrebbe dovuto crearlo il meccanismo che è stato definito dello “sponsor” previsto sempre dall’art. 3 comma 6 della legge[26]. La norma stabiliva che l’immigrato “sponsorizzato” poteva entrare in Italia alla ricerca di un lavoro, previa accettazione da parte del Ministero dell’interno della fideiussione da parte di un garante pubblico o privato. Nel caso in cui lo straniero avesse trovato un’occupazione il permesso di soggiorno sarebbe stato modificato in permesso per lavoro, altrimenti alla scadenza l’interessato avrebbe dovuto far ritorno nel paese di provenienza.

Il meccanismo disegnato dalla legge Martelli non è mai andato a regime, perché i decreti flussi hanno di fatto consentito l’ingresso solo per chiamata lavorativa nominale[27]. A testimonianza del mancato funzionamento della “sponsorizzazione”, vigente la legge Martelli, sta il fatto che il governo, nel “Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato” del 2001 (approvato dal Consiglio dei Ministri il 15-03-2001), considerava una novità introdotta dalla legge 40 del 1998 “la procedura di ingresso per ricerca di lavoro tramite uno “sponsor”, italiano o straniero regolarmente soggiornante, che garantisce per un anno la permanenza sul territorio nazionale dello straniero”. Quindi la necessità di ricorrere alle sanatorie potrebbe essere ragionevolmente fatta discendere dal fatto che, prima dell’approvazione della legge 40, in realtà non esisteva un meccanismo di ingresso regolare in Italia diverso dalla chiamata nominativa del datore di lavoro[28].

Con la legge 40 del 1998, poi confluita nel testo unico sull’immigrazione dello stesso anno (d.lgs 289 del 1998) e il relativo Regolamento di attuazione (d.P.R. n. 394 del 1999), viene ribadito il meccanismo degli ingressi previsto dalla legge del 1990 e viene regolato dettagliatamente il meccanismo della “sponsorizzazione”, cui il governo sembra attribuire un grande rilievo. Ma neppure la nuova normativa ha garantito una reale corrispondenza tra capacità di assorbimento del sistema economico-sociale italiano e concessione dei visti di ingresso e dei permessi di soggiorno. Le oltre 700.000 domande presentate per la sanatoria del 2002 mostrano che tra il 1998 e il 2002 un gran numero di migranti è entrato e/o ha soggiornato irregolarmente in Italia. Queste persone, sebbene irregolarmente presenti sul territorio nazionale, si sono inserite nel mercato del lavoro e nel contesto sociale, tanto che al momento della sanatoria sono state in grado di indicare un alloggio ed hanno trovato un datore di lavoro disposto non soltanto ad assumerle[29], ma addirittura a dichiarare che negli ultimi tre mesi avevano lavorato per lui in nero e a metterle in regola sul piano contributivo[30].

Ciò che rasenta il grottesco nello sviluppo della politica in materia di ingressi dal 1992 ad oggi, non è tanto la sua miopia, ma il fatto che i documenti ufficiali del governo tra l’approvazione della legge Turco-Napolitano e quella della legge 189 del 2002 (la cosiddetta “legge Bossi-Fini”) mostrano che lo stesso governo è pienamente consapevole dei limiti e dei difetti della politica che sta seguendo. La relazione di accompagnamento al decreto flussi del 2001 (presentata il 14/3/2001) si segnala per un notevole lapsus. Il governo sembra consapevole che i canali di immigrazione clandestina sono gli unici effettivamente disponibili. Infatti, parlando delle quote riservate ai paesi con cui sono stati conclusi accordi di riammissione, dichiara che esse servono a tener “aperto un canale di immigrazione legale e controllato, alternativo a quello clandestino fornito dai mercanti di esseri umani” (corsivo mio). Nell’inconscio del governo sembra esserci la consapevolezza che il canale normale di immigrazione è la clandestinità e che vadano aperti anche dei canali legali.

Nel primo “Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato”, emanato a norma dell’art. 3 della legge n. 40 del 1998, con decreto del Presidente della Repubblica del 5 agosto 1998, il governo sembrava consapevole del fatto che era necessaria una liberalizzazione degli ingressi per evitare l’immigrazione clandestina. Ripercorrendo i dati del 1997, infatti, notava che, assumendo come campione generale i circa 92.000 nuovi permessi rilasciati a cittadini provenienti da paesi a forte pressione migratoria (Europa Centro-orientale, America Centro-meridionale, Africa ed Asia ad esclusione di Giappone e Israele), il permesso di soggiorno per motivi di lavoro era solo il terzo tipo di permesso rilasciato. Per motivo di lavoro erano entrati solo poco più di 16.000 immigrati (circa il 17%). Lucidamente il governo attribuiva questa quota esigua al fatto che, vigente la legge Martelli, l’ingresso per lavoro era “in pratica possibile quasi esclusivamente solo in presenza di una richiesta di assunzione nominativa da parte di un datore di lavoro”.

In questo documento il problema dei limiti dei canali di ingresso era chiaramente percepito. Il governo osservava con sospetto che la quota maggiore (quasi 24.000, pari a circa il 26% del totale) dei nuovi permessi di soggiorno era stata rilasciata per turismo e annotava che essa, con ogni probabilità, "nasconde" una certa quota di ingressi di cittadini stranieri intenzionati a fermarsi in Italia per motivi diversi dal turismo ma privi di quei requisiti, quali la richiesta di ricongiungimento familiare o la chiamata lavorativa, che consentono l’ottenimento di titoli di soggiorno di ben diversa natura e durata (corsivo mio).

L’impraticabilità della strada di accesso rappresentata dal permesso per motivi di lavoro emergeva, anche se il documento non lo dice, anche dalla circostanza che la seconda tipologia di permesso di ingresso più utilizzata era il ricongiungimento familiare (nel ‘97 erano stati poco più di 23.000, circa il 25 % del totale). Ancora nel 2001 il governo si mostra perfettamente consapevole del problema e nel nuovo “Documento programmatico” afferma che “per pervenire ad un effettivo controllo dei flussi […] non è sufficiente stabilire ‘a priori’ delle quote di ingresso, ma è necessario prevedere delle norme che consentano un ingresso regolare per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, così da scoraggiare un afflusso clandestino di forza lavoro destinata a svolgere lavoro ‘in nero’, che costituisce un fattore di indebolimento della politica di programmazione dei flussi”[31].

Ci si immagina che un governo, forte di queste consapevolezze, sia ricorso in modo massiccio all’istituto che meglio si prestava a eliminare il collo di bottiglia degli ingressi legali: quell’istituto della sponsorizzazione che la legge 40 e il regolamento del 1999 avevano dettagliatamente disciplinato. In effetti nel “Documento programmatico” del 2001 il governo attribuisce grande rilevanza a questo istituto che “consente ad un cittadino straniero, iscritto in apposite liste tenute presso le Rappresentanze diplomatiche italiane all’estero, di richiedere un visto di ingresso per inserimento nel mercato del lavoro, dimostrando di avere la disponibilità di mezzi di sostentamento per un ammontare di circa 4 milioni, una copertura sanitaria, un alloggio idoneo e una somma occorrente per il rimpatrio”. Nelle parole del governo la sponsorizzazione dovrebbe rappresentare la soluzione dei problemi di ingresso regolare, dato che essa consente “un ingresso regolare per un anno ad uno straniero ad un costo inferiore di quello richiesto dai trafficanti per un ingresso clandestino”.

Se però si analizzano i decreti sui flussi del governo di centro-sinistra e in particolare l’uso che il governo ha fatto dell’istituto della sponsorizzazione, prima che le modifiche introdotte dalla legge Bossi-Fini lo abolissero, si rimane molto delusi: il governo per due anni non utilizza la sponsorizzazione e per consentire la regolarizzazione degli stranieri già presenti sul territorio nazionale centellina l’ingresso legale dei nuovi migranti. Il primo campanello d’allarme si trova nel “Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato” del 1998, emanato prima di emettere il primo decreto flussi vigente la nuova normativa. In questa sede, infatti, il governo ipotizza di limitare l’uso della “sponsorizzazione” (art. 21 legge 40 del 1998 e 23 T.U.) ai migranti provenienti dai paesi con cui sono stati conclusi accordi di reingresso. Contemporaneamente alla minaccia di limitare l’uso di questo strumento per i migranti che ancora devono giungere sul territorio italiano, il governo ipotizza, a conferma del privilegio attribuito alla legalizzazione mediante sanatoria, che “in via eccezionale, per il 1998 e, in parte minore, per il 1999, potrà essere consentito, per un limitato contingente di lavoratori presenti in Italia anche in situazione di irregolarità, l’attivazione del meccanismo delle garanzie prestate da terzi ai sensi dell’art. 21, con il rilascio di un permesso di soggiorno per un anno ai fini di inserimento nel mercato del lavoro”. Si ipotizza dunque di trasformare il meccanismo principe di facilitazione degli ingressi regolari in uno strumento di sanatoria.

Questi due propositi delineano abbastanza chiaramente lo spirito della politica migratoria seguita nei mesi successivi. Il decreto del Ministro degli Affari Esteri per la programmazione dei flussi emesso in data 24 dicembre 1997, quindi ancora vigente la legge Martelli, consente l’ingresso per lavoro a tempo indeterminato e determinato, incluso quello stagionale, fino a 20.000 cittadini extracomunitari. Emanata la legge 40/98, il governo, in coerenza con quanto sostenuto nel “Documento programmatico” del 1998, ritiene necessario integrare questa quota e, in data 16 ottobre 1998, viene emanato un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri con il quale si consente il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato ed autonomo per altri 38.000 migranti. Però in questa quota vengono compresi anche coloro che erano già presenti in Italia alla data dell’entrata in vigore della legge 40/98, purché in possesso di determinati requisiti (idonea occupazione lavorativa subordinata o autonoma, disponibilità di un alloggio)[32]. In altre parole, il primo decreto flussi successivo alla legge Turco-Napolitano stabilisce di utilizzare le quote previste per l’ingresso regolare ai fini della sanatoria. Il risultato è stato, come riconosce il “Documento programmatico” del 2001, che nel 1998, a fronte di 58.000 posti teoricamente disponibili, sono effettivamente entrati per svolgere attività di lavoro subordinato circa 28.000 stranieri a cui sono stati rilasciati regolari permessi di soggiorno. Il minor numero di ingressi per lavoro registrato nel 1998 rispetto alla programmazione è dovuto, in massima parte, all’avvio delle procedure di regolarizzazione attraverso l’emanazione del decreto flussi integrativo che riservava, di fatto, la quota di ingressi ai possibili regolarizzandi.

Inoltre il primo decreto sui flussi, vigente la legge Turco-Naplitano, non ha consentito l’utilizzo della sponsorizzazione perché il Regolamento di attuazione è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale solo il 3 novembre 1999, circostanza che ha impedito l’utilizzo di questo istituto la cui normativa, completamente ridisegnata, doveva essere integrata appunto dal Regolamento. La tanto decantata “sponsorizzazione” non viene utilizzata neppure l’anno successivo, quando, ancora una volta, la sanatoria viene anteposta al regolare ingresso. Il governo infatti decide di attendere l’esito della sanatoria prima di emanare il nuovo decreto flussi. Il 4 agosto, quindi quasi a tre quarti dell’anno, viene emanata una Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri che stabilisce una quota di ingresso pari a quella dell’anno precedente (cioè di 58.000 unità). Ma nessuno di questi posti è usufruibile attraverso il meccanismo della sponsorizzazione: 54.500 sono destinati a lavoratori subordinati e 3.500 a quelli autonomi. In conseguenza di queste scelte, nel 1998 e nel 1999 nulla è cambiato rispetto agli anni precedenti: per entrare in Italia serve di fatto la chiamata nominale (unica modesta eccezione sono i 3.500 ingressi previsti per lavoro autonomo). Come accadeva sotto la disciplina della legge Martelli, gli ingressi regolari per ricongiungimento familiare[33] sono molto superiori a quelli per lavoro subordinato: nel 1998, a fronte di 47.433 permessi di soggiorno rilasciati per ricongiungimento familiare, figurano 26.063 permessi di soggiorno rilasciati per lavoro subordinato. Nel 1999 questi ultimi sono 29.405, contro 43.500 permessi per ricongiungimento familiare.

Nel 2000 viene emanato un decreto flussi[34] che sembra finalmente corrispondere al disegno della legge Turco-Napolitano. Si prevedono 63.000 posti, così suddivisi: 28.000 riservati alla chiamata diretta del datore di lavoro per lavori a tempo determinato o indeterminato, 2.000 per lavoratori autonomi, 18.000 per lavoratori provenienti dai paesi con cui erano stati sottoscritti accordi di riammissione dei migranti irregolari, e finalmente 15.000 per lavoratori assistiti da sponsor (senza restrizioni sui paesi geografici di provenienza: “provenienti da qualsiasi paese extracomunitario”). Nonostante i timori del governo sull’utilizzo di questi ultimi posti, essi andarono esauriti nei 60 giorni previsti.

Nel 2001 il governo sembra prendere atto dell’esperienza dell’anno precedente che così sintetizza nella relazione di accompagnamento del nuovo decreto flussi: eccesso di domanda da parte delle imprese rispetto alle quote dell’ultimo decreto flussi e velocità di esaurimento quote anno precedente: i livelli massimi stabiliti dal decreto flussi 2000 sono stati raggiunti con largo anticipo, sia per lavoro subordinato, che per lavoro autonomo o ricerca di lavoro, indicando una richiesta elevata.

Il decreto flussi del 2001[35] contiene dunque meno vincoli: vengono aumentati gli ingressi per lavoro subordinato che sono portati a 50.000, a cui vanno aggiunti 33.000 ingressi per lavoro stagionale, e vengono ridotti a 11.5000 i posti riservati ai paesi con cui sono stati stipulati accordi di riammissione, ma vengono nuovamente previsti solo 15.000 ingressi mediante sponsorizzazione. Nella relazione di accompagnamento al decreto il governo sembra quasi volersi giustificare per aver previsto questa quota. A dispetto della rilevanza che aveva attributo a questo istituto nel quadro delle politiche migratorie e delle sue considerazioni sul rapido esaurimento delle quote dell’anno precedente, il governo dichiara di voler andare con i piedi di piombo nel suo utilizzo e di voler sottoporre a verifica i suoi risultati. Si legge infatti nella relazione: questa categoria di lavoratore extracomunitario, pur prevista nella legge 40/1998, è stata utilizzata per la prima volta solo nel 2000. Si tratta ora di verificare gli esiti del primo anno di applicazione tramite un’azione di monitoraggio che verrà effettuata allo scadere dei 12 mesi concessi dalla legge per ricercare lavoro. Il monitoraggio riguarderà sia l’inserimento sociale e le soluzioni abitative che la verifica della realizzazione concreta del progetto di lavoro.

La previsione di una nuova quota di 15.000 ingressi per migranti provvisti di sponsor è presentata come una concessione eccezionale, invece che come il perno di una politica tesa a favorire gli ingressi regolari. Il governo afferma di essersi deciso a questo passo considerate “le richieste delle associazioni di mantenere aperto questo importante canale di accesso al mercato del lavoro, anche alla luce del minore impatto sul territorio assicurato dalla presenza dei prestatori di garanzia (i cosiddetti sponsor)”.

Non sorprende dunque che con la legge Bossi-Fini, nonostante la grande massa di migranti irregolari che tutte le ricerche segnalavano essere provocati dalla chiusura dei canali di afflusso legale, il legislatore abbia abolito l’istituto della sponsorizzazione, provocando, come rileva l’Istat (2004, 12), una diminuzione dei permessi di lavoro al 1° gennaio 2003 rispetto all’anno precedente. L’abolizione dello sponsor non è l’unica previsione della legge 189/2002 che restringe il già angusto percorso di ingresso legale nel nostro paese. La legge ha infatti subordinato l’ingresso del migrante all’esistenza di un pre-contratto di lavoro già firmato con il quale il datore di lavoro garantisce la disponibilità di un alloggio conforme alla normativa sull’edilizia popolare, nonché il pagamento delle spese di rientro nel paese di origine. È stata inoltre limitata la possibilità per uno straniero regolarmente residente di ottenere un permesso di soggiorno per motivi familiari per i suoi genitori.

Le progressive restrizioni dei già angusti canali di accesso regolari e le continue sanatorie fanno emergere una chiara volontà politica di privilegiare il meccanismo del soggiorno irregolare come strumento di inserimento sociale dei migranti. I dati statistici e l’evoluzione normativa mostrano chiaramente che governo e parlamento italiano preferiscono che uno straniero cerchi un lavoro e tenti di inserirsi socialmente partendo da condizioni di clandestinità (e quindi privo di ogni garanzia e titolare di pochissimi diritti), piuttosto che usufruendo della “sponsorizzazione”, di un permesso di soggiorno per turismo, per ricerca di lavoro o per residenza elettiva.

 

2.3.  Le forche caudine dell’illegalità: governare i migranti attraverso il diritto penale

Le progressive restrizioni dei già angusti canali di accesso regolari e le continue sanatorie mostrano l’emergere in tutta Europa una chiara volontà politica di privilegiare il meccanismo del soggiorno irregolare come strumento di inserimento sociale dei migranti. I dati statistici e l’evoluzione normativa mostrano chiaramente una tendenza a preferire che uno straniero cerchi un lavoro e tenti di inserirsi socialmente partendo da condizioni di clandestinità (e quindi privo di ogni garanzia e titolare di pochissimi diritti), piuttosto che usufruendo di un permesso di soggiorno per turismo, per ricerca di lavoro o per residenza elettiva. La politica europea dell’immigrazione sembra sempre più caratterizzata dall’uso dell’irregolarità come una forca caudina, di fronte alla quale un gran numero dei migranti deve abbassare la testa, se vuole riuscire ad accedere alla condizione di regolarità. Il messaggio che le politiche migratorie comunicano sembra essere: se un migrante vuol entrare nella “fortezza Europa” deve essere pronto ad affrontare un periodo di clandestinità e forse anche a varcare clandestinamente la frontiera.

La scelta di governare il fenomeno dell’immigrazione attraverso le sanatorie ha naturalmente pesanti costi in termini di sacrificio della legalità. E’ ovvio che la presenza di una massa rilevante di “clandestini” (siano essi migranti entrati irregolarmente o overstayers, cioè soggetti che, entrati legalmente, permangono dopo la scadenza del permesso di soggiorno) comporta un numero enorme di azioni illegali (praticamente tutte o quasi quelle compiute dai clandestini e da chi entra in relazione con loro dandogli un lavoro, affittandogli una casa, eccetera) ed un numero consistente di azioni penalmente sanzionate. Infatti le persone presenti irregolarmente sul territorio, solo per espletare le loro esigenze vitali, incorrono inevitabilmente nella commissione di irregolarità amministrative e di reati (o la causano): essi, infatti, oltre a lavorare “in nero” con tutte le evasioni contributive, assicurative e previdenziali che questo comporta, spesso lavorano in mercati illegali, falsificano documenti, non ottemperano all’ordine di allontanarsi dal territorio nazionale o al divieto di non farvi rientro e così via. I pochi dati disponibili relativi all’Italia confermano lo stretto legame tra carcerazione e irregolarità. Nel “Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato 2001-2003” il governo sostiene che dalle segnalazioni pervenute al C.E.D. del Dipartimento della P.S. il 30 settembre 2000 si ricava che il numero dei detenuti stranieri titolari di permesso di soggiorno, in rapporto al totale dei cittadini extracomunitari regolarmente soggiornanti, era, infatti, più o meno equivalente al dato relativo all’incidenza percentuale dei detenuti italiani e stranieri regolarmente soggiornanti rispetto al totale della popolazione. Il tasso di detenzione degli stranieri non-comunitari regolarmente soggiornanti era pari allo 0,10%, mentre quello della popolazione complessiva regolarmente soggiornante (quindi stranieri titolari di permesso di soggiorno e cittadini italiani) era dello 0,07%[36]. Questi dati trovano conferma nel “Rapporto sulla sicurezza 2004” redatto dal Ministero degli interni, da quale risulta che su 611.000 persone arrestate nel corso del 2005 il 28,12% erano migranti irregolarmente presenti sul territorio nazionale, mentre la quota di migranti regolari è quasi irrilevante.

Se esiste, dunque, una popolazione che statisticamente ha la propensione a commettere reati puniti con la detenzione, questa non è la popolazione dei migranti tout court, ma la popolazione dei migranti privi di permesso di soggiorno[37]. Proporsi di regolare l’accesso dei migranti allo status di persone legalmente residenti attraverso il percorso “irregolarità-sanatorie” vuol dire scegliere di governare i migranti attraverso il diritto penale e il carcere. Il rapporto tra irregolarità e criminalità ripropone la domanda: perché i legislatori e i governi europei preferiscono affrontare i costi sociali e politici della criminalità dei migranti irregolari, piuttosto che facilitare l’accesso regolare al territorio nazionale ed elaborare politiche sociali capaci di farsi carico della popolazione presente sul territorio?

 

 

3.      Un nuovo paradigma di governo: dalla cittadinanza inclusiva alla cittadinanza escludente

Per rispondere alla domanda, che le politiche di governo dell’immigrazione europee fanno sorgere spontanea, credo siano necessarie alcune premesse. In primo luogo la situazione descritta mostra che le società europee sono società liberali, cioè società tolleranti, vocazionalmente aperte, che accolgono identità collettive anche contrapposte le une alle altre, società che accettano non solo comportamenti de­vianti, ma tassi consistenti di illegalità che implicitamente considerano fisiologici. Proprio queste caratteristiche comportano che esse siano percorse da una costante ansia di rassicurazione, permanentemente mobilitate al controllo di ciò che, di volta in volta, percepiscono come “rischioso”.

Una discussione delle politiche adottate dalle società europee contemporanee per integrare i migranti e le fasce sociali marginali deve poi necessariamente tener conto del fatto che gli Stati del vecchio continente stanno facendo i conti con il progressivo indebolimento della loro sovranità interna, a fronte della forza della razionalità del mercato globale. La loro “potenza”, ma direi la loro esistenza in quanto entità che si possono definire ancora, in qualche senso non solo formale, “sovrane”, dipende dal grado in cui i loro abitanti investono sulla propria “valorizzazione”, rischiano il proprio capitale, sfruttano fino in fondo la li­bertà d’azione che riescono a conquistarsi, afferrano tutte le chances che si presentano loro, sono, in poche parole, opportunisti e cinici in un contesto di scarsità che non offre a tutti le stesse possibilità. Ma governare cercando di sviluppare queste capacità è quasi un ossimoro: vuol dire cercare di gestire l’ingestibile, di controllare ciò che non può, e non deve, essere posto sotto controllo, cioè la libertà degli attori, libertà dalla quale dipende la produ­zione e la circolazione della ricchezza e, più in generale, lo scambio sociale complessivo. La strategia neo-liberista, adottata per uscire da questo vicolo cieco, fa proprie forme economiche e gestionali che trattano la libertà ora come un “costo” ora come un fattore di “rischio”. Questa modalità di governo richiede meccanismi sempre più sot­tili, elastici e pervasivi di sorveglianza: il controllo diventa lo strumento principale per gestire “i rischi della libertà”, assunta a pietra angolare dell’organizzazione economico-sociale.

Le tesi che Foucault ha sviluppato nei corsi tenuti al Collège de France tra il 1977 e il 1979 mi sembrano uno strumento essenziale per analizzare le modalità di integrazione sociale che in questo momento storico caratterizzano le società europee e il ruolo che il carcere gioca in esse. In queste lezioni si trovano, infatti, analisi che suggeriscono una ragione profonda soggiacente alle politiche che negli ultimi anni hanno portato molti paesi europei a lesinare la concessione dei diritti di cittadinanza ai migranti. Per circa un secolo, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, l’integrazione sociale in Europa è stata condotta attraverso una politica della cittadinanza (intesa come paniere di diritti) inclusiva: caratterizzata tanto da un progressivo aumento dei soggetti ammessi a godere dei diritti di cittadinanza, quanto da un progressivo allargamento del paniere di questi diritti. Oggi i governi europei tendono ad adottare politiche di cittadinanza “eslcudenti”: la percezione della necessità di ridurre progressivamente i diritti sociali riconosciuti sembra aver creato la predisposizione ad accettare l’idea che nei loro paesi esista una larga fascia di soggetti privi di diritti, una underclass[38]. La tesi che propongo è che la ragione di questo mutamento vada cercata nella percezione, non chiaramente tematizzata, ma latente, che i fenomeni migratori hanno trasformato la popolazione, ossia l’oggetto privilegiato dell’azione di governo, da dato fisso legato ad uno specifico territorio, a risorsa mobile, ampiamente selezionabile e manipolabile, Questa trasformazione sta provocando una crisi strutturale di quella che Foucault ha definito “biopolitica”, cioè di quelle tecnologie che dalla fine del XIX secolo hanno rappresentato lo strumento di governo delle società europee.

 

3.1. Prendersi cura della popolazione

Come è noto, nella prima metà degli anni Settanta del secolo scorso, Foucault concentra la sua attenzione sullo sviluppo delle tecniche disciplinari. Queste sono presentate come strumenti indispensabili di governo degli individui nelle società moderne, incomparabilmente più complesse di quelle dell’ancien régime. La sua analisi, in quegli anni, è per molti versi parallela a quella di Gerhard Oe­streich[39] che aveva sottolineato l’importanza del progetto di­sciplinare, in particolare della Polizeiwissenschaft dello Stato assolutista, considerando il suo sforzo minu­zioso di regolamentare la vita collettiva e individuale come il presupposto della democratizzazione politica del XIX secolo.

Foucault (1975) sembra prendere sul serio la tesi di Tocqueville (1840, tr. it. 303), che nella De la démocratie en Amérique, studiando il primo grande regime liberal-democratico, aveva affermato che il potere che “faceva presa sui corpi”, che aveva garantito la sopravvivenza dei regimi assolutistici, non è adatto alle liberal-democrazie: per governare questi regimi non serve un potere cruento, ma un potere capace di “far presa sulle anime”. La disciplina, cioè il sistema di pratiche che investe il corpo del singolo individuo per renderlo socialmente compatibile ed economicamente produttivo, è la tecnologia attraverso cui si esprime questo potere. Tocqueville osserva che con il passaggio dai regimi dispotici, fondati sulla coercizione, ai regimi liberal-democratici, fondati sul consenso, si avverte con forza l’esigenza di addestrare i soggetti ad essere dei buoni cittadini. Nell’esercizio dei propri diritti, gli individui devono comportarsi secondo criteri morali e razionali (i due termini per il contrattualismo illuminista sono in larga parte sinonimi): la “disciplina conforma gli individui ai criteri dell’ordine in cui si trovano inseriti.

Le tecnologie disciplinari e la scienza della polizia hanno come obbiettivo garantire il benessere della popolazione e, attraverso questo, la potenza dello Stato. Nel corso del secolo XVIII si sviluppa un sapere, chiamato dai tedeschi Polizeiwis­senschaft, che consisteva ne “la teoria e l’analisi ‘di tutto ciò che tende ad affermare e ad aumentare la potenza dello Stato, a fare un buon uso delle sue forze e a procurare la felicità dei suoi sudditi’ e, principalmente, ‘il mantenimento del­l’ordine e della disciplina, i regolamenti che tendono a rendere la vita comoda ai sudditi e a fornire le cose di cui hanno bisogno per vivere’”. A questo sapere lo Stato affidava le sue possibilità “di determinare e di migliorare la sua posizione nel gioco delle rivalità e delle concorrenze tra gli Stati euro­pei e garantire l’ordine interno con il ‘benessere’ degli indi­vidui” (Foucault 1979, 79):

L’interesse di uno stato di polizia [police] riguarda ciò che fanno gli uomini, la loro attività, la loro “occupazione”. Lo­biettivo della polizia [police] è il controllo e la presa in carico dellattività degli uomini in quanto tale attività può costituire un elemento differenziale nello sviluppo delle forze di uno stato (Foucault 2004a 329-330).

La polizia [police], infatti, è l’insieme delle tecniche, degli interventi e dei mezzi che assicurano che il vivere, il fare di più che semplicemente vivere, cioè il coesistere, il comunicare, saranno realmente convertibi­li in forze di stato, cioè saranno effettivamente utili alla costituzione e all’incremento delle forze dello stato. Con la polizia [police] quindi si disegna un cerchio che parte dallo stato, come potere di intervento razionale e calcolato sugli in­dividui, e ritorna allo stato, come insieme di forze in crescita o da far crescere, passando per la vita degli individui, che ora, in quanto semplice vita, diventa preziosa per lo stato (Foucault 2004a 334).

Tanto secondo l’analisi di Foucault che per quella di Oestreich, le tecnologie disciplinari si rivolgono ai singoli individui. E’ il singolo individuo che viene osservato e sorvegliato. Il suo comportamento va­gliato, analizzato, esaminato. Il movimento del suo corpo nello spazio scomposto, e poi razionalizzato, reso più efficiente. Perno della disciplina è un addestramento ad un costante auto-esame, il soggetto disciplinato è quello capace da solo di normalizzare le sue azioni e le sue reazioni[40]. La disciplina dunque muove dalla singolarità individuale per rendere anonimi gli individui perché autoconformatisi ad uno schema generale.

 

3.2. Dalla disciplina alla “governamentalità”

La disciplina fab­brica individui partendo dai corpi che essa controlla. Nella prima metà degli anni settanta Foucault, come Oestreich, sembra convinto che essa sia in grado di risolvere il problema dell’ordine garantendo l’adeguamento del comportamento individuale a quello collettivo. A partire dalla fine del Settecento, secondo l’analisi che Foucault sviluppa in Surveiller et punir, ci si rende conto che per creare una società liberal-democratica stabile è necessario apprestare una serie di istituzioni “disciplinari” -- non solo i penitenziari, ma anche i manicomi, gli ospedali, le scuole, ecc. -- in grado di produrre il tipo di cittadino adatto al nuovo sistema politico.

Nei corsi tenuti nel 1977/78 (“Sécurité, territoire, population”) e nel 1978/9 (“Naissance de la biopolitigue”) Foucault sembra muovere dalla constatazione del fallimento delle tecniche disciplinari. Il tema centrale dei corsi sembra, da un lato, l’incapacità del progetto disciplinare di raggiungere l’obbiettivo di rendere gli individui ordinati e produttivi, dall’altro l’analisi di una tecnologia di governo che, prendendo consapevolezza dell’insufficienza della disciplina, si affianca alle politiche incentrate su di essa, finendo per renderle marginale. Questa tecnologia è definita da Foucault “governamentalità”. Paradossalmente, secondo Foucault, la nuova strategia di governo utilizzata dagli Stati per aumentare la loro potenza si dipana non attraverso meccanismi di assoggettamento degli individui sempre più rigorosi, ma attraverso una limitazione del potere di controllo delle burocrazie dello Stato moderno.

Attraverso l’introduzione dei termini bio-potere e bio-politica Foucault presenta questo passaggio non come un cambio repentino di programma di ricerca, ma come un progressivo allargamento del suo sguardo che da una tecnica di governo, la disciplina, estende il proprio orizzonte fino a ricomprenderne un’altra che ad essa si affianca:

Con la scoperta dell’individuo e la scoperta del corpo addestrabile, la scoperta della popolazione è l’altro grande nucleo tecnologico intorno a cui si sono trasformati i procedimenti politici dell’Occidente. E’ stata inventata quella che chiamerei, in opposizione all’anatomo-politica di cui parlavo prima, la bio-politica (Foucault 1976, tr. it. 164).

In effetti la sua analisi dei dispositivi “biopolitici” mette a fuoco una presa in carico di un corpo sociale che sempre più emerge come “popolazione”, non riducibile ai corpi indivi­duali che la compongono. Oggetti della biopolitica sono i problemi della natalità, della mortalità, della longevità (Foucault 1997, 156-7), intesi non come problemi dei singoli individui, ma come dati statistici che evidenziano lo stato di benessere della popolazione.

Per Foucault la “biopolitica” nasce quando, con la crisi del sistema feudale, entra in crisi anche “la maniera di governare e di governarsi”. In questo periodo si assiste alla nascita di nuove forme di rapporti economici e sociali, di nuove strutture politiche e di un nuovo tipo di soggetto. Il perno della nuova modalità di gestione del potere, la “biopolitica” appunto, è rappresentato da uno spo­stamento di accento dal territorio alla popolazione e, quindi, dall’apparizione di nuovi obiettivi e, dunque, di nuovi problemi e di nuove tecniche di governo (Foucault 1979, 74).

Lo spostamento dell’attenzione dal territorio alla popolazione è collegato all’affermarsi del sistema di Vestfalia. Foucault sottolinea che il fenomeno si verifica quando, tramontato il sogno di ricostruire la Roma imperiale, si afferma una nuova percezione storica che non mira più all’unificazione di tutte le sovranità nate dalla disgregazione dell’impero, ma è consapevole che i nuovi Stati devono lottare gli uni contro gli altri per assicurarsi la sopravvivenza. L’emergere della popolazione come oggetto principale del governo è collegato con la percezione che ciò che sta diventando importante, per la legittimità del potere di un sovrano su di un territo­rio, è la conoscenza e lo sviluppo delle forze su cui può contare uno Stato. Quando il mondo si profila come uno spazio in cui si esplica la concorrenza tra Stati, il problema principale diventa quello delle tecniche razionali che permettono di sviluppare le forze dei singoli Stati. In questo contesto si sviluppano due nuove tecniche di gestione del potere. Da un lato nasce “una tecnolo­gia diplomatico‑militare che mira ad assicurare e svi­luppare le forze dello Stato con un sistema di alleanze e l’organizzazione di un apparato militare”. I Trattati di Vestfalia, che mirano a cristallizzare un equilibrio europeo, sono il prodotto più importante di que­sta tecnologia politica. Dall’altro nasce la “polizia” [police], “intesa nel senso che si dava allora a que­sto termine, vale a dire l’insieme dei mezzi necessari per far crescere, dall’interno, le forze dello Stato”. Oggetto di queste due tecniche di potere è la coppia popolazione‑ricchezza: dall’arricchimento mediante il commercio ci si attende la possibilità di aumentare la popolazione, la mano d’opera, la produzione e l’esporta­zione, e quindi la possibilità di dotarsi di eserciti forti e numerosi (Foucault 1979, 76-7).

La biopolitica nasce e si sviluppa per la convinzione che la popola­zione è “naturalmente” dipendente da molteplici fattori che possono essere modificati artificialmente. Essa è quindi un problema “politico”, governabile attraverso la tecnologia della “polizia” a cui viene affidata la gestione del problema popolazione‑ricchezza nei suoi differenti aspetti concreti: fiscalità, carestia, spo­polamento, ozio‑mendicità‑vagabondaggio.

Il passaggio dal disciplinamento dell’individuo al governo della popolazione è presentato quasi come una naturale estensione dell’ambito dell’attività di polizia, in quanto attività mirata a creare le condizio­ni perché “l’essere si converta in benessere”. La polizia, sostiene Foucault, nel XVIII secolo si occupava di “tutto ciò che va dall’essere al benessere, di tut­to ciò che il benessere è in grado di produrre al di là dell’essere” (Foucault 2004a, 238). E’ l’attività di polizia che consente il passaggio dalla sovranità alla biopolitica, che consente allo Stato di fare il salto dal potere “di lasciar vivere e di far morire” al potere “di far vivere e di lasciar morire”. Essa si interessa all’uomo non in quanto essere dotato di virtù o appartenente ad un certo ceto sociale, e neppure in quanto detentore di ricchezze da sottoporre a prelievo fiscale. Oggetto del suo interesse è l’attività svolta dagli individui. La polizia nasce dunque come gestrice delle tecnologie disciplinari ma a poco a poco ci si accorge che la relazione di potere col soggetto o, più esattamente, con 1’individuo, non può basarsi soltanto sulla soggezione, che permette al potere di prelevare al sog­getto beni, ricchezze e, eventualmente, anche il suo corpo e il suo sangue, ma che il potere deve esercitarsi sugli individui in quanto costituiscono una specie di entità biologica, che de­v’essere presa in considerazione se si vuole utilizzare la popo­lazione come macchina per produrre ricchezza, beni o altri in­dividui (Foucault 1976, tr. it. 164).

Secondo la narrazione di Foucault, la polizia nella sua attività si rende conto dell’insufficienza delle tecnologie disciplinari individualizzati per garantire il benessere della popolazione e gradualmente trasforma la propria funzione: la scienza della polizia “diviene il calcolo e la tecnica che permettono di stabilire una relazione mobile – ma, ciò nonostante, stabile e controllabile – tra l’ordine interiore dello stato e la crescita delle sue forze” (Zanini 2006, 126).

Le tecniche di governo che Foucault connota con il termine “biopolitica” sono dunque caratterizzate dall’idea che la popolazione non è la semplice somma dei soggetti che abitano un territorio, una somma che sarebbe il risultato della volontà, da parte di ciascuno, di avere dei figli o di una legislazione che favorirebbe o scoraggerebbe le nascite. La popolazione è una variabile dipendente da un certo numero di fattori che non sono esclusivamente naturali (il sistema delle imposte, 1’andamento della circo­lazione monetaria e la ripartizione del profitto sono determinanti es­senziali del tasso di popolazione) (Foucault 1979, tr. it. 78).

Le tecnologie biopolitiche non configurano la popolazione co­me un insieme di soggetti di diritto, ma neppure come un mero agglomerato di braccia destinate al lavoro (anche se questa riduzione si può riscontrare in alcune teorizzazioni di fine settecento, per esempio quella di Bentham). Come sottolinea Foucault (1979, 79) la popolazione è vista “come un insieme di elementi che, da un lato, è colle­gato al regime generale degli esseri viventi (la popolazione appartiene alla ‘specie umana’, nozione nuova per l’epoca e da distinguere da quella di ‘genere umano’) e, dall’altro, può costituire il punto di applicazione per inter­venti concertati (con la mediazione delle leggi, ma anche attraverso mutamenti delle abitudini, dei modi di fare e di vivere, che si possono ottenere con le ‘campagne’)”.

Nella trasformazione della Polizeiwis­senschaft in “biopolitica” trova le proprie origini il Welfare state. L’apparato dello Stato sociale nasce con l’affermarsi della convinzione che per amministrare la popolazione occorre ridurre la mortalità infantile, prevenire le epidemie, assicurare attrezzature mediche suffi­cienti, intervenire nelle condizioni di vita degli individui imponendo norme relative all’alimentazione, alla gestione dell’ambiente o all’organizzazio­ne delle città. Le radici del Welfare state affondano nel progressivo emergere della necessità che lo Stato si faccia carico della gestione della popolazione, al fine di assicurarne il benessere ed aumentare in questo modo la propria potenza economica e militare. La diretta connessione tra la presa in carico della popolazione e la potenza di uno Stato emerse con grande evidenza con le difficoltà che i coloni Afrikaner crearono all’Inghilterra, massima potenza coloniale dell’epoca, nelle due Guerre Boere (1880-1881 e 1899-1902). Non è un caso che fu proprio in Inghilterra che, alla fine del XIX secolo, cominciarono ad emergere le prime strutture dello Stato sociale. Anche nella Germania bismarkiana il primo embrione di Stato sociale si andò strutturandosi sotto la pressione delle politica aggressiva sviluppata dalla Prussica a fine Ottocento. Questa forma di governo della popolazione nel corso del XX secolo sembrò capace tanto di soddisfare le esigenze di potenza degli Stati quanto di “gestire” le rivendicazioni del movimento operaio. Grazie a questa capacità con le due guerre mondiali essa si affermò in tutta Europa, per consolidarsi come strumento essenziale di ricostruzione economica nel corso del secondo dopoguerra.

Collegando le istituzioni disciplinari allo sviluppo, dalla seconda metà del secolo XVIII in poi, di ciò che fu chiamata medizinische Polizei, hygiène publique, social medicine, Foucault traccia il quadro generale di “una biopolitica che tende a trattare la ‘popolazione’ come un insieme di esseri viventi e coesistenti che presen­tano tratti biologici e patologici particolari e, di conse­guenza, dipendono da saperi e tecniche specifiche” (Foucault 1979, 80). Il Welfare state non è che l’ultima metamorfosi delle tecnologie biopolitiche: è l’ultimo dispositivo tecnologico attraverso cui gli Stati hanno cercato di prendersi cura della popolazione per aumentare la loro potenza economica (e militare).

Foucault presenta quindi una narrazione continuista facendo leva sul dato che la gestione di una popolazione non si effettua governando i fenomeni globali, ma implica interventi in profondità che vanno a modificare i dettagli dei comportamenti, implica, in altre parole, che governo e disciplina si coordinino e non si oppongano l’uno all’altra.

Non bisogna quindi leggere il processo in termini di sostitu­zione di una società di sovranità con una società di disciplina, a sua volta rimpiazzata da una società, diciamo, di governo [gouvernement]. In realtà siamo di fronte a un triangolo: so­vranità, disciplina e gestione di governo [gestion gouverne­mentale]; obiettivo principale della gestione di governo è la popolazione, e i suoi meccanismi essenziali sono i dispositivi di sicurezza (Foucualt 2004a, 111).

Concettualmente però il salto è enorme: le tecniche disciplinari prendono in carico la popolazione intesa come un insieme di individui resi adatti, abili e pronti a compiere le funzioni che la società richiede, ma la cui individualità si esaurisce nell’abilità acquisita. I membri della popolazione sono in sostanza sog­getti passivi che rispondono meccanicamente alle solleci­tazioni che vengono dall’esterno. La società disciplinare non prevede che ci si possa servire “in maniera attiva del loro atteggiamento, della loro opinione, del loro modo di fare”. Mentre la disciplina penetra il reale sino al dettaglio per impedire, ostacolare o reprimere ciò che non si conforma ad una norma prestabilita; la “governamen­talità” favorisce o suscita delle dinamiche, degli eventi e dei comportamenti cercando di mantenerli entro limiti mutevoli e stra­tegicamente funzionali (Pandolfi 2006, 97-8).

Mettendo a fuoco le tecnologie disciplinari Foucault aveva spostato l’attenzione dal problema hobbesiano della fondazione e della legittimazione del sovra­no, ai processi di assog­gettamento e di dominazione, alle strategie locali per mez­zo delle quali il potere investe i corpi e plasma gli indivi­dui. Aveva messo in ombra il problema della legittimazione dei vertici statali, le teorie contrattualiste e quelle costituzionali, per analizzare le modalità di esercizio del potere nelle carceri, negli ospedali, nei manicomi laddove il suo esercizio non si richiama a nessuna norma giuridica legittimante. Questo radicale spostamento del cuore del problema dell’ordine politico assumeva, comunque, la sovranità dello Stato come suo perno centrale: era la “ragion di Stato”, la capacità dello Stato di aumentare la propria potenza nell’arena della politica internazionale, a costituire, ad un tempo, il metro di valutazione del funzionamento delle tecnologie disciplinari e la bussola che guidava la loro diffusione. Con il ricorso alla nozione di “governamentalità” si fa più netta la presa di distanza dalla riflessione filosofico-politica incentrata sul problema della genesi (e della legittimazione) del so­vrano. Foucault, infatti, introducendo questo concetto assume che, a partire dalla fine del XIX secolo, il metro di valutazione delle tecniche di governo cessa di essere un metro “politico”, relativo alla sfera statuale: il successo della tecnologia di governo non si desume più dal fatto che siano stati prodotti dei buoni cittadini che contribuiscono con la loro opera alla potenza dello Stato. Il criterio di “veridizione” delle politiche diventa economico, il mercato assurge a giudice del successo o meno delle tecniche di governo: “Lintroduzione dell’economia all’interno dell’esercizio politico, sarà questa, credo la posta in gioco essenziale del governo” (Foucault 1978, tr. it. 17).

L’ottica foucaultiana porta a vedere questo processo come uno sviluppo lineare che allontana progressivamente la tecnica di governo dall’idea che il suo campo di azione sia delimitato dalla legge che rappresenta allo stesso tempo la volontà del sovrano e il suo limite. Sembra di essere di fronte allo sviluppo del processo che, da un lato, ridicolizza l’idea di un potere sovrano che si esprime attraverso i divieti e le autolimitazioni, e, dall’altro, mostra che il governo degli uomini è in effetti condotto attraverso un potere capace di renderli produttivi, di mettere a frutto le loro energie. Se la disciplina degli individui si presenta come un esercizio del potere eminentemente praeter legem, la “governamentalità”, assumendo a punto di riferimento il mercato e l’economia politica come scienza per la valutazione della propria efficienza, dissolve totalmente la struttura della sovranità. Essa è la tecnologia di governo che adegua l’esercizio del potere alla centralità del mercato e rende, quindi, estranea al governo l’idea stessa di una volontà sovrana. Se il governo della popolazione va valutato in termini economici questa viene in rilievo come un insieme di portatori di interessi e di bisogni irriduci­bili e indipendenti, intangibili dalla volontà del sovrano. Le tecnologie di governo non possono far altro che regolare ed ottimizzare i rapporti e le dinamiche che si sviluppano tra questi interessi (Foucault 1978, tr. it. 25).

In effetti l’oggetto della governamentalità, più che la popolazione, è la libertà di muoversi sul mercato dei suoi componenti. La creazione di un ambiente pensato per il mercato, e non per la sicurezza degli individui, ha come naturale conseguenza che i soggetti si pensano come attori del mercato. Il soggetto viene trattato come indisciplinabile titolare di un diritto ad agire come vuole, il mercato si erge, ed è eretto, ad unico armonizzatore delle libertà individuali, ai meccanismi regolamentatori si chiede di “laciar liberi” e garantire che si sia “lasciati liberi”. Questo ambiente non è neutrale: esso “produce” il soggetto libero attore di mercato. Gli interventi governamentali, molto più occulti e altrettanto pervasivi di quelli tradizionali, mirano a sostenere la logica di mercato responsabilizzando gli individui per l’uso che essi fanno della propria libertà e dell’autovalorizzazione del “capitale umano” di cui sono dotati (Foucault 2004a, 45), in una rapida enumerazione sostiene che riguardano “la produzione, la psicologia, i comportamenti e i modi di fare di produttori, acquirenti, consumatori…”). Attraverso la regolamentazione dell’ambiente favorevole al mercato si attua, in effetti, una forma di disciplinamento sui generis che agisceadeguando” il soggetto al mercato: l’intera vita dei soggetti è sussunta al mercato. Il soggetto che si pensa come “im­prenditore di sé”, non è il soggetto libero, ma il soggetto reso libero dalla governamentalità.

Il risultato paradossale è che la libertà che la governamentalità garantisce è la libertà di muoversi sul mercato, quella stessa che secondo Hobbes lasciava la sovranità[41]. Ciò che è cambiato è che, mentre per Hobbes questa libertà derivava dalla rinuncia del sovrano di regolamentare il mercato, oggi essa “costituisce l’indice generale sotto il quale dovrà venire collocata la regola destinata a definire tutte le azioni di governo” (Foucault 2004b, 125). Lungi dallo svilupparsi grazie al non intervento del sovrano, essa richiede la mobilitazione dell’apparato statale per essere garantita, o per essere garantita meglio che altrove. Quello governamentale è uno Stato che al contrario di quello hobbesiano non ha come propria ragion d’essere la protezione degli individui. Assistiamo al capovolgimento della funzione che Karl Polyani (1944) assegna alla politica: essa non protegge gli individui dal mercato, ma il mercato contro le ansie e le inscurezze che il suo operare crea negli individui. L’economia del potere delle società governamentali si esplica attraverso il mantenimento di un delicato e sempre mutevole equilibro tra libertà e sicurezza rispetto al pericolo, “tra la produzione della libertà e tutto ciò che, producendola, rischia di limitarla e di distruggerla” (Foucault 2004b, 65).

 

3.2. Governamentalità, mercato e “popolazione”

Foucault dunque tende a raffigurare disciplina e governamentalità come forme simili di esercizio del potere, presentandole in contrapposizione a sovranità e diritto. Questa connotazione, tanto della disciplina e quanto della governamentalità, come modalità di esercizio produttivo del potere, gli consente di configurarle come due tecniche di governo che operano in maniera sinergica riducendo sempre più drasticamente lo spazio della sovranità a favore di quello della “regolazione”. La popolazione è il campo in cui questa sinergia si dispiega: essa, se si guardano gli individui uti singuli, è il campo in cui si dispiegano le tecnologie disciplinari, se la si guarda nel suo complesso è l’oggetto delle tecnologie di governo suggerite dall’economia politica. Le tecniche disciplinari si sviluppano perché le società complesse non riescono ad essere governate dal potere sovrano attraverso la legge. L’affermazione del mercato, che espande progressivamente il proprio ambito geografico, e la competizione tra Stati, che si sviluppa all’interno del sistema di Westfalia, rendono insufficienti le tecniche disciplinari e una scienza di polizia che assume a suo riferimento la politica di potenza condotta dallo Stato. La disciplina è sicuramente una tecnica produttiva di potere, ma non consente allo Stato di reggere la concorrenza economica che garantisce la sua potenza, via via si fa strada l’idea che si deve lasciare campo libero al mercato ed utilizzare l’economia politica per misurare la produttività dell’intervento della polizia. In questo modo la finalità generale dell’azione di governo, ovvero il potenziamento dello Stato, può oscillare, a seconda dell’evenienze, in un continnum che comprende tanto le tecniche disciplinari quanto quelle governamentali[42].

Questo percorso di lineare allontanamento dalla sovranità, che si esprime attraverso la legge, e di progressivo sviluppo di tecniche produttive di governo nasconde però alcune importanti rotture. In primo luogo gli individui che compongono la popolazione sono assunti come soggetti che si costituiscono, e si devono costituire, liberi dal condizionamento delle meccaniche disciplinari, sono soggetti, che almeno quando operano sul mercato, seguono le ragioni dellinteresse e si muovono nei diversi arcipelaghi sociali del mondo usando una libertà che deve esser loro costantemente garantita, pena vederli dirigersi verso altri lidi dove mettere a frutto le proprie energie. L’inte­resse che li guida, scrive Foucault (2004b, 223), è “una forma di volontà, che è al tempo stesso immediata e assolutamente sogettiva”. Tanto lo spazio delle discipline è lo spazio di piena visi­abilità garantita dai dispositivi della sorveglianza panoptica, quanto lo spazio della governamentalità è lo spazio degli interessi che, secondo l’insegnamento di Hayek, rende un peccato mortale di ubris ogni tentativo di costruire uno sguardo capace di renderlo intelleggibile per programmare un intervento sulle sue dinamiche. E’ uno spazio refrattario tanto alla sguardo del sovrano quanto a quello dell’ispettore: esso non è, e non può essere, oggetto di governo, ma metro di verifica dell’utilità sociale proprio delle fun­zioni di governo (Foucault 2004b, 52-3 e 231-32). Lo spazio della governamentalità inverte il rapporto tra Stato e mercato che ancora lo spazio disciplinare presupponeva: nello spazio governamentale si sviluppa “uno Stato sotto la sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza dello stato” (Foucault 2004b, 120). Siamo di fronte ad un laissez faire in cui il mercato non è più un principio di autolimitazione del governo, che il sovrano sceglie nella sua autonomia politica, ma “una sorta di tribunale economico che pretende di misurare l’azione del governo rigorosamente in termini di economia e di mercato” (Foucault 2004b, 253).

La previsione di Foucault sembra essersi avverata. Oggi la globalizzazione dei mercati finanziari è sempre più spesso presentata come una forza irresistibile che gli Stati devono necessariamente assecondare, rinunciando al governo dell'economia. Allo stesso tempo si è diffusa un'ideologia (Scott 1997) secondo cui il nuovo mondo del capitale nomade, in cui sono salta­te tutte le barriere create dagli Stati, renderebbe la vita di tutti migliore. La libertà, in primo luogo di commercio e di movimento dei capitali, sarebbe l'humus che permette alla ricchezza di crescere come non ha mai fatto, beneficiando tutta la popolazione mondiale. Ci si va convincendo in sostanza che il mercato è senza ombra di dubbio il migliore allocatore delle risorse e quindi il suo funzionamento di grandissima im­portanza per il benessere dell'intera umanità e la stabilità dell'organizzazione sociale planetaria.

Il mercato sembra aver ottenuto la sua vittoria definitiva: ha rotto gli argini che lo iscrivano all’interno della sovranità statale, sono le sovranità statali ad essere iscritte all’interno della logica del mercato. Si inverte il rapporto tra ragion di Stato e mercato: fino a ieri era la ragion di stato definire le modalità di sviluppo del mercato per assicurare la potenza dello Stato; oggi è il funzionamento del mercato che definisce i limiti in cui può operare la ragion di Stato per assicurare la potenza dello Stato stesso. Una tale inversione implica un cambiamento profondo: fino a quando il mercato si riusciva a sviluppare grazie agli interventi di un governo guidato dalla ragion di Stato il suo sviluppo coincideva con lo sviluppo del benessere di una popolazione data, attraverso la scienza di polizia prima e il Welfare state dopo. La potenza dello Stato era legata alla capacità di sviluppare politiche di cittadinanza inclusiva, fondate sulla progressiva espansione delle fasce della popolazione ammesse a godere dei diritti e dei servizi sociali. Quello che Foucault non aveva previsto è che, con la globalizzazione dei mercati (compreso il mercato del lavoro), la popolazione diventasse anch’essa una risorsa “mondiale”, non più legata ad una specifica sovranità: la popolazione è una delle tante risorse che deve circolare liberamente e non più un’entità definita dalle tecniche biopolitiche.

In effetti la governamentalità cessa di essere una modalità di governo della popolazione in senso stretto. Per riprendere la terminologia di Tocqueville, essa non è una modalità di esercizio del potere che esercita la sua presa sull’anima, come la disciplina. Se la sovranità è la modalità di governo di un territorio, la disciplina degli individui, la governamentalità regola non la popolazione, composta da soggetti “intangibili”, che devono essere “lasciati fare” (Foucault 2004b, 220), ma l’ambiente in cui essa vive. Il governo della popolazione è un governo mediato, il potere in effetti interviene sull’ambiente in cui si sviluppano le relazioni di mercato cercando di favorire il gioco della domanda e dell’offerta, le dinamiche dello scambio, la valorizzazione o la svalutazione delle risorse umane dis­ponibili, la concorrenza. L’azione di governo mira all’ottimizzazione delle condizioni che consentono l’esercizio di un li­bero agire di un soggetto, non disciplinabile, ma sensibile alle variazioni delle opportunità strutturali offerte dall’ambiente in cui si trova ad operare.

A dispetto della ripetuta affermazione di voler tagliare la testa al re, di voler estromettere la sovranità dall’analisi del governo, le tesi di Foucault presuppongono un ruolo forte della sovranità statale: ciò che distingue la popolazione dalle altre merci che circolano sul mercato è il fatto che essa è oggetto delle politiche dispiegate dagli Stati sovrani. E’ questo dato che costituisce la “popolazione” in quanto entità distinta dalla “mano d’opera”, è questo dato che permette di rappresentare politiche disciplinari e politiche governamentali come un continuum. Ma nel momento in cui il mercato diventa il frame della ragion di Stato, esso non lascia più il tempo per “farsi carico della popolazione”. Le persone circolano in tempi rapidi, come le merci, se non rapidissimi come le risorse finanziarie: questo comporta non solo il superamento dei lentissimi meccanismi disciplinari, ma anche di quelli biopolitici, inesorabilmente lenti, rispetto alla velocità del mercato. Le tecnologie biopolitiche, come i meccanismi disciplinari, hanno come fine la potenza dello Stato, mirano al conso­lidamento della sua potenza, e quindi, nozione che a Foucualt non piace, della sua “sovranità”. Sotto questo profilo l’economia, la centralità del mercato, non sembra mettere in discussione l’idea di ragion di Stato, limitandosi a fornirle un nuovo parametro. Essa però finisce per rendere impraticabili tanto le tecniche disciplinari quanto quelle miranti al controllo della popolazio­ne. Il mercato può essere assunto come frame in cui iscrivere l’esercizio della sovranità, ma questa iscrizione sembra cancellare l’idea di una popolazione presa in carico dallo Stato.

La biopolitica si fonda sull’assunzione che ogni Stato ha una data popolazione e deve intervenire su di essa, regolando i meccanismi della nascita e della morte e stabilendo le condizioni della vita: attraverso il biopotere lo Stato regola le nascite, disciplina le vite e proceduralizza le morti. Con le grandi migrazioni che negli ultimi decenni hanno investito gli Stati europei viene meno la popolazione intesa come insieme di individui predefinito su cui intervenire regolando la nascita o la morte. Paradossalmente l’avverarsi delle previsione di Foucualt sull’emergere del mercato come elemento di “veridizione” delle politiche, fa venire meno la nozione che egli pone al centro della sua analisi. Oggi lo Stato non è in grado di “governare” la popolazione nel senso che Foucault dà a questo termine. Essa è diventata un insieme continuamente ridefinibile attraverso l’accoglimento l’espulsione dei migranti e la marginalizzazione dei cittadini. Questo mutamento stravolge le fondamenta della biopolitica, modifica radicalmente il problema dell’ordine politico e sociale. Grazie alle migrazioni la manipolabilità della popolazione è aumentata a dismisura. Lo Stato può selezionare con molta più facilità la propria popolazione: può costruire, attraverso una serie di meccanismi ora inclusivi ora escludenti, una popolazione di soli attori capaci di stare sul mercato, senza bisogno di “disciplinare” gli appartenenti ad una sua supposta popolazione predeterminata che se ne dimostrano incapaci, o di predisporre l’ambiente che li porti a pensarsi, e quindi da agire, come imprenditori. Non è più necessario produrre i “buoni” cittadini o gli “utili” imprenditori di se stessi: basta selezionarli.

 

3.3. Selezionare la popolazione

L’invito a praticare una politica di selezione della popolazione migrante, ma forse subdolamente anche quello di proseguire con politiche che incoraggino l’immigrazione illegale a scapito di quella legale, si trova in The EU Economy 2005 Review. Rising International Economic Integration: Opportunities and Challenges. La Commissione sostiene che l’immigrazione può "greasing the wheels" of labour markets. I lavoratori migranti, infatti,

may ease labour shortages in areas in which nationals do not want to work and, as they are often more responsive than local workers to labour market conditions, they may smooth the adjustment to regional differences or shocks. Moreover, increasing human capital through immigration would contribute to long-term growth, in addition to the purely quantitative impact of increasing the labour force. Indeed, attracting foreign talent is likely to become an ever more important challenge, in particular for migration policy (COM 2005, 12, corsivo mio).

 

La Commissione suggerisce sostanzialmente un doppio binario nel governo dell’immigrazione. Da un lato ci sono i “lavoratori migranti”, giovani proveniente soprattutto dall'Africa settentrionale, dalla Turchia e dal Medio Oriente, che possono ingrossare le file dei migranti che fanno i lavori rifiutati dai cittadini. Questi immigrati, provenendo da paesi in cui un aumento incontrollato della popolazione giovanile unito a un’elevata disoccupazione darà abbondante disponibilità di lavoratori per decenni futuri, sono pronti ad adattarsi a qualsiasi condizione il mercato del lavoro offra. Si tratta di ragazzi che migrano spesso già sapendo che andranno a ingrossare le file dell’underclass, che troveranno cioè, da irregolari, un’occupazione saltuaria nel mercato sommerso lavorando nel settore agricolo[43], o nelle micro-imprese del settore edile, dei traslochi, delle pulizie e dell’assistenza domestica[44]. Dall’altro lato, ci sono i “talenti” che possono arricchire il capitale umano dello Stato ospite e che vanno blanditi con l’accesso ad un paniere di diritti di cittadinanza consistente.

I suggerimenti della Commissione hanno trovato pronta accoglienza in Francia dove la già ricordata nuova normativa sull’immigrazione, approvata a maggio 2006, prevede un nuovo permesso di soggiorno denominato “capacité et talents”, di durata triennale, rinnovabile (ed esteso anche ai familiari), riservato a studenti brillanti, lavoratori fortemente specializzati, personalità e studiosi, ritenuti capaci di contribuire “in modo significativo e duraturo allo sviluppo dell'economia francese o all'espansione della Francia nel mondo o allo sviluppo del suo paese d'origine”. Presentando in Parlamento questo nuovo permesso, Sarkozy ha sostenuto che la Francia “ha il diritto di decidere quanti immigrati devono entrare e sceglierli in base alla sua capacità di accoglienza e ai suoi interessi”, specificando che l'obiettivo è “attirare le competenze delle quali il paese ha bisogno”. Una tale dichiarazione mostra chiaramente che è un puro artificio retorico il riferimento alla capacità delle persone, a cui viene attribuito il permesso di soggiorno, di contribuire allo sviluppo dei paesi di origine. Questo dato è stato subito colto dagli esponenti politici Africani. Il presidente del Senegal Abdoulaye Wade, ha protestato sostenendo che "sceglieranno delle persone formate, come intellettuali, ingegneri, medici" e aggiungendo: “io spendo del denaro per formare le persone, ma quello che faccio è un tantino assurdo: sto formando delle persone che svilupperanno l'economia francese”. Anche il rappresentante dell'Onu in Costa d'Avorio, Alpha Blondy, ha criticato questo nuovo tipo di permesso di soggiorno sostenendo che esso “riporta ai tempi dello schiavismo quando i mercanti sceglievano i più vigorosi e quelli che avevano i denti migliori”[45].

In Gran Bretagna, insieme ad un piano di controllo elettronico delle frontiere, si sta discutendo un sistema a punti per cercare di privilegiare gli immigrati considerati più “utili”. L’Italia, come abbiamo visto, non ha mai sviluppato politiche capaci di attirare “talenti” dai paesi terzi, ma ha immaginato fin dal 1990 di regolare i flussi immigratori attraverso quote stabilite annualmente in base alle esigenze del mercato del lavoro. La Spagna sta muovendosi verso un sistema simile a quello italiano, è infatti in discussione la proposta di dividere i permessi di soggiorno per settori economici, in modo da favorire di volta in volta l’afflusso di lavoratori per i settori più bisognosi di manodopera.

Il venir meno della convinzione che la popolazione sia una risorsa data che va presa in carico e curata per aumentare la forza dello Stato, la fine, in altre parole, della biopolitica, spinge dunque verso una società in cui il “biopotere” perde gran parte della sua rilevanza: verso una società in cui la politica smette di prendere in carico i soggetti sia singolarmente che collettivamente, di dedicarsi a, o di predisporre l’ambiente per, la loro trasformazione, e si limita a filtrarli e selezionarli. Questo mutamento rappresenta una rottura traumatica dell’ordine politico e sociale liberale così come lo abbiamo conosciuto per oltre due secoli. Esso mette in crisi tanto le “discipline” quanto le tecnologie “biopolitiche” che hanno permesso il mantenimento dell’ordine nell’epoca moderna. Questa fenomeno mette in discus­sione, come afferma Foucualt (1979, tr. it. 43) facendo però riferimento alla sola crisi delle discipline, “la conoscenza stessa, la forma della conoscenza, la norma ‘soggetto‑oggetto’, oltre a interro­gare i rapporti tra le strutture economico‑politiche della nostra società e la conoscenza (non nei suoi contenuti veri o falsi, bensì nelle sue funzioni di potere‑sapere)”.

Siamo di fronte ad “una cri­si storico‑politica” che ci ha lasciato, almeno per il momento, privi di modelli capaci di guidare l’integrazione sociale. In questo quadro l’inserimento sociale dei soggetti è pragmanticamente considerato un esperimento, ed ogni esperimento va tenuto sotto controllo. A questo fine si sono creati tutta una serie di filtri selettivi: i soggetti vengono immessi nella società, ma prima di immetterli a pieno titolo si controlla che la società sia disposta a recepirli e, successivamente, si controlla la loro interazione con la società stessa: se la cosa non funziona, ci si lascia la possibilità di estrometterli. La resistenza ad ammettere sul territorio nazionale migranti che fin dal loro arrivo sono titolari di un consistente paniere di diritti, è allora perfettamente logica: l’immediata concessione del permesso di soggiorno non consente la “sperimentazione” dell’immigrato. Altrettanto logica è la resistenza a concedere un permesso di soggiorno che attribuisca la titolarità di questo paniere di diritti per lungo tempo.

Se la ragione governamentale non può e non deve essere pianificazione delle attività della popolazione, ma solo “programmazione strategica” delle condizioni che favoriscono la libera competizione degli inte­ressi individuali, l’immigrazione irregolare, la regolarizzazione selettiva, la precarietà dello status dei migranti sono tutti strumenti ottimali per regolare una popolazione che si trova sempre sospesa tra carenza ed eccesso[46], per governare una società in cui il lavoro salariato viene considerato un’attività di impresa e la mobilità dei migranti un investimento soggettivo sulle proprie capacità di autovalorizzazione (Foucault 2004, 186-7 e 190-1). Il meccanismo delle sanatorie, seguite dalla concessione di permessi di soggiorno di breve durata, è invece perfettamente coerente con questo nuovo modello di ordine. Esso consente di verificare che sia ammesso a far parte della popolazione dei titolari di diritti solo chi riesce a farsi accettare e solo fino a quando vi riesce. Il percorso tipico che devono compiere i migranti è caratterizzato quindi da un periodo di clandestinità e marginalità in cui i soggetti vengono messi alla prova: solo coloro che si dimostrano “buoni cittadini”, che accettano cioè di vivere senza garanzie, senza diritti e nella totale precarietà, senza creare disturbo, vengono ammessi al rango di “regolari” per poi continuare ad essere tenuti a lungo sul filo del rasoio con permessi di soggiorno di breve durata. Si crea dunque istituzionalmente marginalità sul territorio dello Stato: la marginalità diventa una zona sociale organizzata verso cui dirigere alcune fasce di popolazione, diventa lo strumento di governo delle migrazioni (e dei cittadini considerati “inadatti” alla competizione economica).

 

 

4. Dalla irregolarità alla criminalizzazione: il carcere come filtro della popolazione

 

4.1. Governare attraverso la criminalizzazione (dei migranti)

In un quadro come quello descritto la politica si ritira in una angolo e il suo ruolo sembra essere quello di garantire la sicurezza di un restretto demos che vive nella polis democratica, limitando i rischi provocati dal mercato (ma non il mercato, che è globale e quindi per definizione sottratto al controllo statale). La percezione dell’inevitabile scarsità delle risorse utilizzabili dallo Stato a scopi sociali, indotta dall’ideologia della globalizzazione, ha diffuso la convinzione che la garanzia dei diritti a favore delle maggioranze “autoctone” passi necessariamente attraverso l’esclusione da questi diritti dei soggetti migranti (e, in seconda battuta, dei cittadini “non meritevoli”). Quello che interessa alla maggioranza degli elettori dei paesi europei è impedire che un accesso indiscriminato dei migranti ai diritti di cittadinanza possa ridurre considerevolmente le garanzie sociali di cui tradizionalmente godono. Più crudamente si può dire che i cittadini dei paesi europei, convinti che il gioco dei diritti sociali sia a somma zero, temono che l’attribuzione ai migranti dei benefici del Welfare state accentui la riduzione, già in corso come conseguenza dei fenomeni di globalizzazione economica e finanziaria, dei benefici di cui usufruiscono.

In questo contesto la criminalizzazione dei migranti sta diventando una delle principali bandiere della riunificazione della società (Melossi 2002, 259): riunificazione realizzata a spese degli stessi migranti che vengono usati come risorse del sistema produttivo e sono esclusi allo stesso tempo dai circuiti assistenziali e previdenziali. La maggioranza dell’opinione pubblica dei paesi europei non potrebbe mai accettare che l’accesso ai diritti di cittadinanza venga regolato sulla base di criteri xenofobi o razzisti, non accetterebbe mai, in altre parole, l’idea che i migranti debbano essere esclusi dai diritti sociali perché di pelle nera o gialla, o perché hanno usanze “incivili”. Né verrebbe facilmente accolta una prospettiva puramente egoistica (con qualche venatura schiavista): abbiamo poche risorse e quindi i migranti non possono pretendere che noi rinunciamo alle nostre pensioni, alla nostra possibilità di curarci, che sono già in pericolo, per consentire loro un livello accettabile di sicurezza sociale. Approcci di questo genere fanno presa solo in alcuni settori minoritari, e spesso esasperati, dell’opinione pubblica europea. Elevare a confine dell’accesso dei diritti di cittadinanza il rispetto della legge sembra invece asettico e politically correct: non si può essere solidali con chi commette dei crimini e attacca, spesso in modo violento, le persone e i beni.

L’ipocrisia di questo ragionamento diventa evidente appena si sposta lo sguardo dalla criminalità ai processi di criminalizzazione. Come ha osservato Abdelmalek Sayad (1996), gli stranieri sono vittime di un “doppio” sospetto: sono in genere malvisti a causa della loro estraneità (il loro accento, la loro mancata padronanza di quelle che consideriamo “buone maniere”, per non parlare della diversa religione, del diverso colore della pel­le, etc.) e diventano facilmente bersa­glio del sospetto al verificarsi di qualsiasi atto deviante e/o criminale. Se poi uno straniero commette effettivamente atti di tal genere ‑ come ci hanno insegnato i teorici dell’etichettamento, da Howard Becker (1963) a Edwin Lemert (1967), ‑ questi atti saranno considerati la dimostrazione che la de­vianza era già implicita e del tutto prevedibile nella sua estraneità sociale.

La criminalizzazione dei migranti è uno strumento utile perché consente di erigere una barriera di protezione. Questo non significa che la criminalizzazione dei migranti sia il frutto della manipolazione del controllo sociale da parte di élites razziste e xenofobe: essa piuttosto si presta ad essere usata come una barriera contro l’accesso automatico dei migranti alla cittadinanza sociale perché appare una conseguenza “logica” dei comportamenti dei migranti stessi.

Il meccanismo irregolarità-sanatorie appare funzionale non solo alle logiche di mercato, ma anche alle logiche della legittimazione politica. La condizione di illegalità dei migranti, infatti, oltre a favorire il loro impiego con una remunerazione irrisoria e a consentire la sopravvivenza di imprese che non potrebbero permettersi di sopravvivere retribuendo regolarmente i loro lavoratori, favorisce la loro criminalizzazione. In una situazione in cui la mancanza di impiego regolare tende a deviare la forza‑lavoro verso il mercato del lavoro informale o verso i, normalmente più remunerativi, mercati illeciti[47] (spe­cie in società ricche, in cui indulgere in piaceri “proibiti” come “droga” e “prostituzione” è vissuto spesso come una modalità, non sempre stigmatizzata, per alleviare lo stress della vita lavorativa) il nesso estraneità-devianza tende a diventare una profezia autoavverantesi. Questo circolo vizioso è segno di un’esclusione che affonda le proprie radici nella realtà delle relazioni sociali. Il radicamento sociale di questa costruzione è del resto mostrato chiaramente dal fatto che l’operazione di etichettamento non è gestita da una élite sociale, ma trova sostegno nei settori tradizionali della classe salariata che tendono a individuare la causa di fenomeni negativi, quali spaccio e prostituzione, nell’arrivo di gruppi immigrati che, invece, ne è uno degli effetti: i migranti arrivano in un determinato territorio pensando di poter occupare particolari nic­chie all’interno del mercato del lavoro lecito e illecito, formale e informale, e vi restano se riescono effettivamente a conquistarsi questi spazi.

Riferendosi agli Stati Uniti, Jonathan Simon (1997) ha sostenuto che invece di governare la criminalità, si governa attra­verso la criminalità: la criminalità sarebbe usata dai sostenitori dei programmi politici di tipo conservatore e restauratore come uno strumento di creazione di egemonia e di consenso. Forse sarebbe più corretto parlare di “governo attraverso la criminalizzazione”, ma fatta questa precisazione, l’idea di Simon coglie bene le modalità con cui oggi in Europa si sta cercando di gestire i migranti.

 

4.2. Verso una dittatura della classe soddisfatta?

Loic Wacquant (1999) ha parlato di passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale per descrivere il mutamento in atto: con questo “slogan” Wacquant evidenzia che l’integrazione sociale viene gestita sempre di più spesso attraverso politiche penali e che il carcere assurge a sua matrice fondamentale. Questa definizione, per quanto suggestiva, non ci fornisce strumenti euristici per comprendere le prospettive che abbiamo di fronte. L’analisi foucaultiana della governamentalità evidenzia come sia strutturalmente incompatibile con ogni forma di perequazione sociale una tecnica di governo, che assume il mercato come parametro per la propria valutazione. Non solo, infatti, una politica che elegge il mercato a suo metro di valutazione non può porsi come obiettivo la socializzazione dei consumi e dei redditi. Essa deve anche essere consapevole che il mercato ha bisogno della disuguaglianza per funzionare: la disuguaglianza (degli interessi, delle prestazioni, degli scopi, delle remunerazioni, eccetera) è il motore della concorrenza, che garantisce l’ottimizzazione della funzione allocativa svolta dal mercato: “la concor­renza basata sui prezzi presuppone e produce processi di differenziazione; quindi, una politica sociale che si pones­se come obiettivo una perequazione sociale, seppur rela­tiva, risulterebbe anti-economica, nel senso che violerebbe i principi economici formali della stessa libera concorren­za” (Zanini 2006, 138). Le politiche governamentali quindi tutelano e riproducono uno spazio differenziale che garantisca “la molte­plicità e la differenziazione delle imprese” (Foucault 2004,155): “La crescita economica […], di per sé, dovrebbe garantire a tutti gli individui di raggiungere un livello di reddito che permetta loro le assicurazioni individuali, laccesso alla proprietà privata, la capitalizzazione individuale o famigliare, grazie a cui assorbire i rischi”(Foucault 2004, 150).

Sotto questo profilo la governamentalità rappresenta un’autentica rottura nella teorizzazione delle tecniche di governo. Queste, infatti, mirano da sempre tutte, comprese le tecniche disciplinari, a neutralizzare il conflitto sociale. La governamentalità eleggendo il mercato, e quindi la concorrenza, a propria bussola, ha invece bisogno del conflitto[48], non può mirare alla ricomposizione degli interessi dei soggetti, il suo compito al contrario è quello di favorirne la diversificazione. Questo metodo di governo crea un ambiente rischioso, complesso, in gran parte percorso da tassi ingestibili di illegalità che non possono essere completamente neutralizzati perché esprimo i percorsi individuali di soggetti che devono essere “lasciati fare”, in quanto assunti come comunque produttivi di ricchezza. E’ per neutralizzare questo ambiente che si sviluppano politiche securitarie, che però devono essere solo politiche di gestione dei pericoli, non di loro neutralizzazione, dato che neutralizzare il pericolo vorrebbe dire limitare la capacità del mercato di produrre ricchezza. Lo Stato appare sempre meno legittimato a definire i confini del mercato: non esiste più un mercato legale e uno illegale o “nero”. Il mercato è glo­bale e in quanto tale fuori dal potere dei singoli Stati.

Il rischio degli attori che si muovono su questo mercato, degli imprenditori (spesso solo di se stessi) è socializzabile esclusivamente nella forma del costo, si passa dalla neutralizzazio­ne del conflitto alla logica assicurativa[49]. Le socializzazione del rischio non può che essere una sua privatizzazione, la tecniche governamentali non possono indurre la società a occuparsi diret­tamente della copertura dei rischi a cui gli individui sono soggetti; possono solo riassegnarlo al singolo soggetto, con l’auspicio che il mercato garantisca ad ognuno un reddito sufficientemente elevato per assicurarsi. La governamentalità inverte dunque la tradizionale tendenza-centripeta di tutte le tecniche di governo, comprese quelle disciplinari, delocalizzando presso i singoli individui la gestione del rischio.

L’esempio degli Stati Uniti, che per primi e più decisamente si sono mossi lungo le nuove linee di politica criminale, mostra come le nuove strategie penali, per quanto confuse e tendenzialmente contraddittorie, hanno come denominatore comune l’essere rivolte contro intere categorie sociali, individuate normalmente in base alla loro marginalità sociale e razziale, che vengono identificate come pericolose (Santoro 2003). Questo dato non deve sorprendere: le nuove politiche penali non fanno che rispecchiare la sclerosi di quella che Peter Gloz (1986) ha definito “la società dei due terzi”, una società cioè in cui una quota rilevante, ma minoritaria, di individui è esclusa dal benessere e dal possesso degli strumenti politici ed economici necessari per raggiungerlo. Nei vari sistemi di welfare i circuiti dello scambio po­litico ed economico hanno presto operato una di­scriminazione sistematica fra gli interessi protetti da organiz­zazioni dotate di un forte potere contrattuale, quelli protetti da associazioni che non occupano posizioni strategiche e, infine, quelli “diffusi” che non dispongono di alcuna protezione efficace. A questi fenomeni si somma, da almeno un ventennio in Europa e da molto più tempo negli Stati Uniti, quello dell’immi­grazione di masse di diseredati, provenienti da aree continentali caratterizzate da un tasso di sviluppo scarso o nullo e da un’elevata densità demografica, alla ricerca disperata dei vantaggi offerti dall’appartenenza a “cittadinanze pregiate”.

Questa situazione ha finito per dar vita ad una massa di soggetti economicamente e politicamente molto de­boli, esclusi dall’effettivo godimento di quasi tutti i diritti. La garanzia dei diritti a favore delle maggioranze e la parallela necessità di restringere le garanzie sociali per la crisi fiscale dello Stato ha trasformato, come ha sostenuto John K. Galbraith (1992), le democrazie opulente in “dittature di una classe soddisfatta”: i ricchi, gli abbienti, i benestanti, che sono sempre esistiti, ma che in passato erano minoranza e che oggi so­no diventati maggioranza. Costoro non sono più costretti a difen­dere i propri privilegi favorendo il ricambio sociale: possono per­mettersi l’immobilismo e rifiutarsi di dividere le risorse con i nuovi poveri. Queste condizioni storico-sociali hanno portato alla produzione in tutti i paesi europei di una sottoclasse sociale più o meno estesa, spesso connotata anche in termini etnici, cui è negato l’accesso legittimo alle risorse economiche e sociali disponibili e che viene rappresentata come pericolosa, percepita come una minaccia per la sicurezza sociale e, in conseguenza della sua esclusione, per la sicurezza fisica e patrimoniale dei cittadini.

 

4.3. Incarcerazione dei migranti e dualismo del sistema penale

In società caratterizzate da una diffusa anonimità, la distinzione tra il cittadino onesto e il “criminale” non dipende tanto dalla condanna penale, quanto dalla pena detentiva. L’opera di criminalizzazione degli stranieri non potrebbe quindi reggersi senza un forte tasso di carcerazione. Anche sotto questo profilo le politiche di governo dei fenomeni migratori incentrate sul binomio “permanenza irregolare/sanatorie” sono funzionali. Questo binomio, infatti, permette di sovra-rappresentare gli stranieri detenuti rispetto a quelli autori di reato. Se molti migranti sono privi di uno status legale, all’alta percentuale di stranieri detenuti non corrisponde un’eguale percentuale di reati da essi commessi. I meccanismi di deversion, probation, e parole che, in forme diverse caratterizzano le modalità di esecuzione penale in tutti i paesi comunitari, comportano che sia molto più probabile che un migrante irregolare, finisca in carcere, sia in esecuzione della pena che in custodia cautelare, mentre un cittadino, o un migrante regolare, per la stessa condanna normalmente sconta la pena in misura alternativa, e se inquisito per lo stesso tipo di reato evita la custodia cautelare in carcere, eccetera. Questi meccanismi comportano che le condanne a pena detentiva si trasformino in vera e propria carcerazione soprat­tutto per gli stranieri irregolari. La difficoltà dei migranti presenti illegalmente, in attesa di essere regolarizzati, di dar conto di sé ri­spetto a una serie di richieste, che vanno dal possesso dei documenti d’identificazione a una residenza legale e stabile, a un lavoro e/o un reddito, ha come conseguenza una più alta applicazione nei loro confronti della custodia cautelare in carcere. Da questa misura discende l’impossibilità di scontare fin dall’inizio con modalità non detentive la pena e, una volta in carcere, gli stessi fattori che hanno portato all’applicazione della custodia cautelare ostacolano la possibilità di usufruire delle modalità di esecuzione della pena alternative alla detenzione[50].

Quest’uso della detenzione segna una profonda cesura nella storia del carcere. Con la fine della biopolitica il carcere è stato capace di cambiare pelle e trasformarsi da perno del disciplinamento, del reinserimento sociale degli elementi riottosi, a fulcro dei meccanismi di selezione della popolazione. Se, come scrive Foucault (1973, tr. it. 40), “la forma‑prigione del­la penalità corrisponde alla forma‑salario del lavoro”, forse si può dire che la forma-precariato (o la “macdonaldizzazione”) del lavoro corrisponde alla forma-espulsione della penalità. Oggi la società, data la possibilità illimitata di reclutare manodopera che le migrazioni offrono, e data l’ossessione della scarsezza delle risorse utilizzabili per fini sociali, ha deciso di non concedere una nuova possibilità di vita sociale a chi ha commesso un reato.

Il carcere sembra l'istituzione disciplinare che ha saputo ridisegnare immediatamente la sua funzione, adattandosi alla crisi fino a trasformarsi nel fondamentale baluardo dell'ordine. Il dilagare dei grandi fenomeni migratori ha comportato che negli ultimi anni la funzione politica richiesta al carcere sia completamente cambiata. Non gli si chiede più di produrre "buoni cittadini" del cui giudizio e comportamento ci si possa fidare, bensì di proteggere, per chi si è abituato ad usufruirne, quel Welfare state di cui si proclama il declino irreversibile. Gli si chiede di fissare i limiti della cittadinanza sociale, di alzare delle barriere che definiscano l'universo dei "cittadini consumatori". E il carcere si è prontamente fatto carico di questa domanda.

Via via che il carcere perde la finalità risocializzante, la detenzione dei migranti si svuota di ogni finalità che non sia quella di stigmatizzarli come “classe pericolosa”. Mentre per i cittadini europei non esiste un “altrove” dove sia possibile collocarli, per soggetti, come i migranti, per i quali questo “altrove” esiste, non sembra ragionevole affrontare le spese del mantenimento in carcere. Se lo scopo della pena detentiva è solo quello incapacitante, e cioè solo quello di mettere il migrante in condizione di non ledere gli interessi degli “onesti” (ed “elettori”) cittadini, l’espulsione dello straniero permette di conseguire lo stesso risultato. Venuta meno, per il cambiamento delle modalità produttive e per i fenomeni migratori, la fame di mano d’opera che aveva caratterizzato l’industrializzazione nell’Ottocento, niente più spinge a mantenere i migranti devianti all’interno dello spazio politico statale. La politica penale, finora costretta alla scelta tra la soppressione fisica o la necessità di rendere il soggetto inoffensivo, vuoi attraverso la deterrenza, vuoi attraverso la rieducazione (o il disciplinamento), riacquista una dimensione, andata perduta dopo i fallimentari tentativi di deportazione di fine Settecento, e sconosciuta alla penalità del secolo scorso: l’espulsione dei devianti dallo spazio politico. L’espulsione può assumere due aspetti. Può essere una vera e propria espulsione dal territorio dello Stato e in questo caso il carcere gioca un ruolo fondamentale, essendo ormai sempre più avanzata la sua trasformazione da strumento contenitivo-deterrente-disciplinante in strumento al servizio di questa nuova dimensione spaziale delle politiche penali. L’espulsione dallo spazio politico può però consistere anche in una semplice emarginazione dei migranti dalla sfera della legalità[51].

La necessità di controllare i migranti è divenuto un motivo frequentemente richiamato per giustificare gli aspetti delle nuove politiche penali che più stridono con la tradizione costituzionale nord-occidentale, per far emergere con chiarezza le logiche ad esse sottostanti conviene concentrare l’attenzione sul l’Italia che si presenta come un ottimo case study per rilevare le tendenze delle nuove politiche penali. L’Italia, infatti da un lato, come accennato, è divenuto paese di immigrazione proprio nel periodo in cui la globalizzazione economica e la sua ideologia si sono affermati, dall’altro il governo italiano tra il 2001 e il 2006 sembra aver assunto senza remore la logica governamentale della selezione della popolazione guidata dalle esigenze del mercato come bussola per i suoi provvedimenti normativi.

Fin dagli anni novanta del Novecento, in Italia sembra delinearsi un vero è proprio sistema di esecuzione penale per gli stranieri, distinto, e più afflittivo, di quello adottato per gli italiani. Questo diritto speciale sembrava però il frutto non voluto di modalità dell’esecuzione penale ritagliate sul modello di un cittadino che gode di un network di relazioni a cui appoggiare il reinserimento sociale. Erano le condizioni fattuali in cui vivevano i migranti che producevano, nella fase di esecuzione della pena, un diritto diversificato per gli stranieri: un doppio binario per cui, a parità di pena da espiare rispetto al cittadino italiano, gli stranieri si trovavano assoggettati ad un surplus di sofferenza legale. Le politiche penali erano in altre parole formalmente caratterizzate da un razzismo in output nonostante l’assenza di ogni razzismo in input, anzi a dispetto di politiche spesso esplicitamente mirate ad allocare carichi e vantaggi in assoluto rispetto del principio di eguaglianza, se non addirittura tematizzanti la colourblindness quale loro criterio ispiratore[52]. Con i provvedimenti legislativi adottati nel 2002 la discriminazione in output è diventata una discriminazione in input: il supplemento di sofferenza dei migranti si configura sempre meno come una distorsione dovuta alle loro condizioni e sempre più come una specifica scelta del legislatore. Per quanto l’utilizzazione retorica delle rilevazioni statistiche si affanni a mostrare che la discriminazione colpisce i migranti perché sono oggettivamente più pericolosi e “non meritevoli”, e non perché “stranieri”, “diversi” o “colorati”, cercando di preservare un’apparenza “universalistica” e il formale rispetto del criterio della imparzialità rispetto alla razza, è sempre più evidente l’affermazione di un vero e proprio diritto speciale per i migranti che li pone in condizioni di svantaggio anche formale[53].

L’uso del carcere per rinchiudere gli stranieri in attesa di una loro, spesso ineseguibile, espulsione è la nota caratterizzante della legge 189 del 2002. Questa legge mira a rendere praticamente impossibile che un migrante uscendo dal carcere possa riprendere la sua vita normale sul territorio italiano e reinserirsi socialmente. La previsione che debba essere espulso chiunque sia entrato in carcere per uno dei delitti previsti dall’art. 380, comma primo e secondo, c.p.p.[54], nonché per qualsiasi reato attinente alla droga o alla libertà sessuale esclude in partenza la possibilità che un migrante possa riprendere la sua vita sul territorio italiano da regolare.

La tendenza a trasformare la pena detentiva per i migranti in una mera fase prodromica all’espulsione è confermata dalla previsione di una nuova figura di allontanamento dal territorio nazionale: l’espulsione come misura alternativa. Secondo le modifiche apportate dalla Bossi-Fini all’art. 16 del testo unico che regola l’immigrazione e la condizione degli stranieri, il magistrato di sorveglianza dovrebbe espellere di sua iniziativa tutti i detenuti stranieri irregolari che siano identificabili e abbiano meno di due anni di pena detentiva da scontare. Questa disposizione di fatto configura un percorso per gli italiani, che a partire da tre anni (sei, se sono tossicodipendenti disposti a sottoporsi ad un programma comunitario) dalla fine della pena possono accedere alle misure alternative, e uno per gli stranieri, che invece sono destinati a scontare in carcere la loro pena fino a due anni dalla sua conclusione per poi essere espulsi. Il legislatore ha in pratica sancito che vale solo per i cittadini italiani il dovere dello Stato, imposto dall’art. 27 terzo comma della Costituzione, di predisporre pene che tendano al reinserimento sociale dei detenuti. Questo accade in patente dispregio non solo del principio di eguaglianza e dello stesso art. 27 terzo comma della Costituzione che si limita a fissare il principio che la pena (per chiunque vi sia sottoposto!) deve tendere alla rieducazione del condannato, ma anche dell’art. 1 dell’Ordinamento Penitenziario, secondo il quale il sostegno per il reinserimento sociale deve essere fornito con “assoluta imparzialità, senza discriminazione in ordine a nazionalità[55], razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e credenze religiose”.

La conferma più eclatante della nuova funzione del carcere è rappresentata dalla disposizione secondo cui il detenuto, anche dopo che sia stata disposta a suo favore la misura alternativa dell’espulsione, deve essere trattenuto in carcere in attesa che venga organizzato dalle forze dell’ordine il suo effettivo accompagnamento nel paese di origine. Questo trattamento, nel silenzio della legge, è applicato anche a quei soggetti che sono stati condannati all’espulsione in sostituzione di una pena inferiore a due anni. E’ evidente che in entrambi i casi la permanenza in carcere non si configura più come pena detentiva. Questa o non è mai stata comminata, essendo stata pronunciata una condanna all’espulsione in sua sostituzione, o non esiste più, essendo stata sostituita dalla misura alternativa dell’espulsione. Il migrante, in attesa di venire riaccompagnato nel suo paese, dovrebbe essere portato in un Centro di permanenza temporanea, in uno di quei centri, cioè, in cui vengono normalmente collocati in attesa di essere espulsi gli stranieri privi di permesso di soggiorno, ma che non hanno commesso alcun reato, neppure la violazione dell’ordine di allontanarsi dal territorio nazionale. Il fatto che sia stato disposto che lo straniero rimanga in carcere, pur in assenza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria che disponga la carcerazione o in presenza di un provvedimento della stessa autorità che dispone la scarcerazione, è la dimostrazione del fatto che il legislatore non fa differenza tra il carcere e i centri di permanenza temporanea. Cade anche l’ultima ipocrisia sulla natura dei centri di permanenza temporanea: questi sono concepiti come veri e propri centri di detenzione amministrativa, tanto che di fronte al loro sovraffollamento non ci si perita di utilizzare le carceri in loro vece.

Il legislatore italiano non si è limitato a dare un impulso decisivo alla configurazione del carcere come un luogo in cui il migrante (anche se era regolare al momento della commissione del reato) viene rinchiuso in attesa dell’espulsione. La legge 189 ha anche sanzionato penalmente (prima come contravvenzione, e poi, di recente, in conseguenza dell’intervento della Corte Costituzionale, come delitto) la violazione dell’ordine di allontanarsi dal territorio o di non farvi rientro e, come tutti i legislatori europei, ha istituito centri di detenzione per chi si trova nel territorio dello Stato sprovvisto di un titolo di soggiorno, configurando così la reclusione come un evento normale per coloro che vengono costretti dalla legge stessa a vivere da “clandestini”.

Nel 2003 risultavano iscritti presso le procure italiane 16.138 procedimenti contro migranti per i reati di rientro sul territorio nazionale dopo un procedimento di espulsione (art. 13 comma 13 e comma 13 bis, art. 14 comma 5 quater del T.U. del ‘98 sull’immigrazione, così come modificato dalla legge 189 del 2002) e per non aver ottemperato all’ordine di allontanarsi dal territorio (art. 14 comma 5 ter del T.U. del ‘98 anch’esso introdotto dalla legge 189/2002). Questi procedimenti hanno coinvolto 17.816 migranti (12.446 per il reato di non aver ottemperato all’ordine di allontanarsi), la maggior parte dei quali è stata trattenuta in carcere (solo per 4.753 di loro è stato disposto il rilascio immediato[56]). D’altro canto i centri di permanenza temporanea hanno ospitato tra il 2000 e il 2003 oltre mezzo milione di persone (131.480 nel 2000, 134.332 nel 2001, 150.746 nel 2002, e 105.957 nel 2003) “colpevoli” di aver fatto quello che le politiche italiane sull’immigrazione di fatto istigano a fare: aver soggiornato clandestinamente sul nostro territorio (cosa, è bene ricordarlo, che ancora di per sé non è un reato).

Come mostrano i numeri, la previsione di questo nuovo reato è un potente meccanismo di stigmatizzazione: è lo strumento che consente di portare a termine l’opera di connotazione della popolazione migrante come un insieme di persone per cui l’essere detenuto è un evento normale così come è normale infrangere le leggi: la detenzione, il carcere, segnano i criminali e quindi costituiscono la base del congegno di esclusione politically correct dalla cittadinanza sociale.

Cinicamente si dovrebbe probabilmente gioire per il fatto che il potere sembra voler finalmente rinunciare alla maschera dell’uguaglianza dietro la quale si è sempre nascosto, ma forse quella che chiamiamo civiltà (giuridica) non è che un insieme di maschere che ognuno deve indossare, primo fra tutti il Leviatano statale. Ai danni e ai rischi derivanti dalla scelta di gestire i migranti attraverso il meccanismo irregolarità-sanatoria, e quindi prevalentemente attraverso strumenti penali, va aggiunta dunque anche la grave crisi dello Stato di diritto.

 

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[1] Per una discussione delle politiche penali che hanno portato all’aumento della popolazione carceraria in Europa, colpendo in particolare i migranti e le minoranze etniche, si veda L. Re (2006).

[2] Per avere un dato di confronto nel 2002, 128.000 stranieri sono diventanti cittadini francesi. La maggior parte di loro erano ragazzi nati in Francia da genitori stranieri, che hanno presentato (tra i 13 e i 17 anni di età) una “dichiarazione anticipata” o sono diventati maggiorenni. Solo nel 14,6% dei casi l’acquisto della cittadinanza è dovuto al matrimonio con un cittadino francese. Lo stesso anno in Italia hanno acquistato la cittadinanza solo 12.267 stranieri, nel 91% dei casi l'acquisizione è avvenuta per matrimonio.

[3] Un discorso a parte merita la Germania, il cui tasso di detenzione degli stranieri è leggermente inferiore al 30%. Fino al 1° gennaio del 2000 era relativamente facile acquisire la cittadinanza tedesca. Poi è entrata in vigore una nuova normativa, che prevede la residenza da almeno otto anni, il rispetto dell'ordinamento liberal-democratico, la capacità di autosostentamento e una sufficiente conoscenza del tedesco, e il numero degli stranieri che richiedono la cittadinanza sta calando. Si è partiti da 186.000 domande, nel 2004 le domande sono state 127.000, l’anno successivo si è registrato un ulteriore calo dell’8% (le richieste sono state poco più di 117.000). Il governo tedesco e i lander stanno discutendo un ulteriore irrigidimento dei requisiti per fare domanda prevedendo test molto selettivi di lingua e di educazione civica. A mia conoscenza non ci sono dati disponibili sulla origine etnica dei detenuti tedeschi.

[4] Palidda cita a sostegno di questa tesi sia le testimonianze degli operatori sociali raccolte in Francia, sia i dati ufficiali riportati da P. Tournier 2000 e da una sua ricerca condotta con Biko Agozino (B. Agozino, S. Palidda 1996).

[5] Fonte dei dati è il sito web dell’International Center for Prison Studies, sezione World Prison Brief, http://www.kcl.ac.uk/depsta/rel/icps/worldbrief/world_brief.html. Salvo che per i dati italiani, che sono quelli forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria http://www.giustizia.it/statistiche/statistiche_dap/archivio_indice.htm

[6]La stima è abbastanza attendibile essendo il Rapporto frutto dell'attività di ricerca e del continuo lavoro sul campo delle 48 Caritas nazionali in Europa e delle loro strutture regionali, diocesane e parrocchiali.

[7] Libération, 29 ottobre 1997.

[8] Nel periodo previsto per presentare domanda di sanatoria c’è stato un lungo contenzioso tra associazioni dei migranti e governo spagnolo sui documenti che i migranti dovevano presentare per dimostrare di essere presenti sul territorio della Spagna dell’agosto 2004.

[9] A questi si devono aggiungere circa 400.000 migranti con uno status incerto perché in attesa del permesso di soggiorno e senza risposta sull’istanza di rinnovo.

[10] Bruno Nascimbene usa l'espressione jus receptum

[11] La Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza del 26 marzo 1992, Beldjoudi c. Francia, Serie A n. 234-A (considerazioni analoghe sono contenute anche nelle seguenti sentenze: 28 maggio 1985, Abdulaziz c. Regno Unito, Serie A n. 94; 21 giugno 1988, Berrehab c. Paesi Bassi, Serie A n. 138 (la Corte in questo caso differenzia il bilanciamento a seconda che si tratti o meno di primo ingresso); Moustaquim c. Belgio, Serie A n. 193) ha sostenuto che sicuramente spetta agli Stati il compito di “mantenere l'ordine pubblico, in particolare nell'esercizio del loro diritto di controllare, in conformità ad un principio consolidato di diritto internazionale ed ai trattati internazionali cui essi aderiscono, l'ingresso, il soggiorno e l'espulsione degli stranieri”. Detto questo ha però affermato che le decisioni in materia, “nella misura in cui possono incidere sul diritto protetto dal primo comma dell'articolo 8, devono risultare necessarie in una società democratica, ovvero giustificate da un bisogno sociale imperioso e, soprattutto, proporzionate al legittimo interesse perseguito”. Concludendo che risulta inaccettabile un'omissione, da parte degli Stati, della valutazione comparativa tra gli interessi di ordine pubblico ai quali è normalmente preordinato il provvedimento di espulsione e gli interessi dei quali è titolare lo straniero ai fini di pervenire ad una decisione di giusto equilibrio tra essi.

[12] Attualmente il governo tedesco sta procedendo in modo selettivo alle espulsioni degli stranieri privi di permessi di soggiorno, espellendo soprattutto singles e famiglie senza figli.

[13]All’art. 2, comma 3 della legge 39 recita: “Con decreti adottati di concerto dai Ministri degli affari esteri, dell’interno, del bilancio e della programmazione economica, del lavoro e della previdenza sociale, sentiti i Ministri di settore eventualmente interessati, il CNEL, le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale e la conferenza Stato-regioni, vengono definite entro il 30 ottobre di ogni anno la programmazione dei flussi di ingresso in Italia per ragioni di lavoro degli stranieri extracomunitari e del loro inserimento socio-culturale, nonché le sue modalità, sperimentando l’individuazione di criteri omogenei anche in sede comunitaria. Con gli stessi decreti viene altresì definito il programma degli interventi sociali ed economici atti a favorire l’inserimento socio-culturale degli stranieri, il mantenimento dell’identità culturale ed il diritto allo studio e alla casa”.

[14]Le norme che regolano la sanatoria sono contenute nell’art. 9 della legge Martelli, che porta come rubrica “Regolarizzazione dei cittadini extracomunitari già presenti nel territorio dello Stato”.

[15]I dati sui migranti sanati sono riportati da P. Bonetti (2004, 6).

[16]«Tra i permessi concessi negli anni 1995, 1996, 1997 e 1998 sono compresi anche quelli di regolarizzazione rilasciati a seguito del d.l. 489/1995, stimabili rispettivamente in circa 15.000, 221.000, 7.000 e 3.000 unità. Tra i permessi concessi negli anni 1999, 2000 e 2001 sono invece inclusi quelli rilasciati a seguito della regolarizzazione definita con d.l. n. 113 del 1999, valutabili in circa 195.000, 15.000 e 5.000 unità» (Istat 2004, 9 nota a) al prospetto 1.2.).

[17]Su questo dato influisce anche la circostanza che, come nota il Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato” del 1998, nel corso del 1997 furono rilasciati circa novemila permessi di soggiorno “straordinari”, riconducibili ai nullaosta concessi ai cittadini albanesi giunti in Italia a seguito dei disordini scoppiati nel loro paese nel febbraio-marzo 1997.

[18]A conferma di quanto sostenuto dall’Istat sta la circostanza che, come nota il governo nel Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato” del 1998, nel 1996 si registra un deciso aumento dei migranti residenti, aumento che viene addebitato “in gran parte agli effetti della regolarizzazione ex Decreto Dini, visto che gran parte degli stranieri che hanno usufruito di tale possibilità hanno poi provveduto alla registrazione anagrafica”.

[19]Il dato è riportato da WWW.Stranieri.it/sanatoria/san­_dati.htm, consultato il 20/7/2005. Il governo, nel “Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato 2004-2006”, parla in modo approssimativo di 705.000 domande.

[20]Dato fornito dal governo nel “Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato 2004-2006”.

[21]I dati al 1 gennaio 2004 sono ricavati da “La popolazione straniera residente in Italia” diffuso il 24 marzo 2005 reperibile su www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20050324, il comunicato contiene anche la stima sulle domande accolte di sanatoria.

[22]Se si sommano i dati delle varie sanatorie effettuate i migranti che hanno ottenuto un permesso di soggiorno in conseguenza a sanatoria sono circa 1.548.500. L’Istat mentre, come ricordato, sostiene che a partire dal 1995 i migranti che ottengono il permesso di soggiorno attraverso la sanatoria tendono a stabilizzarsi, segnala che il 30% di quelli che ogni anno entrano regolarmente in Italia lascia il territorio nazionale entro l’anno stesso in cui ha conseguito il permesso di soggiorno (Istat 2004, 11).

[23] Il decreto flussi del 2006 ha dato una prova evidente di questa prassi. La domanda di assunzione di un lavoratore residente all’estero avrebbe dovuto essere presentata ad un ufficio postale dal datore di lavoro. Il decreto prevedeva l’ingresso di 170.000 lavoratori stranieri. Le domande dei datori di lavori sarebbero state accolte in ordine temporali fino al raggiungimento della quota. In effetti gli uffici postali furono presi d’assalto da migranti irregolari, che fecero la fila davanti agli uffici postali dalla sera prima, presentando loro stessi la domanda del datore di lavoro. Furono presentate quasi 600.000 domande. A riprova del sostanziale inserimenti dei migranti irregolari, i primi controlli sulle domande dicono che l’80% di loro è presentato con una documentazione regolare (cioè esiste un datore di lavoro che offre un lavoro al migrante e gli garantisce un alloggio. Dato che i migranti sono già presenti sul nostro territorio, il governo sta valutando l’opportunità di accettare tutte le domande regolari presentate. In sostanza si sta valutando l’opportunità di trasformare il decreto flussi in una nuova sanatoria, prendendo atto della situazione di fatto.

[24]Il dato fornito dal governo nel “Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato 2004-2006” è per l’esattezza di 532.670 permessi di soggiorno per motivi di famiglia su complessivi 2.193.999 permessi di soggiorno esistenti. Merita di essere sottolineato che la sanatoria del 2002 ha fatto scendere la percentuale di permessi di soggiorno per motivi di famiglia sui permessi complessivamente rilasciati. L’anno prima, sempre secondo i dati forniti dal governo, erano infatti 472.240 su 1.512.324, cioè quasi un terzo.

[25]Il dato è fornito dal prefetto Pansa, nella relazione “L’esperienza italiana nel contrasto internazionale” presentata al Convegno internazionale per l’analisi dei procedimenti penali tenuti in Italia sulla tratta delle persone, organizzato dal 4 al 6 giugno 2004 dalla Scuola Superiore Amministrazione dell’Interno. Quello della difficoltà di calcolare gli overstayers è stato un problema costante dell’analisi dei migranti presenti sul nostro territorio, sul quale si è soffermato anche il governo, nel “Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato” del 1998, osservando, relativamente ai permessi di soggiorno scaduti l’anno precedente e non rinnovati, che non vi erano “elementi conoscitivi certi per stabilire se il flusso di documenti scaduti si sia effettivamente tramutato in un flusso migratorio in uscita, o piuttosto in presenza irregolare”. Il governo è ritornato sul problema nell’ultimo documento programmatico dove si legge: “Non bisogna sottovalutare l’entità dei flussi migratori provenienti dalle c.d. frontiere interne (intra-Schengen) e, soprattutto, il fenomeno degli overstayers, ossia della presenza illegale di stranieri che, entrati regolarmente in Italia, vi permangono anche dopo la scadenza del visto o dell’autorizzazione al soggiorno. Non si è tuttavia in grado di elaborare, al riguardo, stime attendibili”.

[26]Secondo l’ultima parte di questo comma invece della sussistenza del reddito o del lavoro, il migrante poteva documentare l’esistenza dell’impegno “di un ente o di un’associazione, individuati con decreto del Ministro dell’interno di concerto con il Ministro per gli affari sociali, o di un privato, che diano idonea garanzia, ad assumersi l’onere del suo alloggio e sostentamento, nonché del suo rientro in patria”

[27] Come accennato i decreti flussi emanati durante il periodo in vigore della Martelli (il 17/11/1990, G.U. n. 288 del 11/12/90, il 20/12/1991, G.U. n. 302 del 27/12/1991, e l’8/1/1993, G.U. n. 7 del 11/1/1993) si sono limitati a consentire l’ingresso a “i cittadini non-comunitari chiamati e autorizzati nominativamente a soggiornare per motivi di lavoro in Italia, ai sensi ed alle condizioni stabilite dall’art. 8 della l. 943 del 1986”.

[28]Il legislatore si era posto il problema della rigidità dei meccanismi di ingresso e della gestione dei numerosi casi di residenza irregolare che essa provocava già nel 1993 in sede di conversione del decreto-legge in sostegno dell’occupazione (d.l. 200 del 22/6/1993). Alla Camera, e in forma leggermente diversa, alla Commissione Lavoro del Senato fu approvato, infatti, un emendamento (che introduceva l’art. 9-ter) mirante a creare un percorso che consentisse, il più facilmente possibile, l’emersione dalle condizioni di irregolarità dei migranti di fatto inseriti nel mercato del lavoro, allo scopo di evitare lo sfruttamento di tali lavoratori e di impedire il mantenimento di condizioni di concorrenza sleale ai danni dei lavoratori regolari. L’emendamento prevedeva la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato della durata di due anni per quanti dimostrassero la disponibilità di un’offerta di lavoro o fossero in grado di autocertificare lo svolgimento di attività di lavoro subordinato. Le modalità di rilascio di tale permesso erano definite dall’emendamento in modo da dare al Governo anno per anno, in sede di programmazione dei flussi, uno strumento efficace per combattere la stagnazione delle sacche di irregolarità.

[29]Paradossalmente è lo stesso governo nel “Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato 2004-2006” a sottolineare il grado di inserimento sociale raggiunto dai migranti clandestini che hanno presentato domanda di regolarizzazione e la cospicuità del loro numero. Vantandosi di aver operato una “regolarizzazione”, e non una “sanatoria”, come avevano fatto i suoi predecessori, afferma: “Le sanatorie del passato si limitavano a prendere in considerazione la presenza sul territorio nazionale a una certa data e riguardavano i disoccupati, garantendo loro soltanto le iscrizioni alle liste di collocamento. La regolarizzazione non si è limitata a questo, ma ha richiesto un rapporto di lavoro reale, che è stato fatto emergere con una domanda che è stata presentata non dall’extracomunitario ma dal suo datore di lavoro. Il rapporto di lavoro è stato formalizzato in un contratto di lavoro con un salario regolare: a esso si è collegata la regolarizzazione contributiva, l’assistenza sanitaria, e un contesto di sicurezza, perché a ciascuno sono stati effettuati i rilievi fotodattiloscopici. Le più ottimistiche previsioni della vigilia facevano immaginare non più di 400 mila domande di regolarizzazione: sono state invece ben 705 mila!”

[30] Questo non implica necessariamente che i datori di lavoro abbiano effettivamente pagato i contributi dovuti. Stando alle voci dei migranti, l’ultima “regolarizzazione” è stata una grande estorsione di massa tollerata dallo Stato italiano: i datori di lavoro hanno spesso costretto i migranti che volevano accedere alla sanatoria a pagare i contributi a loro carico. E’ importante ricordare che con la sanatoria si mettevano in regola anche i datori di lavoro che non solo avevano assunto persone in nero, ma avevano anche commesso il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di cui all’art. 12 quinto comma del T.U. del 1998.

[31] Un piccolo, ma significativo, indice della schizofrenia in materia di facilitazione degli ingressi regolari è rappresentato dal fatto che la legge Turco-Napolitano non ha neppure favorito la conversione del permesso di soggiorno per motivi di studio in permesso di soggiorno per motivi di lavoro, stabilendo che anche le conversioni di questi permessi devono rientrare all’interno delle quote stabilite annualmente (art. 6 legge 40/1998), e quindi limitando ulteriormente i canali di accesso legale. Questo a dispetto del fatto che, nel Documento programmatico del 1998 il governo annoti che “pure rilevante è il numero di ingressi per studio, oltre 7.000, dove, tra le aree a forte pressione migratoria, risulta come sempre al primo posto l’Europa Centro orientale (più di 3mila), seguita dall’Asia (poco meno di 2.000 al netto di Giappone ed Israele) e poi da America Latina e Africa, entrambe di poco sopra alle 1.000 unità”.

[32] Come recita il “Documento programmatico” del 2001: “In tal modo è stato dato avvio ad una procedura di regolarizzazione il cui numero, inizialmente limitato alla quota prevista dal D.P.C.M. 16 ottobre 1998, è stato esteso con il Decreto legislativo 13 aprile 1999 a tutti coloro che fossero in possesso dei requisiti prescritti”.

[33] A questo risultato contribuiscono anche le norme sui ricongiungimenti familiari introdotte dalla legge Turco-Napolitano (artt. 26 e successivi della legge 40), che consento un uso più ampio di questo istituto rispetto al passato ed escludono dal meccanismo delle quote questi permessi che consentono ai ricongiunti, che ne abbiano l’età, di lavorare dal momento dell’ingresso in Italia.

[34] Il decreto è dell’8 febbraio 2000 ed è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 15 marzo 2000, n. 62.

[35] Il decreto è del 9 aprile 2001 ed è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 17 maggio 2001, n. 113.

[36] Nel “Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato 2001-2003”, è lo stesso governo italiano a notare che “la differenza di 0,03 punti percentuali è […] dovuta al fatto che, essendo il numero dei soggiornanti notevolmente inferiore alla popolazione complessiva, un aumento di poche unità nel numero di detenuti extracomunitari incide considerevolmente sul calcolo relativo”.

[37] La cosa appare ovvia alla stampa quotidiana. Il Wall Street Journal ha salutato l’ultima sanatoria spagnola come un provvedimento che avvantaggerà “soprattutto la lotta contro le mafie dell’immigrazione clandestina che mantengono migliaia di stranieri in condizioni di lavoro disumane” (Commento riportato dal Corriere della sera del 24 gennaio 2005). Il governo italiano appare invece dubbioso in proposito. Nel già ricordato “Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato 2001-2003”, si limita a far presente che l’immigrazione illegale “secondo alcuni studi di settore sarebbe causa principale dell’incremento della criminalità riferibile agli stranieri, spesso oggetto di sfruttamento da parte delle organizzazioni criminali o comunque di utilizzo e ‘reclutamento’ da parte delle stesse”.

[38] La nozione di underclass è stata posta al centro del recente dibattito criminologico da Wilson (1987). Essa ha comunque progenitori illustri come la teoria delle associazioni differenziali di Suherland e Cressey (1924), la teoria ecologica della disorganizzazione sociale di Shaw e McKay (1942) e le teorie del conflitto culturale.

[39] Cfr. i saggi raccolti in G. Oe­streich 1989.

[40] M. Foucault 1975. Sull’auto-esame e l’auto-controllo come prodotti della disciplina si veda anche “L’occhio del potere, conversazione con Michel Foucault”,che fa da introduzione all’edizione italiana di J. Bentham, Panopticon, Marsilio, Padova, 1983.

[41]Cfr, T. Hobbes, Leviathan, Part I, “Of Man”, chap. XIII, e Part II, “Of Common-Wealth”, chap. XXI, ; tr. it. La Nuova Italia, Firenze, 19933. In particolare Hobbes scrive: (tr. it. p. 208): “la libertà dei sudditi si trova perciò solo in quelle cose che il sovrano, nel regolare le loro azio­ni, non ha menzionato, quali la libertà di comprare, di vendere e di fare altri contratti l’uno con l’altro”.

[42]Foucault (1978, 27-28) parla di una “série solide” che si instaura tra economia e politica

[43] Sui meccanismi di sfruttamento dei migranti in campo agricolo si veda il saggio di Nicolas Bell (2002).

[44] L’unico problema presentato da questi immigrati sembra essere il superamento della riluttanza della maggior parte dei cittadini dei paesi europei ad accettare un sostanziale incremento di popolazione musulmana. Finora questo problema è stato attenuto dall’afflusso di lavoratori provenienti dai nuovi paesi membri dell'Europa centrale, dove i salari sono considerevolmente più bassi. Anche in Europa centrale, però, il tasso di natalità è ben al di sotto dei livelli di sostituzione, per cui questo flusso andrà decrescendo.

[45] Le dichiarazioni dei due esponenti politici africani sono state riportarte dalla stampa nei giorni immediatamente successivi all’approvazione della legge.

[46] Sul tema: G. Burchell 1991, 119-150 e 1996, 19-36.

[47] Certi grup­pi etnici vengono ricollegati a più alti livelli di partecipazione a compor­tamenti criminali di altri esclusivamente perché si consolidano canali che li collegano a determinati mercati illegali.

[48] Max Weber (1922, tr. it. 35-8) cataloga la competizione economica tra le forme di lotta.

[49] Cfr. in particolare (Ewald 1986). Sandro Chignola (2006, 11) a questo proposito parla di “un autentico salto oltre le moder­ne categorie del Politico”.

[50]In Italia il fenomeno è riconosciuto dallo stesso governo che nel “Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato 2001-2003” scrive: “Dalle statistiche sulla popolazione detenuta in Italia, risulta sempre più importante la presenza di immigrati extracomunitari, per lo più irregolari. Non sempre la permanenza in carcere è conseguenza della gravità del reato: le difficoltà di accesso alle misure alternative hanno il loro peso, molti condannati stranieri “pur essendo in possesso dei requisiti di pena, non si trovano nelle condizioni di seguire un progetto trattamentale esterno in relazione ad oggettive carenze di riferimenti familiari, lavorativi e logistici derivanti nella maggior parte dei casi dalla totale assenza di soluzioni abitative e di adeguate strutture di accoglienza di tipo residenziale”. La situazione descritta, di precarietà sociale, rimane invariata, malgrado sia stato tentato, e in parte ottenuto, un miglioramento dell’accesso alle informazioni relative ai presupposti per la fruibilità delle misure alternative, alla luce della legge 165/98, cd. Legge Simeone”.

[51]Sembra, infatti, esistere anche una marginalizzazione funzionale ai mercati illegali. In Italia questo dato emerge chiaramente dall’ostinazione con cui si emettono provvedimenti di espulsione nei confronti degli stranieri il cui effettivo accompagnamento in patria si sa bene essere impossibile. Tutti questi soggetti vanno a finire in una sorta di pozzo nero: essi non ottempereranno al decreto di espulsione e lo stesso decreto li costringerà ad una vita da clandestini, li costringerà, volenti o nolenti, ad affidarsi al mercato illegale.

[52]L’art. 1 della legge 26/7/1975 n. 354, contenente “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”, fissando i principi generali, proclama che il trattamento penitenziario, cioè l’attività mirante alla risocializzazione del condannato, “è improtanto alla assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose” (il corsivo è naturalmente mio).

[53] La legge189/2002 ha previsto il reato di reingresso dei migranti espulsi, quello di mancato abbandono del territorio da parte di stranieri invitati ad andarsene (esclusivamente per una di queste due “malefatte” sono stati arrestati nel 2005 quasi 10.000 stranieri), ha poi introdotto l’espulsione obbligatoria dei migranti in carcere quando arrivano a due anni dal fine pesa, e previsto che non possa rinnovare il suo permesso di soggiorno uno straniero condannato per un reato che prevede l’arresto obbligatorio in flagranza.

[54]Questo articolo elenca i reati per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Si tratta dei reati gravissimi puniti con pene non inferiori nel minimo a cinque anni o nel massimo a vent’anni, e dei delitti contro la personalità dello Stato, del delitto di devastazione e saccheggio, dei delitti contro l’incolumità pubblica per i quali la pena detentiva è nel minimo superiore ai tre anni o nel massimo ai dieci anni, del delitto di riduzione in schiavitù, di sfruttamento della prostituzione minorile, di pornografia minorile e di turismo sessuale volto allo sfruttamento della prostituzione minorile, dei delitti di rapina e di estorsione, dei delitti relativi alle armi da guerra e agli esplosivi, dei delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine dello Stato, dei delitti relativi alle associazioni segrete e dei delitti di associazione mafiosa. Accanto a questi delitti sono però previsti reati molto meno gravi: il furto eseguito compiendo violenza sulle cose o servendosi di mezzi fraudolenti o introducendosi nella dimora di chi detiene l’oggetto o strapandogliela di mano ... in pratica qualsiasi furto in concreto venga commesso indipendentemente dal valore dell’oggetto rubato.

[55]Il corsivo è naturalmente mio.

[56]Dati forniti dal Ministero della Giusizia –Dipartimento per gli Affari di Giustizia, Direzione Generale Giustizia Penale – Ufficio I Reparto dati statistici e monitoraggio, Monitoraggio della l. 30 luglio 2002 n. 189. Quando si elaborano le statistiche sui reati commessi dagli stranieri si dovrebbe tener conto di alcuni reati che possono essere considerati “reati propri” degli stranieri. Per confrontare il tasso di criminalità della popolazione immigrata e di quella italiana andrebbero confrontate categorie omogenee cioè solo i reati che entrambi le classi possono commettere. Andrebbero, per tanto, eliminati dal confronto tutti gli stranieri che commettono il reato di mancata ottemperanza all’ordine di allontanarsi dal territorio italiano o a quello di non farvi rientro per un certo periodo di tempo, così come, per gli italiani, andrebbero eliminati tutti i reati che possono essere commessi solo da cittadini (per esempio il reato di diserzione).

                                                         Emilio Santoro 
                                         

    


                                                  

 
 

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