Cercherò di essere breve nella mia introduzione, però non posso fare a meno, prima di entrare nel vivo, di fare un ringraziamento. Il mio ringraziamento va anzitutto ai due presidenti, al presidente che mi ha invitato, la presidentessa del Centro Lapis, e al presidente che ha ispirato l’invito, il presidente Scutellari del Tribunale di Arezzo, che mi hanno consentito di rimettere piede in questa bella cittadina, amministrata dal sindaco le cui parole abbiamo ascoltato con tanto interesse ed al quale ho per così dire espropriato la poltrona. Ma avrete pure notato che ho curato che a occupare il posto che prima era impegnato dal sindaco fosse il prof. Hulsman: perché non si dica che l’autorità giudiziaria invade il campo di quella amministrativa. Ho invece se mal non ricordo il piacere di sedere dove prima sedeva S.E. il prefetto di Arezzo e per quanto riguarda i rapporti fra l’autorità giudiziaria e l’ufficio territoriale del governo non penso che possano porsi questi problemi di campi invasi, perché l’autorità giudiziaria è sempre rispettosa nei confronti di chi nella provincia rappresenta il governo nel suo complesso e in alcuni casi, per i poteri che competono al prefetto, anche l’unità nazionale. Per via delle funzioni che ho sempre svolto e svolgo, il mio pensiero peraltro non può non andare alle forze di polizia, qui rappresentate dal comandante della compagnia dei Carabinieri, dai funzionari del Corpo forestale dello Stato, dai vigili urbani. Probabilmente salterò qualcuno ma … già vedo su di me lo sguardo preoccupato dei funzionari del corpo della polizia penitenziaria: li avevo lasciati per ultimi perché a loro, visto anche il tema che qui si tratta, va un pensiero particolare. Perché spesso si dimentica che nelle carceri oltre ai detenuti vi è anche il personale del corpo di polizia penitenziaria, ci sono i funzionari e i dirigenti del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e spesso sia i cittadini, che noi appartenenti all’autorità giudiziaria questo lo dimentichiamo, e non lo dobbiamo mai dimenticare.

Voglio essere breve per evitare di invadere il campo degli illustri, anzi illustrissimi relatori. Però consentitemi anche, viste le funzioni che svolgo, di rivolgere un pensiero – ed è un  piacere quello di aver trovato qui il collega Gaetano Paci, della direzione distrettuale antimafia della procura della repubblica di Palermo, che è diciamo così la punta avanzata dell’azione di contrasto dell’autorità giudiziaria nei confronti della criminalità organizzata di tipo mafioso- ai colleghi di tutte le direzioni distrettuali antimafia, ventisei direzioni distrettuali antimafia in Italia, che sono tutti impegnati fino allo spasimo nel contrastare questi fenomeni criminali che mettono seriamente in pericolo la vita della collettività.

É ben strano il destino se oggi mi appresto qui ad introdurre e coordinare un convegno nel corso del quale in buona sostanza ci si interrogherà sul carcere, sulla sua utilità, sul suo diritto di cittadinanza in uno Stato di diritto, se sia opportuno parlare di alternative al carcere, o di carcere alternativo, e forse anche della opportunità della permanenza della stessa giustizia penale.

Se per 29 anni avessi fatto il giudice, forse avrei potuto salvarmi dietro le parole di Leonardo Sciascia, secondo cui quello di giudicare non può essere un potere, e la scelta della professione del giudicare dovrebbe avere radice nella ripugnanza al giudicare, dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio, ad introvertire detto potere come un dramma, a soffrirlo. E quindi concludere, dopo aver fatto mie queste parole, dicendo che al dramma delle reclusioni inflitte ha fatto da contraltare il mio personale dramma, che la mia sofferenza si è accompagnata a quella delle vittime dei reati oggetto del giudizio, sofferenza questa che non va mai dimenticata, e a quella dei condannati per i quali si aprivano le porte del carcere, che si chiudevano alle loro spalle, per anni e anni e in tanti casi, in teoria, per tutti gli anni della loro vita.

Invece, per 29 anni ho fatto il pubblico ministero, ho cercato prove di responsabilità e, sulla scorta di queste, ho richiesto migliaia di anni di reclusione ed, in molti casi, condanne a vita, e spesso le ho ottenute, come quando la Corte d’Assise di Palmi il 25 novembre del 1997 ebbe ad infliggere quasi cento condanne all’ergastolo. Forse il maggior numero di applicazioni di tale condanna nella storia dell’Italia moderna.

Potrei trincerarmi dietro la spiegazione di aver solo fatto il mio dovere, ma sarebbe un discorso forse troppo autoreferenziale, e privo del tutto di quella carica spirituale che caratterizza ogni azione umana, che per di più cadrebbe facilmente sotto i colpi della critica di chi afferma che il sistema della giustizia penale (vera e propria macchina burocratica) opera soprattutto per giustificare la propria esistenza, per legittimarsi dinnazi alla società. E, soprattutto, significherebbe per certi versi proclamare un esonero da responsabilità, scaricandole su chi, facendo anch’egli parte di quel sistema, ha il compito di confrontarsi giorno dopo giorno con gli effetti del mio operato. Mi riferisco a coloro che operano all’interno del sistema penitenziario, con i quali la magistratura, pur nella separatezza delle funzioni, non può non interagire idealmente e tecnicamente e, di fatto, interagisce nella misura in cui una sua branca, quella di sorveglianza, condivide in pieno quello sforzo di adeguamento della pena alla natura umana dei condannati, soprattutto grazie a quell’istituto che va sotto il nome di “TRATTAMENTO”.

Preferisco, allora, nella consapevolezza di parlare a nome di centinaia di altri come me, affermare di non aver agito mai nella consapevolezza di operare per giustificare  l’esistenza del sistema di cui faccio parte, ma per contribuire alla applicazione di  leggi che, nel bene e nel male, sono legittimamente presenti nell’ordinamento giuridico dello Stato cui appartengo, oggi più che mai alla luce dell’inserimento nell’Olimpo del diritto, sul piano più alto della gerarchia delle leggi, della legislazione  internazionale, senza la corrispondenza alla quale, soprattutto in materia di diritti fondamentali dell’uomo (e qui di tali diritti si tratta), nessuna legge di uno Stato può esistere.

Piuttosto, nella consapevolezza che senza un ordinamento giuridico una società civile non può esistere, e che in tale ordinamento esiste una legislazione penitenziaria che sin dal 1975 si ispira a principi dei quali ci parlerà sicuramente uno dei relatori di questa mattina, che abbiamo la fortuna di avere qui, che non esito a definire uno dei principali ispiratori della riforma penitenziaria.

Ed ancora, nella consapevolezza che il progresso della civiltà non ha limiti, purchè non si aspiri a società utopistiche, a novelle Città del Sole, e che quindi la mente umana saprà in materia di pene, od anche di non pene, distinguere tra fatti e fatti, tra persone e persone e, per queste, non già in base a razza, censo, posizione sociale o stabilità e modo di presenza nel territorio dello Stato, religione, ecc., ma in base alla loro vicenda personale, ed al loro atteggiarsi nei confronti della azione posta in essere, di chi o coloro  i cui diritti sono stati violati da tale azione, al modo stesso in cui intendono la colpa e la sanzione inflitta, circostanze tutte che potranno determinare anche il giusto inquadramento del fatto: perché i fatti umani non sono solo fatti e nella loro materialità non v’è solo materia.

Sul punto si profilano qui in Italia interessanti modifiche legislative in tema di allargamento dell’istituto della messa alla prova. 

Ciò posto, si tratterà qui di vedere se è superabile quello che si può definire il legame inscindibile tra carcere e libertà, nel senso che non v’è libertà senza carcere e non v’è carcere senza libertà. Intendendosi tale frase nel senso profondo che per garantire le libertà dei più è necessario limitare quella dei pochi che violano le regole ma, nel contempo, che il carcere non avrebbe senso se non vi fosse per gli incarcerati la speranza di una libertà che consenta loro di non tornare in carcere.

Probabilmente proprio dal primo degli illustri ospiti il prof. Louk Hulsman sentiremo partire le prime formidabili ed autorevoli bordate contro i sistemi vigenti, che si sostanzieranno nella proclamazione della teoria dell’abolizionismo, non solo del carcere, ma dello stesso sistema di giustizia criminale da sostituire con altri sistemi (mediazione, giustizia civile).

Le sue tesi si trasformeranno in interrogativi che aleggeranno in questa aula e come macigni peseranno sulle nostre menti e le nostre coscienze.

Verranno le risposte, di assenso o dissenso. Gli altri non meno illustri ospiti di questa mattina potranno spiegare come un moderno diritto penitenziario può garantire i diritti umani e contemperarli con l’esigenza di proteggere la società dal crimine.

Mai, però, una risposta ad un abolizionista che sottopone agli altri le sue argomentazioni potrà essere quella che forse, in teoria, ha ragione ma, in pratica, non c’è modo di fare diversamente da come di fatto avviene. Bisogna rispondergli con argomentazioni serie, come serie sono le sue.

E se non vale quella cui si faceva sopra riferimento circa il legame carcere-libertà, altre se ne diano.

Ma si tenga anche presente che un pericolo terribile oggi minaccia le società libere sempre più percosse da azioni criminali quali quelle del terrorismo, della delinquenza organizzata nazionale e transnazionale, e del crimine economico-finanziario che canali sotterranei probabilmente legano al primo ed alla seconda: che la erosione degli spazi della giustizia penale sottragga alla giurisdizione importanti ambiti che verrebbero per necessità di cose (anche ordine pubblico) invasi dalla amministrazione di polizia, con le immaginabili conseguenze in materia di compressione dei diritti fondamentali della generalità dei cittadini; per evitare la limitazione della libertà di alcuni (quelli che hanno violato le regole), si determinerebbe la limitazione generalizzata dei diritti di tutti. E’ forte, cioè, il rischio che la alternativa al sistema penale tradizionale sia lo stato di polizia. E potrebbero farsi tanti esempi concreti.

Disse un nomade del Sahara ad un occidentale “ a voi occidentali manca il deserto”. E mentre quello lo guardava con aria interrogativa, aggiunse: “solo chi è abituato a scavare nella sabbia per trovare l’acqua pura, può andare al fondo delle cose e conoscere la verità”.

Forse, in questi due giorni, scavando tra le incertezze ed i dubbi del sistema carcerario e delle sue possibili alternative, potremo trovare un po’ di verità.

                                                   Roberto Pennisi 
                                         

    


                                                  

 
 

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