Ricordo
che quando mi accostai le prime volte al tema delle
alternative, fui colpito da questo tema della mediazione,
prima di tutto perché è un tema in un certo senso
sfuggente. Come ha detto Gary Hill non è così semplice
parlare di mediazione, se dici a uno io ti mando in carcere
è abbastanza semplice capire che cosa è, ma la mediazione
deve essere necessariamente vissuta, perché se ne possa
comprendere la finzione.
Del
resto in Italia è stato anche scritto che si tratta di un
termine che ha innumerevoli varianti di significato, perché
nasconde dietro a un’apparente uniformità di concetto una
serie di varianti, come si diceva, che possono comportare
degli aspetti e delle finalità diverse. Non è un concetto
che ha un’unica direzione. Prima di tutto il concetto
della mediazione come filosofia di approccio verso il
conflitto è più ampio del penale, perché riguarda anche
qualunque genere di conflitto e ne facciamo esperienza
sempre più anche nella giustizia civile. Io spero che il
prof. Hulsman almeno sarà soddisfatto, visto che lui
parlava della giustizia civile tanto bene,
che io alla fine mi sono convertito alla giustizia
civile. Faccio il giudice civile, quindi questo almeno mi
guadagnerà l’affetto del prof. Hulsman non perché io non
sia convinto dell’importanza anche di quella penale
naturalmente, ma perché se faccio il magistrato certo non
è che posso fare il tifo per la concorrenza per avere meno
lavoro, anche se lo posso fare perché la giustizia civile e
la mediazione occupino tutte e due gli spazi che sono loro
propri.
Riconosco
però una grande verità in quello che ci diceva prima il
collega Pennisi: interroghiamoci su quello che ci può dare
la mediazione e su quello che ci può dare tutto ciò che è
alternativo al sistema penale classico, come direbbe
Foucault che aveva citato prima il dott. Turco. Io non so se
noi parliamo di alternative, come direbbe Foucault, perché
non osiamo più dire che puniamo e allora usiamo un termine
più leggero, più elegante, più sottile. Spero di no:
molti di noi, molti di quelli che sono presenti qui sono
persone molto motivate. Vedevo prima l’intervento e poi la
presidenza della prof. Giuffrida, che ha presieduto la
commissione che il ministero ha istituito per lo studio
della mediazione penale, e lo ha fatto insieme ad insigni
esperti che sono fortemente motivati a dare una concretezza
a questo termine.
La
mediazione si può certamente definire in termini anche
puramente astratti e generalmente si dice che è un modello
di giustizia che coinvolge la vittima, il colpevole e la
comunità nella ricerca di soluzioni che risolvano il
confitto che è nato dal crimine, allo scopo di promuovere
la riparazione dei danni e la riconciliazione tra le parti,
oltre a un rafforzamento della soluzione sociale. É una
bellissima definizione, anche se messa in questi termini è
un’utopia, almeno se si deve intendere come
generalizzazione di questa definizione la possibilità di
raggiungere un risultato definitivo finale. Ecco, qui è un
primo punto, è stato detto molto sulle alternative e sulla
possibilità che siano una soluzione. Quello che è
importante è tenere sempre in mente che una persona
concreta, che parla in buonafede e crede di lavorare per
fare qualcosa di valido e di effettivo non parlerà mai
della Soluzione con la S maiuscola. Esistono degli strumenti
che possono produrre dei risultati, ma nessuno è
definitivo, nessuno raggiungerà il risultato esclusivo e la
soluzione globale di un problema.
Il
carcere non è esistito sempre, il sistema penale è nato in
un certo periodo storico, può darsi che in un altro periodo
storico scomparirà, come sistema. Dobbiamo averne la
consapevolezza. Io mi sono portato qui - lo leggevo
l’altro giorno con molto interesse - un testo che colpisce
non per quello che dice ma per quando è stato scritto.
Riferisce di un certo luogo e di un certo tempo: “Chi è
condannato per furto restituisce il maltolto al padrone in
questo luogo, non già al re come si usa altrove. Questo
perché si dice che il re ha tanto diritto a quello che è
stato rubato quanto il ladro stesso. Se la persona derubata
non si trova, allora si preleva il valore dai beni del ladro
lasciando il resto interamente alla moglie e ai figli e lui
viene condannato ai lavoro e non viene mandato in
carcere”. Ora, questo testo fa parte di uno dei più
famosi libri scritti nel sedicesimo secolo, la Repubblica di
Utopia di Thomas More, e quindi noi possiamo vedere che
cinquecento anni fa si parlava di alternative, e certamente
non è un caso che si chiami Utopia il paese nel quale si
immagina che esista un sistema del genere. Però questo ci
dimostra quanto attraversi i secoli il pensiero di
un’alternativa. Non è il prodotto soltanto della cultura
moderna, prodotto della cultura moderna semmai è il carcere
inteso in
maniera sistematica, questo non toglie che abbia la
sua validità, le sue radici, le sue ragioni. Io non sono un
utopista che pensa di risolvere un problema con
l’estremizzazione di un grande ideale, la sua
idealizzazione. C’è lo spazio per l’uno e per
l’altro.
La
mediazione s’inserisce in questo altro spazio, questo
spazio nel quale si cerca di risolvere il conflitto, in
questo caso tra la società, noi diciamo lo Stato, e la
vittima del reato, anzi in questo caso il colpevole,
coinvolgendo però anche la vittima. Proprio il discorso che
facevamo prima. Spesso la vittima è la grande assente di
questo processo, ma questo non ad uno scopo puramente ideale
o per appagare un senso astratto di giustizia. Soprattutto
per ottenere un risultato molto importante sul piano
pratico, quello della risoluzione di questo conflitto, dal
quale deriva come conseguenza un abbattimento della
pericolosità di questa stessa persona, la possibilità di
fare dunque un investimento che produce un grande risultato
in prospettiva. Ora, l’idea della mediazione ha molti
padri, perché da un lato nasce dal filone
dell’abolizionismo, inteso appunto come questo grande
movimento soprattutto nato nel Nord Europa - il prof.
Hulsman prima ce ne ha parlato con grande credibilità - del
resto lui ha scritto anche che l’abolizione della pena è
una necessità logica- Ma nasce non solo da questo, nasce
anche da filoni diversi, anche più basati sulla ricerca di
soluzioni pratiche ed utilitaristiche in senso buono, non
opportunistiche, per ridurre i costi, le spese, l’impatto,
il danno per la società.
Quindi
non si tratta soltanto di un movimento che punta ad una
conversione dello spirito delle persone, perché se fosse
questo sarebbe di grandissimo spessore morale, questo
tentativo, ma troppo utopistico per potere avere
un’applicazione così vasta. Si tratta di un movimento che
si fonda sulla constatazione che un meccanismo come questo
può essere un meccanismo di grande impatto, di grande
soluzione. Il collega Pennisi ne ha fatto un esempio
parlando di un caso al quale nessuno penserebbe come
realizzabilità, perché si darebbe per scontato che in casi
come quelli non ci sia nessuna possibilità di recuperare
una persona. E invece non è così. Certamente ci sono casi
non recuperabili, ci sono casi ai quali la mediazione non si
può applicare. Ma ce ne sono molti ai quali si può
applicare. Questo è favorito da un sistema dell’azione
penale alla quale lo Stato può rinunciare. Certamente è
favorito perché in questo modo il primo effetto che si
raggiunge è che non si fa un determinato processo. In un
sistema come quello italiano la cosa è più complicata come
è stato già detto e come accennerò dopo. Ma anche quando
non si incide direttamente sull’azione penale, sulla
prosecuzione dei reati, il risultato che si può ottenere
non è meno importante, anche solo in termini di deflazione
perché non è questo lo scopo della mediazione, non può
essere questo lo scopo principale di un meccanismo come
quello della mediazione, praticarlo per ridurre il numero
dei processi. Questo probabilmente è un effetto, se si
raggiunge un buon funzionamento dell’ istituto ci sarà
anche questo effetto, ma non può essere questo lo scopo,
questo non vale solo nel penale vale anche negli altri campi
perché non possiamo negare la giustizia, non possiamo dire
alle persone noi non facciamo i processi perché non siamo
in grado di farli, facciamo la mediazione. Questo sarebbe
diniego di giustizia, non è una misura alternativa, è una
cosa diversa.
Noi
dobbiamo applicare più esattamente ad ogni caso la
soluzione più adatta a quel caso, e questo richiede un
grande lavoro, quindi quando si dice cosa ci aspetta nel
futuro, senza fare gli indovini, ci aspetterà quello che
noi siamo in grado di produrre perché sta a noi far
funzionare questo sistema. Far funzionare il carcere è
molto difficile ma certamente, almeno se lo vogliamo far
funzionare come ha funzionato finora, è un impegno più
semplice. Se uno lo vuol far funzionare soltanto come
custodia è molto più facile rispetto a entrare
nell’alternativa al carcere in forme come la mediazione.
Perché la mediazione richiede il coinvolgimento come vi ho
detto, del colpevole, di chi ha subito le conseguenze del
reato e ovviamente anche di chi deve promuovere il processo
penale. E ha un grande impatto sulla società e sulla vita
delle
persone, non soltanto sui processi ma anche nella
prevenzione stessa.
Noi
abbiamo visto alcune parti del mondo nelle quali la
mediazione, attuata attraverso commissioni che hanno ridotto
l’impatto delle vendette, dei singoli che hanno subito
questi crimini, ha evitato dei bagni di sangue. La
Commissione per la riconciliazione e la verità, che ha
agito nel Sudafrica, dopo la fine dell’apartheid, è stata
una realizzazione che sembrava visionaria nella sua
impostazione ma che ha avuto un successo straordinario, Ma
attenzione, riconciliazione e verità, perché per
riconciliarsi bisogna ammettere le proprie colpe. E qui si
passa all’altro lato, non c’è l’indulgenzialismo, se
così si può dire, l’indulgenza ad ogni costo, dietro la
mediazione: una pacca sulla spalla, un arbitro che dice a
due che si sono scontrati sul campo datevi la mano. Non è
così, perché se fate incontrare una persona che ha subito
una violenza con quello che l’ha commessa è difficile
dire: dagli la mano. Non è che ci sia sempre questa
possibilità, ma il contatto stimola il riconoscimento della
colpa è questa la cosa più importante. La mediazione punta
quindi non soltanto ad un’alternativa rispetto alla pena
nel senso niente pena–mediazione, ma ad un’alternativa
che comporta una sanzione anche, non è una sanzione di tipo
detentivo ma ha un contenuto anche questo di sanzione perché
poi ci sono delle conseguenze e delle misure che vengono
prese come conseguenza di questo riconoscimento di colpa,
perché bisogna recuperare anche la vittima, bisogna
risarcirla e bisogna lavorare perché ci sia un risultato
concreto, anche perché si dia una conseguenza al
riconoscimento e all’autoconsapevolezza della propria
responsabilità. Quindi è un lavoro molto difficile e
complesso che richiede delle persone di grande motivazione e
di grande preparazione per essere svolto.
In
altre parti del mondo vedo che funziona molto bene questo
tentativo di approdare alla mediazione, anche se non
certamente per tutti i reati. Quindi in un certo senso io mi
colloco più in quella visione non utopistica nella quale la
mediazione in questa sua accezione alternativa ma anche in
qualche modo retributiva, non cancella la pena ma si pone
come un altro strumento all’interno del sistema
giudiziario. Ma questo vale anche per il civile, nel senso
che la giustizia non è soltanto la giurisdizione, questo è
forse il futuro del quale ci parlano gli studiosi che in
questi ultimi anni hanno affrontato questi scenari, alcuni
anche apocalittici per il futuro perché quando si parla di
due milioni di persone nelle carceri americane sembra di
vedere il film Fuga da New York. Purtroppo in questo caso si
è realizzato, probabilmente perché non per nulla è stato
fatto da Carpenter, che è un grande catastrofista ed è
basato sugli Stati Uniti. Alcune previsioni sono
apocalittiche, altre lo sono di meno nel senso che proprio
una visione equilibrata ci porta a dire che la mediazione può
arrivare a costituire quel punto d’incontro tra
retribuzione e reinserimento, fra punizione e
riabilitazione, che è così difficile da trovare in altre
forme, e anche perché attraverso la mediazione si può,
senza fare confusione come raccomandava la dott.ssa
Giuffrida, dare ingresso anche ad una serie articolata di
alternative.
In
Italia noi abbiamo, avevamo queste forme di mediazione
penale soltanto nella giustizia minorile e nella fase
esecutiva, cioè nell’esecuzione della pena. Perché
l’azione penale è obbligatoria, come diciamo noi, anche
se poi quando parliamo con i nostri amici inglesi o
americani è difficile parlare di obbligatoria, è meglio
spiegare sempre che non vuol dire automatica, perché usando
quell’aggettivo sembra che noi usiamo l’azione penale
anche quando non c’è la prova. Ma è più semplice, o
meglio si nota più l’impatto della mediazione, della
raggiunta riconciliazione, dell’accordo per in qualche
modo promuovere il risarcimento, per impegnarsi per anni a
lavorare per la vittima, o a incontrarla regolarmente, a
svolgere, quando non c’è una vittima individuabile, un
lavoro socialmente rilevante, che esprima quindi un
connotato di punizione, che una persona accetta riconoscendo
la propria responsabilità – e guardate che è molto
efficace per il pubblico, per le persone, vedere qualcuno
che ripara ciò che ha distrutto. Non è meno efficace che
vederlo nel carcere, quindi non si tratta di una visione
blandamente punitiva o di alternativa alla pena perché
bisogna recuperare tutti. Si tratta di trovare una misura
adeguata per quelle persone per le quali è efficace questa
misura, facendogli capire che non è meno che subire una
pena, e che forse è anche più impegnativo, per certi
aspetti. Però è certamente un grande impegno per lo Stato
ma è anche un investimento contro la recidiva, che può
essere decisivo in molti casi.
Ora
nel minorile tra l’altro non soltanto si può parlare di
questo esempio con la messa alla prova, ma si può parlare
anche dell’irrilevanza del fatto, e certamente ci sono
stati gli esempi più importanti di mediazione penale in
Italia. Tra l’altro esistono dei centri di mediazione
della giustizia minorile in Italia che hanno avuto un
notevole impatto e sono composti da persone che
rappresenteranno il nucleo più importante degli operatori
della mediazione in Italia. Non solo e non soltanto
giuristi. Si realizza questa integrazione di cui si è
parlato anche stamani e che è molto importante, quindi in
questo caso non soltanto la giustizia non è solo
giurisdizione ma nemmeno la giurisdizione è fatta soltanto
dai giuristi, ci sono anche altri soggetti per coinvolgere
la società. Ma poi nel campo esecutivo l’esempio che si
può fare è quello dell’art. 47 dell’ordinamento
penitenziario, che testualmente ci dice che nel verbale –
perché qui si tratta dell’affidamento in prova al
servizio sociale come sapete – nel verbale si deve
stabilire che l’affidato si adoperi per quanto possibile
in favore della vittima del suo reato e adempia puntualmente
agli obblighi di assistenza familiare.
Quindi
anche qui il rapporto con la vittima e il riconoscimento
della propria colpa, quindi mediazione in questo senso,
messa in comunicazione, questo è il concetto. Io parlo del
concetto classico della mediazione non soltanto nella
giustizia penale ma anche in quella civile. Questo non
significa, come appunto dicevamo, giungere ad una visione
privatistica della giustizia, perché se no si arriverebbe
al discorso di trasferire soltanto nei rapporti tra privati
un conflitto che invece nasce dalla violazione di una legge
dello Stato. E questa però è un’altra delle tendenze che
in qualche modo in alcune parti del mondo si diffondono,
perché anche la componente della privatizzazione della
giustizia è presente in questo momento. Oggi poi abbiamo
però come ultimo livello d’intervento quello del giudice
di pace, giudice di pace che ha nella sua legislazione anche
per i reati che sono perseguibili a querela, quindi per quel
tipo di reati per i quali si può proporre il paradigma dei
sistemi angloamericani o di quella scuola, per i quali si può
interrompere l’azione penale, una norma che permette al
giudice di inviare le parti alla mediazione e qui siamo in
un campo di mediazione classica.
Il
mondo della mediazione è quindi molto variegato, c’è
questo aspetto del contatto tra le persone,
dell’appagamento del senso di giustizia della vittima, ma
ci sono molte altre cose in più. C’è il profilo della
autoresponsabilizzazione, della retribuzione, che lo rende
come un meccanismo non utopistico ma praticabile, perché
l’unica cosa di cui possiamo essere certi è che se non
realizzeremo con grande sapienza e avvalendoci di coloro che
già oggi sono in grado di essere una risorsa in questo
campo, se non realizzeremo un sistema nel quale oltre ad un
generico desiderio di riconciliazione avremo anche un
sistema efficace di retribuzione non ci sarà nessun futuro
per la mediazione come alternativa alla sanzione penale e si
possono produrre dei disastri, perché le utopie se vengono
imposte diventano delle tragedie, questo ce lo dobbiamo
ricordare. Ma dobbiamo essere consapevoli che invece la
mediazione non è un’utopia intesa almeno nel senso nel
quale ho cercato di illustrarla, ma è uno strumento molto
sofisticato e molto utile che può porre le basi per
un’alternativa praticabile alla sanzione penale. Purché
ci sia alle spalle una struttura, e una risorsa umana
soprattutto, che la sappia far funzionare.
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Marcello Marinari
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