Prima di tutto un saluto a chi conosco e alle persone che per la prima volta incontro, con una sottolineatura del mio piacere di essere qui come provveditore regionale, funzione che ho già svolto in Basilicata, una piccola realtà un po’ isolata, anch’essa con delle peculiarità di grande interesse, ma con lo spirito d’avventura che ha sempre connotato la mia vita professionale –  il dott. Di Gennaro mi ha sempre definito “Pasionaria” – che mi ha sempre contraddistinto affronto una nuova avventura professionale in una regione così ricca, così vitale, che forse mi potrà anche insegnare tanto. Quello che dirò sono semplicemente dei flash, forse anche provocatori, e che non toccano certamente la realtà della Toscana ma potrebbero riguardare diverse realtà concrete.

Io ho sempre guardato e guardo all’amministrazione penitenziaria partendo da affermazioni assiomatiche di valore. Noi abbiamo una norma penitenziaria bellissima che potremmo forse migliorare ancora lavorando in particolare sugli articoli che riguardano il lavoro penitenziario – mi viene da dire ricordando quello che ha appena detto Di Gennaro che secondo me bisogna investire su quegli articoli cambiandoli e migliorandoli – io credo però che sia una norma veramente eccezionale anche nel panorama europeo e poi soprattutto alla luce del nuovo regolamento di esecuzione del quale vediamo gli artefici, il presidente Margara, Corleone… Anch’io ho dato un piccolo contributo a voi in quel lavoro, e non posso che affermare che è un’ottima norma che forse, come altre volte mi è venuto di dire, ha alzato molto il  bersaglio senza però  regolare il tiro. Gli operatori penitenziari, l’amministrazione penitenziaria è restata, malgrado il crescere qualitativo della norma, assolutamente – scusatemi l’affermazione un po’ rude – assolutamente autoreferenziale. Io penso che l’amministrazione si sia attestata troppo spesso su un burocratese autoreferenziale che è stato sempre motivato, anche correttamente, da una situazione d’impasse generalizzata dovuta a quella sovrappopolazione penitenziaria che ben conosciamo, nell’agosto 2006 c’erano 64 mila detenuti e 48 mila in misure alternative e forse allora la motivazione degli operatori a non poter fare era giustificata in parte.

Dopo l’indulto noi abbiamo una nuova scommessa, quella di riprendere in mano l’ordinamento, di riprendere in mano quelle competenze così chiaramente distinte e indicate nell’ordinamento, e che fanno capo sia al paradigma retributivo che a quello trattamentale che a quello riparativo. E tutti insieme dobbiamo ripercorrere secondo me l’ordinamento, rileggerlo, io credo che al di là di tantissima formazione che l’amministrazione ha dato in questi trent’anni troppo spesso si è parlato di managerialità e troppo poco di ordinamento penitenziario. Quindi io credo che bisogna cominciare da questo, l’indulto ci dà la possibilità non di fermarci e poi adattarci a non fare, ma di riprendere fiato e riconsiderare – e saremmo molto colpevoli come amministrazione se perdessimo questa scommessa. Io sono fondamentalmente un’ottimista, credo che bisogna e si può cambiare, bisogna realizzare quella norma che definisco quasi perfetta, e che ahimè per colpa di tutta una serie di motivazioni invece non ha trovato compimento. Credo che possiamo dire che l’amministrazione penitenziaria ha assunto un atteggiamento reattivo, ci siamo posti in una posizione difensiva, dove abbiamo portato come titolo per il nostro non poter fare tutta una serie di motivazioni che poi in effetti non trovano poi un fondamento assoluto.

Io credo che una delle cose fondamentali in questi trent’anni della riforma sia il fatto che si sono persi i significati. Si è perso il significato di quello che è il dettato normativo, si è perso il significato, al di là dei momenti celebrativi, di quello che significa effettivamente diritto del detenuto al trattamento, diritto ben chiarito anche dalla nota sentenza della Cassazione, si è perso quasi subito il significato di individualizzazione del trattamento, come ho più volte scritto anche nelle circolari emanate dal 2003 in poi. Ormai purtroppo nella larga parte degli istituti penitenziari sul territorio nazionale si intrattiene il detenuto, non si tratta. E la differenza fra intrattenimento e trattamento passa attraverso un concetto di individualizzazione così ben definito dalla norma a cui non abbiamo saputo dare una giusta collocazione, e che per me è strettamente legato a un concetto di responsabilizzazione del detenuto rispetto a un suo percorso di cambiamento. Questo significa che troppe volte noi abbiamo assecondato la passività del detenuto, in una sorta di buonismo certe volte, in una sorta di sentimento di non essere adeguati a rispondere a questo compito, ma troppo spesso abbiamo lasciato il detenuto assolutamente passivo a rispondere a dei rituali penitenziari che spesse volte sono anche irragionevoli.

Un esempio per tutti: se trattamento significa lasciare che i detenuti stiano nelle loro celle in pigiama la mattina, secondo me è già un segno di quello che non sappiamo fare. Già trattamento potrebbe essere sfidare il detenuto ad assumere su di sé la propria capacità, la propria dignità e veramente prendere in mano la sua vita, partendo da queste piccole cose. E su queste piccole cose, io ho detto tante volte alla polizia penitenziaria, s’incontrano inevitabilmente questi due aspetti che abbiamo voluto allontanare nelle dichiarazioni ideologiche o quant’altro, della sicurezza e del trattamento. Perché quale polizia penitenziaria si può sentire adeguata se fa solo mera custodia, se non prende in mano quella che è una capacità che peraltro è sancita anche dalle nuove norme che riguardano le competenze della polizia penitenziaria, anche nell’ambito del trattamento? Quindi c’è questa perdita di significato, dobbiamo ritrovare il significato della norma nella nostra quotidianità operativa, dobbiamo cercare più che l’apparenza i risultati.

Noi dobbiamo cercare di incentivare dei processi valutativi seri che dimostrino alla comunità che la pena, sia essa detentiva sia soprattutto misure alternative, con la gradualità che la legge ha così ben definito, può produrre un risultato, ma lo può produrre non solo sulle spalle degli operatori penitenziari, lo può produrre soltanto se andiamo a realizzare quello che veniva così ben sintetizzato dal nostro ospite straniero in quel grafico con la rete di collegamento fra i vari soggetti istituzionali, la forte sinergia tra politica penitenziaria e politica sociale. Bisogna sviluppare in ambito regionale una politica penitenziaria chiara, riunendo la frammentazione fra i vari istituti e servizi in un unico linguaggio politico da coniugare con quello della Regione. Bisogna veramente fare insieme politica penitenziaria e politica sociale, non possiamo scoprire il problema dell’ex detenuto, di chi esce dal carcere soltanto quando c’è l’indulto. Se è vero che sono uscite venti, trentamila persone con l’indulto, ci dimentichiamo che ogni anno escono dal carcere circa 48 mila persone, una al giorno, due al giorno, ma escono dal carcere e nessuno se ne occupa. Quindi dovremmo riattivare il famoso art. 43, dovremmo riattivare tutta una serie di modelli operativi che siano validi, che siano efficaci.

Ecco, io credo che da fare ne abbiamo tanto, anche senza cambiare niente della legge. Quindi trattamento e non intrattenimento, un richiamo forte agli operatori a mettersi in una posizione pro-attiva per fare in modo che anche i detenuti si mettano in una posizione pro-attiva. Un discorso poi abbastanza importante sulle misure alternative. Un mondo a me particolarmente caro perché l’ho diretto per dieci anni e quindi non posso fare finta di non conoscere, di non prenderlo sul serio nelle sue defaillances, nei suoi limiti. Le misure alternative hanno segnato il passo vuoi per mancanza di strumenti di strutture, questione ancor oggi peraltro sottovalutata forse, il problema è al di fuori degli operatori, è quello della massificazione degli istituti giuridici che si riferiscono al sistema penale esterno. Oggi come oggi se parliamo di affidamento, detenzione domiciliare, semilibertà, art. 21, sembra quasi che siano le stesse cose, e non solo nell’immaginario collettivo ma ahimè anche negli operatori e ahimè anche nell’amministrazione di sorveglianza. Quindi bisognerebbe ridare a ciascun istituto giuridico la sua peculiarità e ricostruire un sistema di gradualità.

L’ultima cosa su cui mi chiamava a parlare il moderatore, la mediazione. Lascio lo spazio all’amico Marinari per la presentazione della tematica che lui certamente ben rappresenterà, io come presidente della commissione mediazione penale e giustizia riparativa, che ancor oggi è in piedi presso il Dipartimento, sto lavorando su questa tematica, quindi semmai nel dibattito potrò aggiungere alcuni aspetti di interesse operativo per l’amministrazione nostra, ma voglio anticiparvi che io sto lavorando abbastanza su due fronti. Quella della vittima, di cui abbiamo ampiamente parlato. La vittima in Italia non esiste, non ha soggettività, non ha voce se non davanti ai microfoni dei media che assillano e cristallizzano la sofferenza e l’emozione dell’impatto del crimine o nei momenti di ritorno emotivo nelle varie fasi del giudizio. La vittima però non può oggi ritrovare significato in Italia solo perché un reo vuole riparare. Su questa affermazione molto assiomatica io sto lavorando e con il prof. Manconi il nostro sottosegretario e anche col capo dipartimento perché o l’Italia recepisce, crea norme e regolamenti di tutela della vittima accogliendo la risoluzione del 2006 che definisce con molta chiarezza quali sono i diritti della vittima, oppure in effetti noi non possiamo fare quasi nulla.

Oggi esistono soltanto leggi di settore, la legge sulle vittime della criminalità mafiosa o dell’usura, ma sono tutte leggi che si riferiscono a dimensioni di monetizzazione del danno, ma che non collocano la vittima quale soggetto che abbia una voce, che abbia diritto all’informazione, diritto di essere ascoltata, diritto di trovare un sostegno economico e psicologico, direi anche un diritto a ricevere un’offerta di mediazione. Se noi non creiamo questo percorso di soggettività della vittima noi faremo un gran danno alla vittima e provocheremo una vittimizzazione secondaria secondo me estremamente grave. Quindi su questo sto lavorando e spero – anche col Garante, perché ci sono anche problemi di tutela della privacy della vittima, che non si può andare a chiamare solo in virtù del fatto che un reo vuole riparare. Bisogna ricorrere a forme di riparazione indiretta – ce lo dirà il relatore dell’Ispac – e altre forme indirette, dove non si prevede il consenso o la presenza della vittima.

Altro aspetto su cui sto lavorando è quello di sperimentare modelli nuovi di giustizia riparativa e mediazione penale e sociale, intendendo necessario, per questo percorso di garanzia e di costruzione della soggettività della vittima, costruire dei luoghi dove la riparazione e la mediazione può essere fatta, nell’ambito di quei criteri e di quei quesiti che i documenti internazionali chiaramente espongono.

                                                   Maria Pia Giuffrida 
                                         

    


                                                  

 
 

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