Di
diritti umani, nella nostra epoca, si parla molto.
I
capi di Stato e di governo li ricordano continuamente e ad
essi si fa richiamo per giudicare la qualità politica delle
Nazioni, distinguendole fra buone e cattive.
Negli
Stati Uniti d’America – dove già nel 1917 il Presidente
Wilson aveva menzionato i diritti umani violati per
giustificare l’intervento in guerra – su di essi si è
progressivamente accentrata l’attenzione popolare e dei
politici al punto da indurre il Congresso a richiedere al
Dipartimento di Stato una relazione annuale, estesa e
completa (a full and complete report) sullo stato e le
pratiche dei diritti umani nel mondo.
La
prima relazione, che è stata presentata al Congresso nel
1977, includeva 82 Stati, mentre le relazioni successive al
2000 coprono, praticamente, tutto il pianeta.
Sulla
base di questi resoconti il Congresso decide se offrire o
negare aiuti economici e preferenze commerciali.
Anche
nelle valutazioni politiche dell’Europa Unita
l’argomento non è certo secondario, come dimostra
l’attenzione ad esso rivolta durante le procedure di
accesso dei Paesi terzi.
Che
il tema sia divenuto di primaria importanza agli occhi del
mondo lo dimostrano gli apparati di monitoraggio e di
controllo che sono stati creati a livello della
Organizzazione delle Nazioni Unite e delle associazioni
regionali di Stati.
La
concentrazione di così vasti interessi ha, inevitabilmente,
suscitato riflessioni che vanno oltre gli aspetti meramente
giuridici per estendersi all’etica e alla politica.
Questo
spiega, in parte, perché il relativo approfondimento
giuridico, alla ricerca di una appropriata definizione, non
ha avuto grande spazio, trovandosi il diritto inserito in un
concerto a più voci dove, frequentemente, esso viene
surclassato da altri importanti valori.
Una
esplorazione fra le definizioni correnti conferma la loro
vaghezza concettuale. A titolo di esempio, se ne riportano,
di seguito, alcune fra le più accreditate..
Secondo
l’ ‘Human Rights Resource Center’ “i diritti umani
sono quegli standard basilari senza dei quali le persone non
possono vivere con dignità. Violare i diritti umani di un
individuo vuol dire trattare quella persona come se non
fosse un essere umano. Affermare i diritti umani significa
richiedere che la dignità della persona sia rispettata.”
Nell’
‘American Heritage Dictionary’ si legge “diritti e
libertà fondamentali spettanti a tutti gli esseri umani fra
i quali, spesso, si includono il diritto alla vita e alla
libertà, la libertà di pensiero e di espressione e
l’uguaglianza di fronte alla legge.”.
L’
‘Enciclopedia Britannica’ afferma: “diritti che
appartengono all’individuo come conseguenza di essere
umano…secondo l’odierno intendimento essi attengono a
una vasta varietà di valori e capacità che riflettono la
diversità delle circostanze e della storia umane.”
L’
‘Enciclopedia della Storia Americana’ afferma: “ il
concetto di diritti umani si è evoluto nel tempo e i vari
Paesi hanno sottolineato differenti aspetti dei loro
principi e della loro politica.”
Per
l’ ‘Utopic Onlus’.” Dal punto di vista giuridico
essi sono un insieme dei diritti che consuetudini e trattati
internazionali attribuiscono, in linea di principio, ad ogni
persona.”
La
Chiesa Cattolica, pur avendo sostenuto da sempre il rispetto
della dignità umana, ha fatto riferimento al concetto di
‘diritti umani’ solo di recente per sottolinearne i
valori etici e politici.
Ne
parla per la prima volta nel 1963 Giovanni XXIII
nell’Enciclica ‘Pacem in terris’ dove, testualmente,
è scritto: “non ci può essere pace senza giustizia e,
quindi, un discorso sulle regole deve, necessariamente,
muovere dalla cultura dei diritti umani”.
Dopo
di lui Giovanni Paolo II
fa continuo appello a questi valori. Li ricorda nel
messaggio del 2 dicembre 1978 affermando che “la dignità
della persona trova ‘diretta sorgente’ nei diritti
umani”. Ne parla nel messaggio dell’ottobre 1979 alla
Corte e alla Commissione Europea per i Diritti dell’Uomo
dove si legge che è sulla “nozione di dignità della
persona che poggia il fondamento delle diverse categorie dei
diritti dell’uomo”.
Nell’allocuzione
alla 34° Assemblea Generale dell’ONU del 2 ottobre 1979
accenna alla “minaccia sistematica contro i diritti
dell’uomo”.
Nel
messaggio del 21 dicembre 1981 ribadisce: “una società
politica non può effettivamente collaborare alla
costruzione della pace internazionale se essa non è
pacificata, cioè se al proprio interno essa non prende sul
serio la promozione dei diritti umani”.
Nell’Enciclica
‘Sollicitudo rei socialis’ del 1987 sottolinea “ la
necessità di uno sviluppo che rispetti e promuova i diritti
umani personali, sociali, economici e politici”.
Nel
discorso al Congresso Mondiale sulla Pastorale dei Diritti
Umani del luglio 1998 lamenta le”‘disuguaglianze
economiche come autentico scandalo che ostacola in modo
molto grave il pieno esercizio dei diritti umani”.
Ancora
ai membri della ‘Fondazione Centesimus Annus’, il 19
maggio 1998, indica la “necessità di lavorare per una
cultura delle regole, che non guardi soltanto agli aspetti
commerciali, ma si faccia carico della difesa dei diritti
umani in tutto il mondo”.
Infine,
nel messaggio del dicembre 1998, ammonisce che “nessun
diritto umano è sicuro se non ci si impegna a tutelarli
tutti”.
Con
assoluta continuità Benedetto XVI, il primo gennaio di
quest’anno, durante la celebrazione della Giornata della
Pace, esorta la comunità internazionale a “congiungere i
propri sforzi perché, in nome di Dio, si costruisca un
mondo in cui gli essenziali diritti dell’uomo siano da
tutti rispettati”, e osserva che una vera e stabile pace
presuppone il rispetto dei diritti umani”.
Molte
altre citazioni di autorità politiche e religiose si
potrebbero aggiungere ma quanto fin qui esposto sembra
sufficiente per concludere che il rispetto dei diritti umani
è ritenuto, da coloro che nel mondo democratico guidano gli
uomini e le coscienze, una esigenza assoluta.
Tutti
quelli che ne parlano convengono sulla loro importanza, ne
intuiscono l’oggetto senza, però, riferirsi ad una
identificazione dalle precise connotazioni giuridiche.
Ci
troviamo di fronte a uno di quei casi di concezione ad
oggetto sfumato, di cui si avverte il valore positivo e
sulla quale, quindi, si concorda anche se manca una precisa
definizione.
Ciò
non preoccupa fino a quando si fa uso politico del termine,
poichè la politica vive di approssimazione se non di
ambiguità.
Non
è lo stesso, invece, quando si tratta di questioni
giuridiche perché anche se è vero che “omnis definitio
in jure pericolosa, parum est enim ut subverti non posset
(nel campo del diritto ogni definizione è pericolosa perché
è difficile che non possa essere sovvertita), come avverte
Giovaleno (D.50.17.102)- non può dubitarsi che il diritto
richiede la chiarezza della cosa di cui si discute.
Occorre,
quindi, pervenire a una definizione perché solo dopo aver
definito chiaramente di quali diritti si tratti è possibile
verificare se essi siano adeguatamente tutelati.
Questo
intervento ambisce a fornire un contributo all’impegno
definitorio di questo oggetto grave e sfuggente senza
pretendere, tuttavia, di
giungere a un risultato finale e incontestabile. Esso potrà,
in ogni modo, rappresentare un parametro di riferimento, un
elemento dialettico, con cui confrontarsi.
Nell’intraprendere
il compito va, preliminarmente, osservato che la lingua
italiana e le sue consorelle neo-latine non ne agevolano
l’adempimento.
Nella
nostra lingua il termine ‘diritto’ indica sia un potere
attribuito a un soggetto, sia il sistema di norme da cui
detto potere discende. Pertanto si parla ugualmente, per
fare un esempio, di diritto di proprietà, per indicare la
potestà di un soggetto su un bene, come di diritto pubblico
per significare l’intero ordinamento giuridico attinente
alla cosa pubblica (quod ad statum rei publicae pertinet).
Ugualmente
in latino il vocabolo ‘jus’ vale per indicare ambedue
gli oggetti.
Non
è così, invece, in altre lingue, come in inglese, dove
‘right’ sta per diritto individuale e ‘law’ sta per
sistema normativo.
La
promiscuità terminologica della lingua italiana agevola
errate opinioni, almeno fra i non specialisti, come quella
che fa derivare i diritti umani dal diritto naturale (quod
natura omnia animalia docuit) affermando che essi sono già
in natura configurati come precetti normativi operanti
nell’ordinamento degli Stati.
Il
collegamento fra i diritti umani e il diritto naturale
certamente esiste ma non nel senso che il diritto naturale
già possegga in se stesso precetti vincolanti, propri del
diritto positivo, ma che esistono nell’ordine della natura
e, quindi, nel momento pre-giuridico, esigenze non
disconoscibili, le quali, secondo i diversi orientamenti
culturali e religiosi, si ritengono espressione di
determinati valori.
Queste
esigenze si atteggiano come un imperativo morale dettato ai
legislatori e ai detentori del potere perché li rivestano
con l’autorità della legge e li facciano rispettare
coattivamente.
E’
corretto, quindi, affermare che il diritto
naturale non è diritto, tanto nell’accezione della
locuzione inglese ‘law’ quanto in quella di ‘right’,
ma è solo il fondamento di esso.
A
questa corretta concezione ha aderito il Papa Benedetto XVI
quando, nel citato discorso ha accennato al ‘fondamento
naturale dei diritti umani.
L’aggettivo
‘umani’ non va inteso come indicativo di diritti
pertinenti all’uomo per differenziarli da diritti
attribuiti ad altre entità.
Con
la chiarezza tipica dei giuristi latini Giustiniano ci
tramanda nel Digesto (1.5.2.) la massima: “hominum causa
omne jus constitutum est” per significare che il
destinatario delle norme giuridiche è sempre l’uomo anche
quando esse sono dirette, per esempio, alla tutela degli
animali o dei defunti.
Quindi
l’aggettivo ‘umani’, che preso alla lettera sarebbe un
pleonasmo, ha una funzione rafforzativa che qualifica la
primaria importanza dell’oggetto.
Qualche
volta si confonde l’espressione ‘diritti umani’ con
quella di ‘diritto umanitario’. Si tratta di un
equivoco: il diritto umanitario attiene alle leggi e alle
consuetudini della guerra, tanto che esso è conosciuto
anche come ‘legge della guerra’ o ‘legge dei conflitti
armati’ in quanto definisce le condotte e le responsabilità
della Nazioni belligeranti e neutrali nonché degli
individui che combattono. Tale diritto si è basato,
originariamente, sulle Convenzioni di Ginevra del 1864 e
dell’Aja del 1907 a cui sono seguiti vari altri trattati,
poi incorporati nelle’ Quattro Convenzioni di Ginevra’
del 12 agosto 1949, che sono state successivamente
arricchite da vari protocolli.
Vero
è che alcune disposizioni di queste Convenzioni riguardano
il trattamento e la protezione dei prigionieri di guerra e,
come tali, possono entrare nella definizione di ‘diritti
umani’. E’’ quindi, appropriato sostenere che
nell’ambito del diritto umanitario sono contemplati anche
diritti umani ma non è altrettanto corretto confondere le
due sfere giuridiche.
I
precedenti storici.
Dalla
storia dei diritti umani, o meglio, dalle opinioni correnti
su questa storia, si ricavano elementi utili alla
definizione.
Ne
faccio rapido cenno.
Alcuni
ne fanno risalire l’origine a Ur-Nammu, re di Ur, che nel
2050 a.C. emanò quello che si conosce come il primo testo
di leggi scritte. Altri risalgono al codice di Hammurabi,
datato a circa il 1780 a.C.. Altri, ancora, fanno
riferimento al Cilindro di Ciro- scoperto nel 1879- che fu
scolpito nel 539 a.C.
Anche
se in uno di questi, e cioè nel Cilindro di Ciro, si
rinvengono alcune norme che, secondo la definizione a cui
perverrò, possono qualificarsi diritti umani, propendo per
ritenere che le su accennate opinioni riflettano la
concezione di chi ritiene che la legge scritta, quindi, la
garanzia della certezza del diritto positivo, sia da
identificarsi con la salvaguardia dei diritti umani.
L’esistenza
del diritto positivo e le garanzie offerte dalla legge
scritta si atteggiano come un ‘genere’ rispetto alla
‘specie’ diritti umani, pertanto non vi é coincidenza
fra essi ma solo il rapporto che esiste fra contenitore e
contenuto.
Secondo
la definizione a cui si perverrà, come vedremo,si può
parlare di diritti umani solo quando i beni tutelati sono
offesi dall’autorità.
Nella
rassegna che segue ci si limita, pertanto, a ricordare quei
precedenti che hanno questa componente.
Nel
1215, sotto la pressione del Papa e dei baroni inglesi, che
chiedevano al sovrano di rinunciare a certi diritti,
rispettare certe procedure legali e accettare che il suo
volere fosse condizionato dalla legge, il re Giovanni Senza
Terra emanò la ‘Magna Carta’ che, a ragione, può
essere considerata un antecedente storico dei diritti umani.
Essa conteneva norme regolatrici del potere sovrano e di
rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini. La ‘Magna
Carta’ è una vera e propria legge positiva che avrebbe
potuto segnare uno straordinario progresso sulla via della
democratizzazione se fosse stata rispettata come, purtroppo,
non avvenne. Tuttavia essa ha costituito un precedente che
ha avuto influenza anche a distanza di secoli.
Bisogna
guardare ancora all’Inghilterra per trovare un altro
evento di grande significato nella storia dei diritti umani.
Il
7 giugno del 1628 i membri puritani del Parlamento, fra i
quali sedeva il giovane Oliver Cromwell, si accordarono per
presentare una petizione al re Carlo I perché si impegnasse
a far cessare gli abusi del potere reale.
Seguirono
molte turbolente vicende che sfociarono nella guerra civile.
Nel
1649 il re fu giustiziato e Cromwell fondò la Repubblica
assumendo il titolo di Lord Protettore.
Quando
fu ristabilita la monarchia sia Carlo II che Giacomo II
tornarono agli antichi abusi, fino a che, nel 1689, il
Parlamento prevalse riuscendo ad adottare la prima legge
inglese, redatta dai rappresentanti del popolo, che
garantiva il rispetto dei diritti umani contro l’abuso del
potere.
La
legge, a cui fu dato il lungo titolo ‘An act declaring the
rights and liberties of the subject and settling the
succession of the Crown’, viene ricordata come ‘The Bill
of Rights’:
Questo
evento fu l’epilogo della lunga lotta che si svolse nel
secolo XVII fra la dinastia degli Stuart e il Parlamento.
La
conquista ebbe immediata risonanza e seguito tanto che
subito dopo il Regno separato di Scozia emanò il ‘Claim
of Rights’ il quale, sia pure con diversa formulazione,
provvedeva ugualmente a controllare gli abusi di potere e a
garantire i diritti dei cittadini di fronte ad esso.
A
distanza di quasi un secolo, nel 1776, gli Stati Uniti
d’America, nel sottrarsi al dominio inglese, proclamarono
la ‘Dichiarazione di Indipendenza’ in cui era
scritto:”Tutti gli uomini sono creati uguali e sono dotati
dal loro Creatore di certi diritti inalienabili fra i quali
la vita, la libertà e il perseguimento della felicità”.
La
Dichiarazione di Indipendenza, che ben a ragione è
considerata la più avanzata manifestazione di progresso
democratico del tempo, mostra, tuttavia, i limiti del
livello di civilizzazione e di sensibilità dell’epoca.
Mentre, infatti, si proclamava che “tutti gli uomini sono
creati uguali” si manteneva la schiavitù e non sin
riconosceva uguaglianza di diritti alle donne.
Trascorreranno
altri undici anni prima che il nuovo Stato indipendente si
desse una Costituzione. Ciò avvenne in Filadelfia il 17
settembre 1787.
All’entusiasmo
per l’adottata Costituzione seguì, subito, un
ripensamento suscitato da quei politici che constatarono
come nella legge primaria dello Stato mancassero previsioni
dirette ad affermare e garantire i diritti fondamentali dei
cittadini.
Fu
così che, meno di due anni dopo la promulgazione della
Costituzione, il 25 settembre del 1789, si ebbe il primo
emendamento che modificò gli articoli da 3 a 12
introducendo le volute garanzie. Questi dieci nuovi articoli
presero anch’essi il nome di ‘Bill of Rights’.
Nello
stesso anno, in Francia, l’Assemblea Nazionale
Costituente, formata nella prima fase del movimento
rivoluzionario, varò il testo della ‘Dichiarazione dei
diritti dell’uomo e del cittadino’ che conteneva
l’elenco dei diritti fondamentali inviolabili.
Dopo
aver proclamato l’eguaglianza fra tutti gli esseri umani,
la Dichiarazione prosegue elencando i predetti diritti e,
nel regolare i rapporti fra i cittadini e lo Stato,
introduce il principio basilare della legalità in materia
penale
Come
è noto, la ‘Dichiarazione dei diritti dell’uomo’ è
divenuta il testo di riferimento per i vari movimenti
nazionali a sostegno della democrazia e dello Stato di
diritto.
L’età
contemporanea.
Ricordati
i momenti salienti della storia antica e moderna si può,
ora, volgere lo sguardo all’età contemporanea.
Nella
prima metà del secolo XX l’umanità ha conosciuto oltre a
due guerre mondiali le spietate persecuzioni dei regimi
totalitari contro individui inermi colpevoli soltanto di
esistere.
La
cultura e i valori anche di quei popoli che una storia
millenaria aveva guidato verso mete avanzate di civiltà
sono stati travolti nel nome di aberranti ideologie che
hanno aperto la strada ad efferati eccidi e alla violazione
di tutti i diritti che afferiscono alla dignità
dell’uomo.
Quando,
finalmente, è cessato il fragore delle armi il mondo intero
ha guardato, sgomento, al disastro che la bestiale follia
aveva cagionato con la sua violenza devastante e ha giurato
di vigilare perché un simile scempio non dovesse più
ripetersi.
La
formalizzazione solenne di questo impegno è stata celebrata
il 26 giugno del 1945 quando i rappresentanti dei Paesi dei
quattro continenti, riuniti a San Francisco, hanno adottato
la ‘Carta delle Nazioni Unite’ proclamando l’impegno
di ‘salvare le future generazioni dal flagello della
guerra’ e riaffermando ‘la fede nei diritti umani
fondamentali, nella dignità e nel valore della persona
umana, nell’uguaglianza di diritti degli uomini e delle
donne e delle Nazioni grandi e piccole..’
E’
apparso, così, per la prima volta in un
documento internazionale il richiamo ai diritti umani.
Successivamente,
il 10 dicembre 1948, essa assume grande risalto poiché la
più solenne Dichiarazione delle Nazioni Unite viene
intitolata:’Universal Declaration of Human Rights’.
Questo atto, non avendo forma di Convenzione, è un
documento privo di forza giuridica ma il suo valore morale
è tale che ad esso si sono ispirati e si sono riferiti gli
strumenti pattizi internazionali, anche regionali,
da cui discendono le obbligazioni degli Stati Parte
nella materia.
I
principi esaltati nella Dichiarazione sono stati, nel
dicembre 1966, ribaditi in due Convenzioni internazionali
adottate dall’Assemblea Generale e di cui sono divenuti
parte, praticamente, tutti i Paesi del mondo: la
‘Convenzione Internazionale sui diritti civili e
politici’ e la ‘Convenzione internazionale sui diritti
economici, sociali e culturali’.
L’insieme
dei tre documenti ONU viene indicato come ‘The
International Bill of Rights’.
Si
è aggiunto, poi, il secondo Protocollo Addizionale alla
Convenzione sui diritti civili e politici che prevede
l’abolizione della pena di morte e che è entrato in
vigore l’11 luglio 1991.
Dall’
International Bill of Rights hanno tratto ispirazione, oltre
alla Convenzione Europea sui Diritti Umani, altre
Convenzioni regionali quali la ‘American Convention on
Human Rights’, adottata dall’’Organization of American
States’, entrata in vigore il 1° gennaio 1980, e l’
‘African Charter of Human Rights’, adottata dall’’Organization
of African Unity’, entrata in vigore il 27 giugno 1981.
Analoga ispirazione ha avuto la ‘Universal Islamic
Declaration of Human Rights’, adottata dall’Islamic
Council il 19 settembre del 1981.
Per
trasformare in norme imperative i principi della
Dichiarazione Universale l’Assemblea Generale dell’ONU
ha impiegato ben diciotto anni a causa della difficoltà di
mettere d’accordo Paesi appartenenti a culture diverse
L’omogeneità
culturale fra gli Stati europei ha reso, invece, possibile
al Consiglio d’Europa di agire con grande celerità
sopravanzando le Nazioni Unite. Infatti la ‘Convenzione
Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle
Libertà Fondamentali’ è stata aperta alla firma a Roma
il 4 novembre 1950.
L’ispirazione
tratta dalla ‘Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo’ delle Nazioni Unite è esplicitamente
affermata nel preambolo.
Alla
Convenzione Europea hanno fatto seguito alcuni Protocolli
addizionali fra i quali, quelli che qui interessano, il I°
del 20 marzo 1952, il IV° del 16 settembre 1963, il VI°
del 28 aprile 1983 e il VII° del 22 novembre 1984.
La
sequenza temporale di questi strumenti europei, così come
la sequenza degli strumenti ONU in tema di diritti umani,
offrono spunti interessanti nella ricerca di una definizione
che vada oltre le generiche affermazioni sulla loro
importanza
La
definizione: l’autore della violazione.
Premesso
che vi è accordo nell’includere fra i diritti umani beni
essenziali, quali la vita e la libertà, possiamo affermare
che i reati comuni di omicidio e di sequestro di persona,
che il nostro codice colloca sotto il titolo dedicato ai
reati contro la persona e che possono essere commessi da
chiunque, sono, di per sé, violazione di diritti umani?
Commettono
violazione di diritti umani i delinquenti per passione o per
finalità di lucro che uccidono o sequestrano?
Certamente
no e la storia dei diritti umani ce lo insegna.
La
storia dei difensori dei diritti umani, la storia dei
movimenti che li hanno sostenuti e affermati, la storia
delle leggi che li hanno contemplati e da cui si sono
generati gli strumenti internazionali, prima citati,
indicano chiaramente che si parla di diritti umani quando la
violazione dei beni fondamentali, a cui fanno riferimento le
auliche definizioni, di cui ho riportato una selezione, è
attribuita al comportamento dell’autorità.
Gli
omicidi voluti dal dittatore, l’arbitraria privazione
della libertà da parte di chi esercita il potere, la
condanna senza le regole del giudizio, la tortura degli
arrestati sono fra le fattispecie criminose che ha in mente
chi parla di violazione di diritti umani.
Quando
si accusa uno Stato di questa responsabilità non ci si
riferisce al numero di reati comuni gravi, come quelli
contro la persona, che avvengono nel suo territorio, ma alla
responsabilità del potere per la violazione di diritti che,
come tutte le definizioni affermano, ineriscono alla dignità
dell’uomo.
In
altre parole può dirsi che non è solo la qualità del bene
protetto a definire un diritto umano ma anche la provenienza
della sua violazione.
Una
autorevole conferma formale di questo assunto è data dalla
Convenzione Europea che, nel prevedere la facoltà di
ricorso alla Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo,
precisa che può rivolgersi ad essa chi lamenta
“di essere vittima di una violazione da parte di
una delle Alte Parti Contraenti (leggi:Stato) dei diritti
riconosciuti dalla presente Convenzione”. Il che significa
che la Convenzione non stata voluta per tutelare i cittadini
d’Europa nei confronti di chiunque commetta omicidio,
sequestro di persona, violazione della privacy o di
qualsiasi altro interesse protetto internazionalmente. La
tutela offerta dal Trattato riguarda esclusivamente le
violazioni commesse dallo Stato e, quindi, da qualsiasi
autorità che eserciti pubblici poteri.
Analogamente
il primo Protocollo Addizionale alla Convenzione
Internazionale sui Diritti Civili e Politici, adottato e
entrato in vigore insieme alla Convenzione, e che,
evidentemente, si ispira alla Convenzione Europea, nel
prevedere il ricorso individuale al ‘Comitato dei Diritti
dell’Uomo dell’ONU, così specifica nell’articolo 1:
“Uno Stato Parte della Convenzione,
che diviene anche parte del presente Protocollo,
riconosce la Competenza del Comitato a ricevere e
considerare reclami di individui, soggetti alla sua
giurisdizione, i quali lamentano di essere vittime di
violazioni, da parte di questo Stato, di alcuno dei diritti
previsti dalla Convenzione”
Ulteriori
conferme si traggono da altri documenti prodotti dall’ONU.
Fra
i tanti atti che ribadiscono questa verità si fa, qui di
seguito, riferimento solamente a due che hanno valore
emblematico.
Nel
dicembre del 1975 l’Assemblea Generale ha adottato la
‘Dichiarazione sulla Protezione di Tutte le Persone
Soggette a Tortura o a Trattamenti e Punizioni Crudeli,
Inumani e Degradanti’.
La
Dichiarazione, come si legge nel suo preambolo,
è stata voluta per dare interpretazione autentica e
rafforzamento ai precetti contenuti nell’art.5 della
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e nell’art.7
della Convenzione Internazionale sui Diritti civili e
Politici, dove è stabilita la proibizione di tali
comportamenti.
Nell’art.1
dell’Atto in questione viene data la definizione di
tortura precisando che per essa “si intende qualsiasi atto
a mezzo del quale vengono intenzionalmente inflitti forte
dolore e sofferenza da parte o per istigazione di un
pubblico ufficiale…”
Nel
maggio del 1989 il Consiglio Economico e Sociale dell’ONU
ha adottato la Risoluzione sui ‘Principi per le Effettive
Prevenzione e Investigazione delle Esecuzioni Extra-legali,
Arbitrarie e Sommarie’.Anche in questo caso viene
specificato, nel preambolo, che la Risoluzione intende dare
forza alle previsioni degli Strumenti internazionali sui
diritti umani e, in particolare, si richiama l’art.3 della
Dichiarazione Universale e il paragrafo 1 dell’art.6 della
Convenzione sui Diritti Civili e Politici, dove è affermata
la inviolabilità del diritto alla vita.
Nel
testo dei principi, annesso alla Risoluzione, si stabilisce
(art:2) che “al fine di prevenire le esecuzioni
extra-legali, arbitrarie e sommarie, i Governi devono
effettuare rigorosi controlli, inclusa una chiara catena di
comando, su tutti i pubblici funzionari autorizzati dalla
legge a fare uso della forza e delle armi”.
Viene,
così, autorevolmente confermato che la violazione dei
diritti umani ricorre quando i beni protetti dalle
Convenzioni internazionali in materia sono lesi da pubbliche
autorità.
A
tal proposito va ricordata una gloria italiana: Nicola
Spedalieri, sacerdote filosofo, nato a Bronte nel 1740.
Anche se la sua memoria è stata onorata da una statua che
lo raffigura, in piazza Cesarini Sforza a Roma, pochi lo
ricordano.
Eppure
egli è stato un antesignano. A quanto risulta egli è stato
il primo a parlare di diritti umani nel senso di beni
fondamentali dell’individuo violati dall’arroganza del
potere.
Fu
Spedalieri a denunciare, nel suo libro ‘De’Diritti
dell’Uomo’, gli abusi dei regimi assoluti e il diritto
del popolo di abbattere la tirannia.
Egli
affermò la sacralità dei principi di uguaglianza e di
libertà basati sui diritti naturali.
Sulla
facciata della casa ove nacque è stata posta, nel 1878, una
lapide che ne esalta l’opera ricordando che
“rivendicando da Roma, con eroismo senza esempio, il
diritto umano e la sovranità del popolo, abbatteva la
radice delle vecchie tirannie”.
I
poteri di allora, civili ed ecclesiastici, reagirono con
preoccupazione alla denuncia della Spedalieri tanto che il
suo libro fu bandito da tutte le Corti europee e tornò in
circolazione solo nel 1860.
5-
La definizione: l’atto normativo.
Ma
il collegamento fra la violazione e il suo autore non basta
per una completa definizione.
Un
diritto in tanto sussiste in quanto è così definito dalla
legge.
In
mancanza della legge si può parlare di un interesse da
difendere, di esistenza di un ‘fondamento naturale’che
impone l’obbligo di prevedere un diritto, come ha
sostenuto Benedetto XVI, di un diritto naturale, ma non di
un diritto nel senso del termine inglese ‘right’.
La
prima volta che determinati beni sono stati indicati come
diritti umani a livello internazionale è avvenuto, come si
è avanti detto, nel 1948, con la Dichiarazione Universale
dell’ONU.
Anche
se la Dichiarazione non lo afferma esplicitamente da essa si
deduce che la comunità internazionale ha voluto, con
quell’atto, denunciare l’uso scorretto del potere e
mobilitare tutti i Paesi a proibirne e punirne
l’eventualità.
Sono
particolarmente significativi al riguardo due paragrafi del
preambolo che così recitano: “Ritenuto che è essenziale,
affinché l’uomo non sia costretto a fare ricorso, come
estremo rimedio, alla ribellione contro la tirannia e
l’oppressione, che i diritti umani siano protetti dalla
forza della legge..”.
E
ancora: “Ritenuto che gli Stati Membri si sono essi stessi
impegnati a provvedere, in cooperazione con le Nazioni
Unite, alla promozione del rispetto universale e alla
protezione dei diritti umani e delle libertà
fondamentali”.
Dopo
queste premesse la Dichiarazione elenca quelli che le
Nazioni del mondo devono considerare ‘diritti umani’
allorché la responsabilità della loro violazione, sia per
omissione, quando non si provveda a proteggerli con la
legislazione domestica, sia per commissione, quando la legge
viene infranta, risale ai pubblici poteri.
E’
la Dichiarazione, quindi, che determina l’effetto di
elevare alla categoria di diritti umani quelli che essa
menziona come tali. Al riguardo deve sottolinearsi che il
valore dichiarativo di questo Atto è di portata atemporale,
perchè la qualifica che esso attribuisce a determinati
diritti vale per il futuro come per il passato .
Se
oggi possiamo ritenere come leggi a tutela dei diritti umani
strumenti quali la Magna Carta, il Bill of Rights del 1689,
la Dichiarazione di Indipendenza, la Dichiarazione dei
Diritti dell’Uomo e del Cittadino, lo dobbiamo alla
Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
A
questo punto possiamo tentare una più articolata
definizione affermando che alla base della nozione vi sono
diritti comuni i quali, generalmente, sono riconosciuti e
tutelati dagli ordinamenti interni dei Paesi civilizzati.
Tali diritti assumono la qualità di ‘diritti umani’
quando sono sanciti da Convenzioni internazionali che
impongono la loro protezione nei confronti del potere.
Da
questa particolare origine derivano conseguenze peculiari
come l’estensione della definizione anche alle violazioni
commesse da autorità di Paesi che non sono Parte delle
Convenzioni in materia.
Altra
notevole conseguenza riguarda la tipologia dei diritti in
questione. Poiché, come si è detto, essi traggono origine
da una particolare fonte normativa, cioè dalle Convenzioni
internazionali, sono cioè creati per legge, la loro
tipologia, e anche il loro numero, possono variare con il
variare della fonte normativa.
Diritti
umani e carcere.
La
situazione in cui l’autorità può, abusando del suo
potere, ledere i diritti del cittadino sono numerose ma è
indubbio che il carcere è il luogo dove tali abusi possono
più facilmente compiersi. Nel carcere l’individuo è
posto in una condizione di assoluta dipendenza
dall’autorità che regola ogni momento della sua
quotidianità.
Il
prosieguo di questo mio intervento è dedicato a questa sola
situazione.
Comincio
con il constatare che la Convenzione europea accenna al
sistema penitenziario unicamente per affermare che ‘il
lavoro imposto a una persona detenuta’ non rientra nel
divieto del lavoro forzato.
La
stessa Convenzione contiene, tuttavia, nell’art.3, la
proibizione ‘della tortura, delle pene e trattamenti
inumani e degradanti’, che, avendo portata generale, trova
applicazione anche nel carcere.
Viceversa
la Convenzione ONU, che pur contiene analoga previsione
sotto l’art.7, si occupa anche del sistema penitenziario
nell’art. 10, là dove è sancito che:
1.”Tutte le persone private della libertà devono
essere trattate con umanità e con rispetto per la inerente
dignità della persona umana.”
2.(a)”Gli imputati devono, salvo eccezionali
circostanze, essere separati dai condannati e devono
ricevere un trattamento diverso appropriato al loro stato di
persone non condannate.”
(b)”Gli imputati minorenni devono essere
separati dagli adulti ed essere giudicati il prima
possibile.”
3.”Il sistema penitenziario deve includere il
trattamento dei detenuti il cui fine essenziale deve essere
la loro rieducazione e riabilitazione sociale.
I
detenuti minorenni devono essere separati dagli adulti e
ricevere un trattamento che tenga conto della loro età e
del loro status”.
Nel
riconoscere il merito delle Nazioni Unite si deve, però,
dare atto che esse avevano ereditato un patrimonio di
valori, a sostegno dell’umanizzazione del carcere,
accumulato nel corso del secolo precedente ad opera dei capi
dei sistemi penitenziari di molti importanti Stati, fra cui
l’Italia.
Il
testo base delle ‘Regole Minime’ era stato elaborato da
una organizzazione internazionale voluta e formata dai
predetti nel 1872, per iniziativa della Russia e
dell’America.
L’organizzazione
si chiamò prima ‘International Penal Commission’ per
divenire, poi, ‘International Penal and Prison
Commission’ e, infine, ‘International Penal and
Penitentiary Commission’.
Questa,
quando constatò che l’ONU si era assunto il compito di
trattare la materia penitenziaria, trasferì ad esso le sue
competenze e
una vasta biblioteca specializzata, che è, oggi, in Italia,
presso l’UNICRI, e si trasformò in ‘Fondazione
Internazionale Penale e Penitenziaria’.
E’
importante ricordare questa storia non solo per attribuire
il merito a chi di dovere ma anche per sottolineare che,
come sempre è avvenuto, le iniziative per migliorare le
condizioni dei detenuti muovono dagli stessi operatori
penitenziari.
Tornando
all’Europa dobbiamo domandarci come mai la ‘Convenzione
per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà
Fondamentali’ non si occupi dell’esecuzione delle misure
detentive e, quindi, della difesa dei diritti umani dei
detenuti.
Le
risposte a questa domanda possono essere diverse perché è
possibile fare varie ipotesi.
E’
molto probabile che il Consiglio d’Europa, nel cui seno
una Direzione degli Affari Penali seguiva da vicino la
gestione delle amministrazioni penitenziarie, abbia
ritenuto, al momento, non necessario imporre regole
giuridiche internazionali in un contesto dove la tutela dei
diritti umani dei detenuti trovava già rispetto nelle leggi
costituzionali e ordinarie dei Paesi aderenti.
Successivamente,
però, l’opportunità di adottare norme europee per i
sistemi penitenziari è stata avvertita, anche se ad essa si
è provveduto solo a mezzo di Raccomandazione, come dimostra
la Risoluzione del Comitato dei Ministri d’Europa del 19
gennaio 1973, contenente il testo delle’Standard Minimum
Rules for the Treatment of Prisoners’.
Il
collegamento fra queste regole e quelle precedenti
dell’ONU, che già risalta nel titolo, è esplicitamente
affermato nel testo dove, pur riconoscendo l’importanza
della normativa ONU, si osserva che dopo la sua emanazione
erano avvenuti notevoli progressi nella concezione della
politica penale e che, pertanto, fosse necessario mettersi
al passo con le idee più avanzate correnti fra gli Stati
Membri.
La
Risoluzione del 1973 ha contribuito a dar forza ai movimenti
di riforma dei sistemi penitenziari. Noi ricordiamo il
vivace dibattito, nel contesto italiano,che ha accompagnato
il percorso della riforma culminato nella legge 26 luglio
1975 n°354.
Nelle
relazioni sui testi che, via via, si sottoponevano
all’attenzione del Parlamento, e nei relativi dibattiti il
richiamo alle Regole Minime dell’ONU e del Consiglio
d’Europa era frequente.
In
questo continuo progredire i concetti di umanizzazione della
pena e di trattamento penitenziario hann acquistato sempre
maggiore chiarezza e ricchezza di contenuti tanto da
superare le mete fissate dalle esistenti Regole Minime.
Di
tanto si è reso conto il Consiglio d’Europa che è
tornato sull’argomento adottando, il 12 febbraio 1987, un
testo revisionato delle Regole a cui ha dato il titolo di
‘European Prison Rules’:
Nella
presentazione del testo si dà atto che nel Continente si
sono manifestate significative nuove percezioni sociali e
cambiamenti nella concezione del trattamento penitenziario e
che, quindi, si è ravvisata l’opportunità di”sostenere
e incoraggiare il meglio di questi sviluppi e di aprire
l’orizzonte a futuri progressi”.
Nel
preambolo si sintetizza che la finalità della normativa
consiste nel dare “rinnovata enfasi…ai precetti di
dignità umana e di impegno delle amministrazioni
penitenziarie per un trattamento umano positivo”, si
sottolinea, poi, l’importanza dei ruoli del personale e di
efficienti e moderni approcci di gestione.
Ma
pur riconoscendo la notevole influenza che questi atti
internazionali, non giuridicamente vincolanti ma carichi di
forza morale, hanno esercitato sui sistemi europei, non
possiamo non constatare che il detenuto europeo può
richiedere la tutela giuridica sopranazionale, offerta dalla
Convenzione Europea, solo se la violazione che egli denuncia
rientra nella definizione di ‘tortura o trattamenti
inumani e degradanti’.
Viceversa
lo stesso detenuto ha la possibilità di richiedere la
tutela offerta dalle Nazioni Unite (che, purtroppo, consiste
solo in un riconoscimento verbale della sua ragione) a mezzo
del Protocollo Addizionale alla Convenzione sui Diritti
Civili e Politici, anche quando ricorra alcuna delle
violazioni previste dal citato art. 10
A
questo punto c’è da domandarsi se è giusto che dopo
tanto parlare di diritti umani, quando, ormai, è condivisa
l’opinione che rispetto dei diritti umani, democrazia e
Stato di diritto sono valori coincidenti, che l’Europa non
disponga di un sistema internazionale di norme che
garantiscano la salvaguardia di tali diritti in carcere.
Non
si comprende perché l’Europa, che ha voluto sopravanzare
le stesse Nazioni Unite nell’adozione di norme patrizie
vincolanti gli Stati al rispetto della dignità dei loro
cittadini, sia rimasta indietro proprio in questo settore
che più di ogni altro è esposto alla possibilità di abusi
di potere.
E
ciò appare tanto più incomprensibile in un contesto in cui
è prevista la possibilità di trasferimento di detenuti e
di esecuzione di condanne detentive da uno Stato
all’altro.
A
mio giudizio chi si rende conto di questa carenza dovrebbe
adoperarsi a prendere iniziative di riparazione .
Occorrerebbe
sollecitare il Comitato Europeo per gli Affari Criminali,
che ho avuto l’onore di dirigere e che oggi, dopo molti
anni, è nuovamente presieduto da un italiano, ad istituire
un sotto-comitato con il mandato di preparare uno schema di
Convenzione sulla materia.
Sono
convinto che, dopo il lavoro dei tecnici,quello dei politici
completerà l’opera.
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Giuseppe Di Gennaro
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