In questo terzo millennio, in campo sociale si registra un processo di cambiamento diffuso ma confuso, e sempre più numerosi sono coloro che abbandonato i vecchi modelli ed ideali, non hanno trovato una dimensione sociale ed una prospettiva appagante e rassicurante sul futuro. La domanda di sicurezza è sempre più alta a fronte di una percezione d’insicurezza in via esponenziale di cui i mass-media sono fortemente responsabili. Da qui il rischio di una nuova chiusura rispetto alla funzione della pena ed al trattamento penitenziario dei detenuti. La vexata quaestio che vede divisi i propugnatori della pena come punizione e quelli che pongono l’accento sulla umanizzazione e rieducazione, non appare per niente risolta e rischia di volgere a favore dei primi se la percezione dell’opinione pubblica continuerà ad essere influenzata negativamente dai fatti di cronaca. Purtroppo dove non si affermano valori come la tolleranza e la solidarietà, emergono diffidenza, egoismo, competizione sociale ed individualismo, e la risposta punitiva carceraria, con inasprimento delle pene, sembra essere la più semplice e rassicurante contro gli atti di devianza. In realtà tale risposta è la più semplicistica e la meno razionale e nasconde il vero problema sulle cause della devianza e sulle misure necessarie a realizzare una sicurezza sociale più autentica e duratura.  La realizzazione di bisogni autentici e di crescita dell’essere umano, unitamente agli ideali di libertà e uguaglianza, potrebbero essere una valida risposta alla solitudine e alla sofferenza di tanti che cercano illusoriamente nel reato e nella trasgressione, una soluzione altrettanto semplicistica. Occorre sviluppare una prospettiva di cambiamento per chiunque, a vario titolo, opera nell’ambito dell’universo carcerario, per evitare che il carcere punitivo, con le sue contraddizioni, sia l’unica risposta agli errori umani.  La questione non è priva di rilevanza, posto che, in questa comunità, si consuma il bene più prezioso dell’uomo: la libertà e la possibilità di realizzare appieno la propria personalità.

La Riforma Penitenziaria avviata con la L.26 Luglio 1975 n.354 e le successive modificazioni, non avrebbero potuto conseguire particolari risultati senza la doverosa e convinta azione di sostegno di tutta l’Amministrazione Penitenziaria, portando avanti con impegno costante i principi dell’umanizzazione della pena.  Dovranno senz’altro e senza indugio, essere ancora affrontati temi importanti quali la diversità sul piano sociale, operativo, giuridico, psicologico, criminologico, che caratterizza gli abitanti del variegato e complesso mondo  penitenziario per poter trovare risposte complesse a problemi altrettanto complessi, ma la strada intrapresa con le leggi di riforma è sicuramente quella giusta e rappresenta ormai , per la cultura penitenziaria un punto di non ritorno, ma non bisogna abbassare la guardia, magari per sfiducia o per carenze di risorse.

Gli obiettivi della pena

“Non ci rendiamo conto che la libertà vale più della ricchezza, poiché senza libertà non si può essere”

 Alexander Lowen

 

Conviene partire subito dall’articolo 27 della Costituzione Italiana il quale, solennemente, afferma che ”Le pene non devono essere contrarie al senso di umanità, e devono tendere alla rieducazione del condannato…allora, qualunque trattamento di una persona in carcere, deve valorizzare proprio la sua umanità, non mortificarla. Ma cosa comporta tale principio se non la risposta ai suoi bisogni come persona?

Allora è prioritario partire dalla conoscenza dei bisogni soggettivi delle persone detenute, che guidate spesso da motivazioni estreme, per affermare il proprio suo essere nel mondo, commettono reati anche di particolare gravità. Persone spesso condizionate dalla inconscia paura di perdere la lotta per la vita, portatrici di ansie e frustrazioni che a volte sfociano nella rabbia, nell’aggressività, nella violenza verso se stessi e gli altri. Ed a giusto titolo, l’art.13 della Legge Penitenziaria n.354/75 prevede che  l’osservazione scientifica della personalità dei condannati in carcere deve essere diretta “…all’accertamento dei bisogni di ciascun soggetto connessi all’eventuali carenze fisico-psichiche, affettive, educative,  e sociali che sono state di pregiudizio all’instaurazione di una normale vita di relazione..” Sulla base dei bisogni dovranno dunque essere predisposti adeguati programmi di trattamento dei condannati per favorire il loro reinserimento sociale.

Mai come in questa disposizione normativa, il legislatore è stato più chiaro ed esplicito sulle cause che possono portare una persona a compiere azioni vietate dalla legge penale. Ed inoltre, continuando nella stessa direzione, in forza dell’art.27 della Legge Penitenziaria viene affermato che “Negli Istituti devono essere favorite e organizzate attività culturali, sportive e ricreative e ogni altra attività volta alla realizzazione della personalità dei detenuti e degli internati, anche nel quadro del trattamento rieducativo…”.

Aldilà della visione semplicistica che si può avere del carcere, è evidente che l’attuale sistema penitenziario è caratterizzato da una complessità che difficilmente trova altri esempi nella Pubblica Amministrazione. La stessa operatività del personale è quanto di più problematico si possa immaginare.

In primo luogo vengono in rilievo gli stessi obiettivi istituzionali indirizzati alla soddisfazione del bisogno di sicurezza della collettività da una parte, e dall’altra, occorre sviluppare un trattamento penitenziario informato alla umanizzazione della pena e alla  rieducazione del reo, per favorire il suo reinserimento sociale. Questa duplice natura della funzione penitenziaria, tra aiuto e controllo sociale per certi versi, contraddittoria, è di difficile convergenza.

A più di trent’anni dalla nascita della riforma penitenziaria e dall’abolizione dei manicomi, istituzioni totali per eccellenza, deputate alla segregazione ed alla cura dei devianti malati, e criminali - folli  il percorso fatto finora, seppure importante appare ben lontano dall’aver raggiunto il traguardo della trasformazione del carcere in una istituzione socializzante.

Per sua natura il carcere non può fare a meno di un potere che informa, che gestisce, dirige e coordina tutto quanto appartiene alla vita dell’istituzione stessa e dei suoi abitanti. Questo per sottolineare una criticità presente e fortemente rilevante per la riuscita di qualsiasi progetto terapeutico o pedagogico che necessita necessariamente della partecipazione attiva di tutti i soggetti in gioco: operatori e detenuti.

Soccorre in parte la comunicazione che oltre ad essere  strumento di aiuto per gli operatori, è in grado di fare da contenitore al disagio dei detenuti che trovano nella terapia della parola una risposta efficace alla solitudine della cella.

Il programma di trattamento

Nella Legge penitenziaria si afferma che all’inizio dell’esecuzione, l’osservazione della personalità è rivolta specificamente, con la collaborazione del condannato ad acquisire elementi di conoscenza per la formulazione del programma individualizzato di trattamento.

Ed è pertanto, sulla base dei dati acquisiti che viene predisposto, con la collaborazione del  condannato un programma di trattamento in cui sono previsti una serie di azioni trattamentali quali la partecipazione ad attività scolastiche, culturali, lavorative, formative, contatti con la famiglia e con l’esterno, colloqui con gli operatori ed interventi di vario genere secondo la mappa dei bisogni della persona stessa.

Inoltre, nel corso del trattamento l’osservazione della personalità è rivolta ad accertare , attraverso l’esame del comportamento del soggetto e delle modificazione intervenute nella sua vita di relazione, le eventuali nuove esigenze che richiedono una variazione del programma stesso in quanto le ipotesi trattamentali iniziali potrebbero non essere non più valide.

Ma il punto centrale dell’impianto normativo ed il suo obiettivo principale è il processo di cambiamento e di modificazione degli atteggiamenti che intende stimolare nella persona condannata, fino a portarla ad una revisione  critica della condotta.

La norma prevede infatti, all’art. 27 del Regolamento di Esecuzione, D.P.R. 30 giugno 2000 n. 230 che sulla base dei dati raccolti e del programma di trattamento deve essere affrontato con il soggetto una riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative, nonché sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato e sull’eventuale risarcimento dovuto alla persona offesa.

A questo punto il trattamento assume la funzione di processo di cambiamento con l’obiettivo di realizzare una persona più completa e responsabile in grado di rispettare le regole sociali della comunità a cui appartiene e nella quale dovrà essere reinserita una volta scontata la pena.

Gli interventi trattamentali dovrebbero sviluppare tendenzialmente quelle che si ritengono generalmente:

 

Le potenzialità superiori della natura umana”

l            1)percezione della realtà più chiara ed efficace;

l            2)maggiore disponibilità all’esperienza;

l            3)accresciuta integrazione, globalità e unitarietà nella persona;

l            4)maggiore spontaneità ed espressività, funzionamento completo,                   

l            5)identità personale salda, autonomia;

l            6) maggiore obiettività, capacità di disidentificazione;

l            7)recupero della creatività, vivacità;

l            8)capacità di fondere concretezza ed astrazione;

l            9)struttura democratica del carattere;

l           10)Capacità d’amare.” 

 

(Tratto da : Avraham Maslow, “Verso una psicologia dell’Essere”)

 

 

"... aprire tutte le prigioni dell'essere affinché l'umanità abbia tutti gli avveniri possibili ... Tutte le prigioni del Sé-relazionale, del corpo-in-relazione e, ovviamente, tutte le istituzioni totali."

Gaston Bachelard

 

L’impianto normativo così composto, superando la vecchia concezione punitiva del carcere, valorizza i principi di una civile e moderna società i cui valori sono patrimonio condiviso della collettività, mettendo in evidenza che anche il carcere è soprattutto una comunità nella comunità, e non un luogo chiuso separato da essa.

La stessa società con tutte le sue espressioni (enti locali, associazioni pubbliche e private, singoli cittadini, ecc) è chiamata a partecipare all’opera di rieducazione e reinserimento dei condannati.

Dispone infatti l’art. 17 della Legge Penitenziaria  che La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all'azione rieducativa…..

Tale visione include pertanto anche la concezione di un contesto penitenziario aperto verso il mondo che sta “fuori”, verso ciò che in un ottica di scambio reciproco, può apportare la società con il suo contributo. E’ impensabile infatti che il processo di rieducazione possa avere come referente esclusivo l’istituzione carcere, dovendo invece arricchirsi dei valori della solidarietà e della cooperazione, che solo una società aperta e sensibile verso la diversità e l’emarginazione dei soggetti più deboli e più a rischio può offrire.

Da queste linee normative si evince che il trattamento si sviluppa su due versanti uno interno ed uno esterno. Quello interno punta al cambiamento del soggetto condannato ed alla formazione di una sua  identità psico-sociale integrata e rispettosa delle regole di civile convivenza, quello esterno al suo reinserimento sociale attraverso la collaborazione con la comunità esterna.

Ora a mio parere, mentre è stata data una particolare e meritata attenzione al rapporto con l’esterno, favorendo la partecipazione della comunità in tutte le sue articolazioni possibili quale espressione di attività sociali, formative, culturali e di volontariato in genere, poca attenzione e poco si è fatto nel versante interno, laddove più pregnante avrebbe dovuto essere l’azione di intervento mediante la conoscenza dei bisogni trattamentali del soggetto, ed in particolare, per affrontare poi con lo stesso in maniera congrua e più autentica quella riflessione critica delle sue condotte antigiuridiche poste in essere, che la norma penitenziaria a giusto titolo rivendica. Inoltre era ed è indispensabile fare acquisire al reo la consapevolezza della sua responsabilità in ordine agli atteggiamenti devianti che sono stati di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale (art.2, 2° comma  reg. pen.). Non di meno era ed è necessario affrontare con il soggetto condannato il problema del risarcimento del danno causato dal reato nei confronti della vittima. Il già citato art. 27 del Reg. di Es. Afferma infatti che “… Sulla base dei dati giudiziari acquisiti, viene espletata, con il condannato o l’internato, una riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l’interessato medesimo e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa.”

Al soggetto condannato se da una parte nulla si chiede in ordine alla modifica dei suoi precetti morali ma solo il rispetto delle norme di convivenza sociale, dall’altra parte per il suo reinserimento ciò non basta, occorrendo invece l’ulteriore impegno riparatore.  Inoltre affinché il processo di cambiamento sia credibile ed autentico bisogna che egli partecipi costruttivamente al benessere collettivo e sociale della comunità di cui fa parte. Perché realisticamente ciò possa attuarsi occorre pure che il soggetto acquisisca in termini formativi, nuove conoscenze, abilità e capacità relazionali che lo aiutino ad inserirsi in modo utile nel contesto sociale.

Per essere accettati ed integrati, occorre quindi anche essere partecipi al benessere collettivo per non ricadere di nuovo nei processi di emarginazione e di devianza. 

Il trattamento rieducativo si presenta quindi come l’insieme delle offerte concrete di attività pedagogiche e formative quali l’istruzione scolastica, i corsi professionali, le attività culturali ecc. che possano effettivamente aiutare il reo a crescere ed a far maturare la sua persona verso comportamenti etici condivisibili dalla collettività. In questo senso possiamo affermare che la detenzione si presenta quasi come un’occasione per il detenuto di avviare un nuovo progetto di vita personale che lo aiuti ad inserirsi a pieno titolo nella società.

Dobbiamo quindi sviluppare un trattamento rieducativo all’insegna di  una pedagogia penitenziaria che assume la connotazione dell’educazione e della formazione degli adulti dove non deve solo essere appreso un sapere, ma soprattutto un saper essere in relazione con gli altri.

 

Motivare, comunicare, condividere

Nell’educazione degli adulti, di primaria importanza è la motivazione ad apprendere del formando e la spendibilità in tempi brevi delle nuove competenze apprese. E’ quindi indispensabile che i programmi di trattamento siano condivisi dai detenuti e non vissuti come un pedaggio da pagare per ottenere la libertà. Un tale obiettivo si può raggiungere a condizione di stabilire un rapporto costruttivo e positivo tra le parti. Appare subito evidente la difficoltà di costruire una relazione educativa basata sulla fiducia tra detenuti e personale penitenziario. Le difficoltà maggiori si evidenziano soprattutto tra polizia penitenziaria e detenuti, vale a dire con quel tipo di personale con il quale i detenuti sono maggiormente a contatto durante tutta la detenzione. Appare del tutto evidente quanta importanza assume il ruolo della Polizia Penitenziaria nel processo di recupero e di riabilitazione del reo. Tale personale deputato per lo più in passato a compiti di sorveglianza, con la riforma del Corpo degli Agenti di Custodia, avvenuta con la ormai mitica legge 395/90, è chiamato a svolgere anche compiti di trattamento rieducativo, quanto meno in teoria. Pertanto i nuovi compiti della Polizia Penitenziaria, riguardano, oltre l’ordine interno degli istituti e la loro sicurezza, anche la partecipazione alle attività trattamentali dei detenuti, l’esecuzione di provvedimenti restrittivi, ed il servizio di traduzione e piantonamento di detenuti ed internati.

C’è da dire che a tutt’oggi, non sembra sia stata del tutto colta la portata innovativa della riforma tesa a valorizzare la dimensione sociale del ruolo della Polizia Penitenziaria, conferedogli maggior peso ed autorevolezza. Non bisogna dimenticare infatti che in base all’art. 2 del citato D.P.R. 230/2000, L'ordine e la disciplina negli istituti penitenziari garantiscono la sicurezza che costituisce la condizione per la realizzazione delle finalità del trattamento dei detenuti e degli internati. Il direttore dell'istituto assicura il mantenimento della sicurezza e del rispetto delle regole avvalendosi del personale penitenziario secondo le rispettive competenze.”

E’ dato purtroppo registrare una scarsa rilevanza di tale partecipazione alle attività pedagogiche e trattamentali le quali sono fortemente compresse proprio dall’assenza della partecipazione della Polizia Penitenziaria, nonostante il ruolo strategico che riveste all’interno dell’istituto e della immediata relazione di prossimità con l’utenza detenuta. Tale elemento di criticità assume un valore fondamentale e fondante della credibilità dell’Amministrazione Penitenziaria la quale dovrà, a mio parere investire fortemente su tale risorsa mediante una  formazione professionalmente orientata a tali obiettivi. E’ palese quanto siano sbilanciate le risorse di personale destinate al trattamento dei detenuti, ridotte a poche centinaia di unità a fronte di circa 44.000 unità di polizia penitenziaria destinate alla sicurezza. Ora delle due l’una: o la polizia penitenziaria viene destinata a compiti educativi, oltre che di sicurezza, oppure l’Amministrazione si decida di assumere un numero adeguato di educatori, psicologi, assistenti sociali ed esperti nel trattamento se vorranno essere seriamente raggiunti gli obiettivi di una responsabilizzazione dei detenuti condannati per un loro effettivo reinserimento sociale. Si è parlato continuamente di scarsità di mezzi e di risorse finanziarie, di emergenze terroristiche, camorristiche, di sovraffollamento, che hanno fortemente limitato il decollo definitivo ed a pieno regime della riforma penitenziaria del 1975, ma non sarebbe ormai maturo il tempo di uscire dall’ eterna stagione dell’emergenza e parlare di progetti?  Cioè di una progettualità credibile fatta di risorse coerenti con gli obiettivi che si intendono realizzare in conformità della legge penitenziaria di riforma e prima ancora, dell’art. 27 della Costituzione Italiana. Nella relazione educativa e formativa, in genere non è solo un sapere che passa, ma uno stato di fiducia e reciproca che permette di crescere insieme. Quanta fiducia è ancora viva e creativa tra il personale penitenziario e la popolazione detenuta?

 

Il trattamento di gruppo

Finora, parlando del trattamento, è stato sottolineato come la normativa penitenziaria specifichi che deve essere individualizzato, cioè misurato sui bisogni della persona, emersi a seguito dell’osservazione scientifica della sua personalità. Le attività di osservazione, svolte sotto la responsabilità del direttore (art. 29 reg. esc.) devono quindi ricercare, secondo metodologie adatte ed efficaci, quali sono le carenze del soggetto al fine di dare al G.O.T. (Gruppo di Osservazione e trattamento formato dall’educatore, assistente sociale, medico, esperto e comandante della Polizia Penitenziaria), le opportune indicazioni per la compilazione dello specifico programma  di trattamento individualizzato. Ciò non significa comunque che non possa attuarsi un trattamento di gruppo, secondo le metodologie proprie della gestione dei gruppi. Questo vale sia nelle attività di osservazione della personalità, per esempio nei gruppi cosiddetti di ascolto o di discussione, counselling group, dove meglio si evidenza la dinamica relazionale del soggetto, la sua disponibilità all’apertura ed al confronto ecc. e  sia negli interventi trattamentali veri e propri laddove si attivano sedute di psicoterapie di gruppo, specialmente nei confronti di soggetti tossicodipendenti. Lo stesso art. 14 della l.354/75, al secondo comma dispone che “…L’assegnazione dei condannati e degli internati ai singoli istituti e il raggruppamento nelle sezioni di ciascun istituto sono disposti con particolare riguardo alla possibilità di procedere ad un trattamento rieducativi comune e all’esigenza di evitare influenze nocive reciproche…” Per  trattamento individualizzato quindi si deve intendere la necessità di adottare interventi e metodologie appropriate alla singola personalità del soggetto condannato, ma senza escludere la possibilità di una concreta attuazione degli interventi, agendo su gruppi di soggetti opportunamente scelti sulla base di comuni esigenze. Lo stesso art. 64 della L.P. dispone inoltre che gli istituti penitenziari devono essere differenziati in relazione oltre che alla posizione giuridica dei detenuti e degli internati, anche in relazione “…alle necessità di trattamento individuale o di gruppo degli stessi. L’art. 115 del nuovo Reg. di Es. D.P.R. n.230/2000, poi al secondo comma sancisce l’operatività  dei criteri indicati nel secondo comma dell’art. 14 della L.P., sopra riportato, e, nell’ottica sempre della differenziazione del trattamento, al terzo comma prevede inoltre la possibilità di realizzare regimi a custodia attenuata per detenuti ed internati di non rilevante pericolosità, in istituti autonomi o in sezioni d’istituto, che assicurino un più ampio svolgimento delle attività trattamentali. Al comma 6 dello stesso art. 115, infine, è prevista la possibilità di realizzare nello stesso istituto, in sezioni sufficientemente autonome, differenti tipi di trattamento. Anche in quest’ultima ipotesi è ovvio che il legislatore si riferisce non tanto ai singoli ospiti della sezione, ma all’insieme degli stessi i quali possono usufruire di un trattamento comune.

Un’idea di trattamento, volta a riscoprire nuove forme di interazione che valorizzino l’espressione dei bisogni in condizione di reciprocità, presuppone un cammino da fare insieme, volto a sviluppare ed approfondire i processi comunicativi e relazionali. Si possono, così operando, favorire la conoscenza e la consapevolezza di ognuno, operatori e detenuti, contribuendo ad abbattere stereotipi e condizionamenti personali. Si tratta di realizzare un nuovo progetto educativo e pedagogico.  In questa ottica gli elementi trattamentali costituiscono semplici ma importanti opportunità perché possa realizzarsi l’obiettivo principale, che rimane la riscoperta dell’uomo e la valorizzazione delle sue risorse personali, nella ricerca di nuove motivazioni esistenziali, che tengano conto dei bisogni e valori più autentici della persona. 

Il trattamento ”comunitario” consente di analizzare il processo di crescita individuale e collettiva, riflettendo sul rapporto con se stessi e con gli altri. Infatti, la crescita di una comunità non può  prescindere da quella del singolo, anzi ne valorizza ed esalta la stessa individualità in rapporto a quella degli altri. In tale processo fondamentale è l’analisi dei bisogni più autentici che realizzano una modalità dell’essere ed una riscoperta del proprio sé.  Occorre, peraltro, per questo, individuare anche le induzioni e i condizionamenti che hanno invece favorito bisogni egoistici. Comprenderne le cause è essenziale per poterle eliminare e ricercare nuove motivazioni, affinché si possa uscire dalla competizione continua con gli altri e superare le proprie paure ed insicurezze.

In tale sistema di valenza comunitaria, si possono ipotizzare e sperimentare cambiamenti verso modelli solidali di convivenza, dove lo scambio sia alla base delle relazioni e dei rapporti interpersonali. Nella comunità penitenziaria occorre, necessariamente, misurarsi con una serie di limiti che fino ad ora hanno portato ad esasperare la competizione ed il conflitto. Si può pensare, in particolare, alla paura dell’isolamento che assale e che induce ad aderire a gruppi o fazioni più o meno contrapposte: il gruppo dà l’idea della forza e fa acquisire maggiore potere e sicurezza. Va premesso che nel carcere le aggregazioni spontanee, motivate da obiettivi più o meno leciti sono praticamente inevitabili: si tratta quindi di trovare delle modalità che consentano di guidarne i propositi verso obiettivi costruttivi.

Occorre quindi sviluppare un modello operativo che riconosca la realtà comunitaria penitenziaria e la faccia partecipe della sua organizzazione e, dunque, più consapevole e responsabile. In questo contesto il concetto di crescita insieme, operatori e detenuti, diventa effettivo, mirando ad un comune obiettivo: migliorare la convivenza, sviluppando qualitativamente le relazioni umane e alzando così la qualità complessiva della vita. Quindi il trattamento, nello specifico, deve realizzare un sistema che aiuti e favorisca le relazioni umane, secondo quanto già prefissato, sviluppando, sempre più, la partecipazione al dialogo e al confronto. Strumento indefettibile di tale sistema non può che essere una comunicazione autentica che stimoli anche la conoscenza di sé.

Concepire un trattamento penitenziario come occasione di incontro, di crescita e di conoscenza della persona significa dunque rivoluzionare completamente l’impostazione culturale dell’esecuzione penale. Si esce dalla logica segregante del carcere per far emergere un’idea comunitaria della società dei reclusi, una comunità nella comunità.

 

Il Trattamento comunitario avanzato

Un trattamento rieducativo basato su una logica comunitaria in cui si affida alla comunità stessa la produzione di regole comporta la responsabilizzazione del gruppo e del singolo. Si potrebbe quindi far ricorso alle diverse rappresentanze e commissioni di detenuti previste dall’ordinamento penitenziario per estendere la potenziale partecipazione dei ristretti alla vita dell’organizzazione, stemperando così il sistema carcere dai retaggi delle istituzioni totali che pure sono ancora oggi presenti nella nostra realtà.  In questa ottica il processo rieducativo sarebbe “auto-diretto” e non calato dall’alto, per cui la responsabilità della gestione sarebbe affidata non solo agli operatori penitenziari ma anche e soprattutto, agli stessi detenuti. In ciò può concretizzarsi la valenza rieducativa della pena, attuando un trattamento di tipo “psico-pedagogico e formativo”.

In questa prospettiva si sono mosse alcune significative esperienze di trattamento avanzato tese verso la ricerca continua di nuovi strumenti trattamentali, di approcci innovativi e metodologici più efficaci nell’intervento pedagogico penitenziario, orientato, quindi, ad una concezione evolutiva del trattamento penitenziario, volendo superare con ciò la sclerotizzazione delle prassi penitenziarie per raggiungere una relazione più autentica, significativa e convincente per la popolazione detenuta e per gli stessi operatori. (I gruppi trattamentali di ascolto e di discussione della Casa Circondariale di Arezzo che hanno coinvolti diversi detenuti sono stati un’esperienza altamente significativa per la crescita e la messa in discussione dei propri atteggiamenti devianti).

In questa ottica di affinamento e di specializzazione degli approcci educativi e trattamentali nasce l’esperienza di un progetto sperimentale, della sezione M.I.T.O.  (a maggior indice trattamentale e osservazione) alla C.C. di Arezzo prima e alla Struttura a Custodia attenuata di Massa Marittima poi, che tiene conto della “coscienza” comunitaria e procede quindi alla realizzazione di un vero e proprio programma comunitario per questi istituti. Il modello complessivo, si struttura come una applicazione di un trattamento avanzato mirante a stimolare negli appartenenti una maggiore consapevolezza e coscientizzazione del proprio vissuto e del proprio modo di essere per favorire una maggiore e responsabile capacità di scelta di vita.

L’animo forte che regge l’idea comunitaria è pertanto - come già sottolineato-la partecipazione degli utenti alle scelte ed ai programmi trattamentali unitamente agli operatori istituzionalmente preposti.

Nello specifico, gli obiettivi di questi pregressi modelli sperimentali di trattamento si possono così sintetizzare:

A)   creazione di una comunità penitenziaria diretta a favorire il reinserimento dei soggetti ospitati attraverso il superamento dell’individualismo, l’autoregolamentazione, il lavoro, l’interazione con l’esterno.

B)   partecipazione diretta di tutto personale, compresa la Polizia Penitenziaria alla gestione dei processi educativi e trattamentali ai sensi dell‘art.5 L.395/90 chiamata a condividere lo spirito del progetto operando, secondo le rispettive competenze, per favorire l’istaurarsi ed il progredire di un comune clima di cultura e di crescita individuale e collettiva;

C)   partecipazione diretta della popolazione detenuta chiamata ad un impegno costante nell’attuazione dei programmi trattamentali e sollecitata ad esprimere le proprie potenzialità in un contesto favorevole alla emersione delle positività insite in ogni individuo, in una continua pratica di confronto col gruppo, all’autovalutazione ed alla presa di coscienza del sé nei confronti dell’altro;

D)   creazione di una rete di relazioni positive interne ed esterne in un clima di comunicazione autentica improntato alla condivisione di obiettivi comuni, e a momenti di riflessione comune sui problemi individuali e di gruppo;

E)    utilizzazione delle risorsa ambientale, chiamata sin dall’inizio a partecipare al progetto attraverso la definizione di protocolli d’intesa e contatti, quale parte in causa nel processo del riadattamento sociale del cittadino temporaneamente detenuto, considerando la struttura come parte della rete dei servizi predisposti.

Coinvolgere, in termini di partecipazione e di responsabilizzazione, tutte le risorse nella gestione ed attuazione del progetto trattamentale, consente l’impostazione di un modello basato su una diversa attenzione all’individuo attraverso l’impegno che egli riesce ad esprimere verso il gruppo e garantisce una continua  supervisione del percorso compiuto.

Così la risorsa personale viene chiamata, evitando interazioni incongrue derivanti da conflitti nell’interpretazione dei propri ruoli, a condividere lo spirito del progetto operando secondo le rispettive competenze.

La risorsa detenuto, sollecitata ad esprimere le proprie potenzialità in un contesto favorevole alla emersione delle positività insite in ogni individuo, è spinta, in una continua pratica di confronto col gruppo, all’autovalutazione ed alla presa di coscienza del sé nei confronti dell’altro.

Ogni persona racchiude in sé positività e risorse, spesso inespresse per mancanza di un contesto favorevole e la detenzione può divenire utile momento di crescita verso la consapevolezza, se indirizzata adeguatamente a far emergere i reali bisogni dell’individuo. L’istaurarsi di relazioni positive in un clima di comunicazione autentica, improntato alla condivisione di obiettivi comuni, a momenti di riflessione comune sui problemi individuali e di gruppo, modifica una percezione del sé autodiretta e chiusa al confronto.

Tali esperienze si distaccano e si differenziano dalle sezioni ordinarie oltre che per la peculiare organizzazione di vita comunitaria, anche per la diversa percezione che hanno i detenuti interessati ai programmi di trattamento comunitario rispetto alla stessa funzione del carcere. Quest’ultimo non è più vissuto nella sua dimensione punitiva ma anche come contesto formativo e rieducativo. Infatti il distacco dai metodi propri della istituzione detentiva di tipo tradizionale comporta un cambiamento di cultura ed una maggiore adesione alle regole di reciproco rispetto e pacifica convivenza nella interazione sociale.

Ciò si verifica in quanto i relativi programmi di trattamento comunitario e la produzione delle regole di organizzazione della vita sociale nascono all’interno della comunità stessa formata non solo dai detenuti ma anche dallo “staff” del personale nelle sue diversificate articolazioni e sempre secondo le specifiche funzioni ed i ruoli di appartenenza.  La partecipazione dei singoli ai vari momenti di organizzazione della vita comune fa acquisire in maniera molto significativa il senso di responsabilità e di appartenenza. Significativi infatti sono i programmi culturali psico-pedagogici che favoriscono in maniera particolare, lo strumento della comunicazione e del lavoro di gruppo, nonché i rapporti con l’ambiente esterno, entrambi diretti a favorire la capacità di relazione.

Può essere questo un modo per uscire dalla perenne emergenza penitenziaria per  incominciare a pensare per progetti? Io penso di si vedendo i risultati di questi anni perché il carcere non può e non deve essere la fine dei sogni per nessuno, né per i detenuti che nel carcere ci vivono e nemmeno per chi come e tanti altri che credono nella capacità dell’uomo di riscattare le sue colpe a patto che questa società gli tenda una mano.

                                                         Paolo Basco 
                                         

    


                                                  

 
 

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