Le tematiche oggetto di discussione riguardano, come opportunamente sottolineato dal titolo del convegno, il concetto di pena, la sua funzione ed applicazione, e le possibili alternative, anche radicali, al sistema carcerario e in una più ampia prospettiva anche al sistema penale nel suo complesso, avendo sempre un particolare riguardo alle aspettative dei rei e delle vittime. La sanzione penale, che in tutti gli ordinamenti giuridici viene ritenuta la risposta sociale alla commissione di un reato, cioè un fatto che la legge considera punibile, va attentamente riesaminata nelle sue finalità e nella sua funzione. In altri termini è il concetto stesso di pena, che nella coscienza sociale prevalente tende a coincidere con la detenzione, che deve essere rivisto. L’espiazione della pena in carcere deve essere, e su questa affermazione credo che ormai tutti concordino, estremo rimedio, perché la detenzione, nonostante i ripetuti tentativi di umanizzarla, comporta pur sempre un rilevantissimo grado di sofferenza ed esclusione sociale. Il carcere tende inesorabilmente ad emarginare la persona del detenuto, anche se negli ultimi decenni pure nel nostro paese, sono stato fatti grossi passi in avanti nel trattamento del detenuto e nella individualizzazione e umanizzazione della pena.

L’efficienza di un sistema penale, e quindi di un sistema penitenziario, si misura soprattutto dal livello di efficienza raggiunto dal trattamento e dal grado di reinserimento sociale del detenuto. Basilare è il richiamo in questo caso all’art. 27 della Costituzione, laddove stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. E’ con la Costituzione del 1948 che nel nostro paese viene affermato solennemente il principio di umanizzazione del trattamento, e il concetto di rieducazione diventa un principio base, un principio strutturale. La pena diviene quindi un mezzo di rieducazione e di reinserimento sociale. D’altra parte anche la stessa giurisprudenza della Cassazione ha ripetutamente affermato che ogni reato, in quanto manifestazione di un disagio, di un  disadattamento sociale del suo autore, rende giustificabile un intervento rieducativo. Il precetto costituzionale contenuto nell’art 27, nonostante alcuni provvedimenti legislativi fondamentali, primo fra tutti la riforma penitenziaria introdotta con legge 26 giugno 75 numero 354, non ha avuto una piena soddisfacente attuazione. Il carcere, sebbene il nostro ordinamento giuridico preveda la possibilità di misure alternative alla detenzione per i cosiddetti reati minori, resta ancora la sanzione penale per eccellenza, cui si ricorre con maggiore frequenza, negli ultimi anni le nostre carceri, anziché svuotarsi come dovrebbe essere nella logica di un sistema che considera la detenzione come extrema ratio, si sono riempite a tal punto da rendere necessari reiterati provvedimenti di amnistia e di indulto.

E quindi appare legittimo porsi la domanda se il trattamento penitenziario così come è attuato sia veramente in grado di realizzare il compito di rieducare il condannato, o se ci troviamo di fronte invece ad un ulteriore castigo della pena, o come sostengono alcuni ad una inutile e perfino dannosa violenza legittimata. Quindi: à possibile realizzare un vero trattamento rieducativo in carcere nel senso voluto dal costituente? Ed è superabile, e in quale maniera, l’equazione pena-carcere? Una risposta ai quesiti, o per lo meno un tentativo di risposta, dovrebbe essere fornita dalle relazioni che saranno svolte questa mattina e domani mattina, in particolare dal dott. Giuseppe Di Gennaro, padre indiscusso della riforma penitenziaria, che è stato il primo tentativo di eccezionale rilievo di dare attuazione all’art. 27 della Costituzione. Una risposta l’aspettiamo anche dal dott. Paolo Basco, direttore della Casa circondariale di Arezzo, che si occuperà dei percorsi alternativi evolutivi del trattamento penitenziario, dal prof. Mosconi dell’università di Padova, dal dott. Margara presidente della Fondazione Michelucci di Fiesole, per molti anni magistrato di sorveglianza e capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dal prof. Emilio Santoro, direttore de L’altro diritto, oltre che da tutti gli altri illustri relatori.

Ora, la proliferazione del numero dei detenuti è anche conseguenza a mio avviso dell’espansione dell’area penale che anziché ridursi tende progressivamente ad espandersi. E fra detenzione, misure alternative, procedimenti presso il tribunale di sorveglianza coinvolge un numero sempre più alto di persone. E’ stato sostenuto che lo Stato penale sta gradualmente soppiantando lo Stato sociale, in quanto l’area della pena si è estesa fino a comprendere i settori del disagio sociale, in particolare il settore dell’immigrazione, delle varie forme di dipendenza, alcolismo, tossicodipendenza, ecc. Quindi si dice che lo Stato è passato dalla repressione, quindi dalla punizione dei comportamenti che turbano le normali relazioni fra le persone, contro il patrimonio e contro le persone in genere, alla punizione dei comportamenti che disturbano la vita sociale. La conseguenza è che le carceri si sono affollate soprattutto di stranieri e di tossicodipendenti. Ciò secondo autorevoli opinioni è dipeso principalmente da un’aumentata intolleranza sociale, amplificata dai mass media e da una parte della classe politica che considera certi comportamenti come diversi, per certi aspetti non condivisibili. Quindi si pone in conseguenza di ciò il problema della gestione non criminale dei comportamenti, da alcuni giuristi e sociologi si è addirittura teorizzata l’eliminazione della pena e quindi del sistema penale dall’ordinamento giuridico.

Le teorie abolizioniste della pena, sostenute dalla scuola del prof. Hulsman, a cui va il mio grato e deferente saluto per la partecipazione a questo convegno e per gli importanti suggerimenti e risposte che potrà dare, non sono a mio avviso al momento compatibili con il nostro ordinamento giuridico e con la nostra Costituzione. Ciò non significa tuttavia che la spinta ideale e propulsiva che anima tali teorie non debba essere apprezzata ed opportunamente elaborata, quanto meno nel senso di escludere che ls strada da perseguire sia quella della criminalizzazione sempre e dovunque. Il carcere quale sanzione, come ho già detto, va considerato l’ultima spiaggia ed è certamente auspicabile che nella maggior parte delle situazioni teoricamente criminalizzabili si arrivi ad una totale decriminalizzazione, in quanto in tali casi il carcere è indubbiamente un castigo anacronistico, ed anche perché come risulta dalle analisi effettuate solo una minima parte dei fatti puniti dalla legge penale come reati sono realmente perseguiti e condannati. In certe situazioni di illegalità tuttavia, e mi riferisco in particolare ai delitti commessi dalla criminalità organizzata, terroristica e mafiosa, agli omicidi, alle estorsioni, alle violenze sessuali e più in generale ai delitti contro la persona, non vedo come lo Stato possa intraprendere la via della decriminalizzazione totale, abolendo tout court il sistema penale, senza compromettere gravemente la sicurezza e la libertà dei cittadini.

E’ possibile prevedere anche in questi casi un’alternativa o delle alternative al carcere, e tali alternative mi auguro che verranno seriamente esaminate e discusse in queste giornate, ma è indubbio che la società deve pur sempre essere in grado di esercitare un efficace controllo dei comportamenti maggiormente devianti al fine di prevenire i fatti delittuosi di estrema gravità sopra accennati. Lo Stato deve informare ed educare i cittadini in ordine ai comportamenti da seguire, ed attivare queste politiche è il suo compito primario, prioritario; ma deve anche intervenire con adeguate sanzioni, sempre compatibili con la dignità della persona cui vengono irrogate, nei casi estremi quando vengono messe in pericolo la libertà e l’incolumità, intesa come integrità psicofisica, delle persone. In questa ipotesi non credo che possa parlarsi di violenza legale. A titolo esemplificativo, la legge quando punisce il tossicodipendente non lo punisce e non lo deve punire in quanto tale ma solo qualora spacci sostanze stupefacenti, perché in questo modo mette in pericolo con il suo comportamento la salute e l’integrità psicofisica di altre persone.

Un’ultima e definitiva considerazione a proposito del principio rieducativo. Le realizzazione di tale principio, che le norme del regolamento penitenziario affidano nella fase dell’esecuzione della pena ad una serie di trattamenti medici, psicologici, e sociali analiticamente previsti, non ha dato, nella misura che si attendeva, i frutti sperati. E le statistiche sulla recidiva dimostrano che gli interventi rieducativi non sempre impediscono la ricaduta nel delitto. In alcuni casi la rieducazione sociale si è rivelata totalmente inefficace o addirittura controproducente, anche per difficoltà di carattere pratico quale la presenza nelle carceri italiane di un numero assai elevato di detenuti in attesa di giudizio, di tossicodipendenti e di extracomunitari, con le relative gravi difficoltà di comunicazione per la lingua e per le differenze culturali. L’inadeguato numero di personale addetto alla realizzazione degli interventi sulla popolazione detenuta, e l’insufficiente qualificazione del medesimo, rendono assai problematici i successi della teoria rieducativa riabilitativa.

Nonostante i progressi realizzati in molte strutture carcerarie nell’ottica rieducativa prevista dalla Costituzione, per l’applicazione, l’impegno e l’iniziativa di molti direttori e operatori, il principio rieducativo deve essere profondamente riesaminato in coerenza con la revisione del sistema sanzionatorio e delle sue applicazioni. Occorre fra l’altro che le misure diverse dal carcere possano operare come veri strumenti alternativi o sostitutivi della detenzione, piuttosto che come strumenti ad essa complementari ma pur sempre correlati ad una pena detentiva come avviene attualmente. Per concludere, sono convinto che le problematiche relative al carcere in particolare, e al sistema penitenziario in generale, solo se saranno affrontate con una mentalità nuova e con un approccio diverso da quello avvenuto sinora, con il superamento per quanto possibile dell’equazione pena-carcere, potranno condurre a risultati più conformi al senso di equità e di giustizia sostanziale che è insita nella coscienza sociale. Ed è con questo auspicio che rinnovo il mio ringraziamento a tutti i convenuti ed auguro buon lavoro e proficui risultati.

 

                                   Francesco Scutellari 
                                         

    


                                                  

 
 

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