Nella
capitale del Belgio e dell'Unione Europea investita dal
terrorismo gli istituti scolastici si sono trovati al
centro dell'emergenza – Non sono stati fra gli obiettivi
specifici degli attacchi, ma di fatto la situazione di
crisi dell'ordine pubblico ha finito con l'isolare molte
scuole all'interno di aree off limits, interessate
da allarmi e operazioni di polizia – Nelle aule
assediate, l'emergenza è stata l'occasione per una
importante lezione di vita
Uno
degli aspetti meno trattati dalla stampa, ma non per questo
meno significativi, dell'ondata terroristica che ha
investito Bruxelles, è la situazione in cui sono venute a
trovarsi numerose scuole nella capitale del Belgio e
dell'Unione Europea. Il 22 marzo, giorno dei cruenti
attacchi all'aeroporto e alla metropolitana, e nei giorni
successivi in cui la città è stata teatro di vaste
operazioni di polizia alla ricerca dei terroristi e dei loro
complici, numerosi istituti si sono trovati isolati, o per
meglio dire circondati da un'emergenza fatta di allarmi e
sparatorie. Fortunatamente i criminali non hanno preso
direttamente di mira le scuole, ma il fatto di essere
sollecitati dalle autorità di polizia a trattenersi per
ore, oltre la normale agenda delle lezioni, negli edifici
scolastici, ha posto brutalmente migliaia di ragazzi di
fronte alla nuova realtà che assilla l'Europa e il mondo:
il dover fare i conti con un'emergenza terroristica
probabilmente destinata a durare anni.
Separati
nel momento del pericolo dalle loro famiglie, investiti da
notizie confuse e contraddittorie su quanto andava accadendo
attorno a loro, nell'incertezza sul destino dei loro
familiari dovuta alla difficoltà delle comunicazioni
telefoniche, quei ragazzi hanno avuto chiara la percezione
di questo mondo impazzito, in cui si spara alla cieca e ci
si fa esplodere scegliendo luoghi affollati, e si fa tutto
questo nel nome di Dio. Hanno probabilmente riflettuto sul
fatto che non siamo soltanto noi, europei e occidentali in
genere, i bersagli di tanta follia omicida, che anzi
l'esperienza da loro vissuta in quelle giornate è
praticamente routine per altri ragazzi, per altre
scolaresche in altre parti del mondo. É da augurarsi che
qualche docente, nelle ore dell'angoscia e dell'incertezza,
sia stato capace di spiegare loro che questa non è una
guerra “fra” culture, ma piuttosto una guerra fra
passato e futuro, fra una feroce tradizione dogmatica e il
principio di libertà.
Di
spiegare loro che non a caso i terroristi che s'ispirano a
una interpretazione violenta dall'islam attaccano, prima
ancora che la modernità occidentale, quei loro compagni di
fede che non si piegano alla visione guerresca del jihadismo.
Attaccano i musulmani di obbedienza sciita, e proprio questo
dettaglio mostra il grande bluff che sta dietro le imprese
del cosiddetto califfato: la religione una volta ancora
viene presa a pretesto per coprire una lotta di
potere e di supremazia. Da una parte l'Arabia sunnita,
dall'altra l'Iran sciita. E poi le piccole guerre
accessorie: la rivolta contro il pluridecennale potere
alauita in Siria, la Turchia che muove guerra ai terroristi
ma prima di tutto bombarda i curdi, che pure contro i
terroristi sono impegnati in prima persona. La Russia che
muove guerra al califfato ma soprattutto colpisce coloro che
combattono il governo di Damasco. Di fronte a questo
ginepraio, gli attacchi all'Europa sono insieme un
sanguinoso diversivo, un colpo di coda per neutralizzare gli
effetti d'immagine di un sostanziale arretramento del
califfato in Iraq e in Siria, un avvertimento per
scoraggiare iniziative militari occidentali, una prova di
forza volta al reclutamento fra le minoranze
etnico-religiose nelle inquiete periferie delle nostre città.
Speriamo
che a quei ragazzi rinchiusi nelle loro aule qualcuno abbia
fornito insieme una parziale rassicurazione e un
avvertimento. La prima perché, come sostiene Alessandro
Orsini, fra i più autorevoli specialisti in terrorismo
islamico, il califfato è finalmente in difficoltà. Lo
dimostra non soltanto perché arretra sul terreno in Medio
Oriente, ma anche perché nei territori che occupa è dovuto
ricorrere a razionamenti e riduzioni di salario, e infine
perché il potenziale impiegato a Bruxelles è
qualitativamente e quantitativamente inferiore a quello
usato a Parigi pochi mesi prima. Ma questo non significa,
purtroppo, un cessato allarme, di qui un necessario
avvertimento ai ragazzi di Bruxelles e d'Europa: con gli
attacchi del terrorismo dobbiamo abituarci a convivere.
Avremo lungamente a che fare con fanatici dementi armati di
cinture esplosive, capaci di seminare la morte dove e come
vogliono. Per i ragazzi di Bruxelles non sarà stato vano
ricevere questa lezione, nelle loro scuole assediate, perché
è precisamente un dovere della scuola preparare i giovani
agli scenari prevedibili della loro vita.
- f.
s.
|