FOGLIO LAPIS - APRILE - 2016

 
 

Nella capitale del Belgio e dell'Unione Europea investita dal terrorismo gli istituti scolastici si sono trovati al centro dell'emergenza – Non sono stati fra gli obiettivi specifici degli attacchi, ma di fatto la situazione di crisi dell'ordine pubblico ha finito con l'isolare molte scuole all'interno di aree off limits, interessate da allarmi e operazioni di polizia – Nelle aule assediate, l'emergenza è stata l'occasione per una importante lezione di vita

 

Uno degli aspetti meno trattati dalla stampa, ma non per questo meno significativi, dell'ondata terroristica che ha investito Bruxelles, è la situazione in cui sono venute a trovarsi numerose scuole nella capitale del Belgio e dell'Unione Europea. Il 22 marzo, giorno dei cruenti attacchi all'aeroporto e alla metropolitana, e nei giorni successivi in cui la città è stata teatro di vaste operazioni di polizia alla ricerca dei terroristi e dei loro complici, numerosi istituti si sono trovati isolati, o per meglio dire circondati da un'emergenza fatta di allarmi e sparatorie. Fortunatamente i criminali non hanno preso direttamente di mira le scuole, ma il fatto di essere sollecitati dalle autorità di polizia a trattenersi per ore, oltre la normale agenda delle lezioni, negli edifici scolastici, ha posto brutalmente migliaia di ragazzi di fronte alla nuova realtà che assilla l'Europa e il mondo: il dover fare i conti con un'emergenza terroristica probabilmente destinata a durare anni.

Separati nel momento del pericolo dalle loro famiglie, investiti da notizie confuse e contraddittorie su quanto andava accadendo attorno a loro, nell'incertezza sul destino dei loro familiari dovuta alla difficoltà delle comunicazioni telefoniche, quei ragazzi hanno avuto chiara la percezione di questo mondo impazzito, in cui si spara alla cieca e ci si fa esplodere scegliendo luoghi affollati, e si fa tutto questo nel nome di Dio. Hanno probabilmente riflettuto sul fatto che non siamo soltanto noi, europei e occidentali in genere, i bersagli di tanta follia omicida, che anzi l'esperienza da loro vissuta in quelle giornate è praticamente routine per altri ragazzi, per altre scolaresche in altre parti del mondo. É da augurarsi che qualche docente, nelle ore dell'angoscia e dell'incertezza, sia stato capace di spiegare loro che questa non è una guerra “fra” culture, ma piuttosto una guerra fra passato e futuro, fra una feroce tradizione dogmatica e il principio di libertà.

Di spiegare loro che non a caso i terroristi che s'ispirano a una interpretazione violenta dall'islam attaccano, prima ancora che la modernità occidentale, quei loro compagni di fede che non si piegano alla visione guerresca del jihadismo. Attaccano i musulmani di obbedienza sciita, e proprio questo dettaglio mostra il grande bluff che sta dietro le imprese del cosiddetto califfato: la religione una volta ancora  viene presa a pretesto per coprire una lotta di potere e di supremazia. Da una parte l'Arabia sunnita, dall'altra l'Iran sciita. E poi le piccole guerre accessorie: la rivolta contro il pluridecennale potere alauita in Siria, la Turchia che muove guerra ai terroristi ma prima di tutto bombarda i curdi, che pure contro i terroristi sono impegnati in prima persona. La Russia che muove guerra al califfato ma soprattutto colpisce coloro che combattono il governo di Damasco. Di fronte a questo ginepraio, gli attacchi all'Europa sono insieme un sanguinoso diversivo, un colpo di coda per neutralizzare gli effetti d'immagine di un sostanziale arretramento del califfato in Iraq e in Siria, un avvertimento per scoraggiare iniziative militari occidentali, una prova di forza volta al reclutamento fra le minoranze etnico-religiose nelle inquiete periferie delle nostre città.

Speriamo che a quei ragazzi rinchiusi nelle loro aule qualcuno abbia fornito insieme una parziale rassicurazione e un avvertimento. La prima perché, come sostiene Alessandro Orsini, fra i più autorevoli specialisti in terrorismo islamico, il califfato è finalmente in difficoltà. Lo dimostra non soltanto perché arretra sul terreno in Medio Oriente, ma anche perché nei territori che occupa è dovuto ricorrere a razionamenti e riduzioni di salario, e infine perché il potenziale impiegato a Bruxelles è qualitativamente e quantitativamente inferiore a quello usato a Parigi pochi mesi prima. Ma questo non significa, purtroppo, un cessato allarme, di qui un necessario avvertimento ai ragazzi di Bruxelles e d'Europa: con gli attacchi del terrorismo dobbiamo abituarci a convivere. Avremo lungamente a che fare con fanatici dementi armati di cinture esplosive, capaci di seminare la morte dove e come vogliono. Per i ragazzi di Bruxelles non sarà stato vano ricevere questa lezione, nelle loro scuole assediate, perché è precisamente un dovere della scuola preparare i giovani agli scenari prevedibili della loro vita.

                                         f. s. 

    


                                                  

 
 

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