Indagini
sulle ragioni che inducono le “donne giraffa” ad
allungarsi il collo, come si dice (in realtà il collo
sembra più lungo ma non lo è) - Una protezione contro le
tigri? - Lo fanno per sembrare più belle, o magari più
brutte? - Il loro popolo è passato per ragioni politiche
dalla Thailandia alla Birmania, ma qui le considerano
attrazioni turistiche - Infine una domanda intrigante: ma
l'albero genealogico dei cani, davvero si dirama dal lupo?
- Sono
a Chiang Mai.
- -
Quando?
- -
Mai!
- -
Mai mai mai mai mai?
- -
Mai mai mai mai mai!
- -
Il legno verde non brucia. Vero?
Les mots changent de
sens en fonction du ton employé. Il y en a cinq et ils sont
les fondements du «parler» thaï. Un même mot pourra donc
avoir cinq significations différentes pour une même écriture.
On pourrait citer le célèbre «Mai mai mai mai mai?», qui
signifie à peu de chose près «Le bois vert ne brûle pas,
n’est-ce pas?». Ou le mot «khao» (colline) qui peut
aussi bien vouloir dire «nouvelles», «riz», «entrée»,
voire «genoux»
Chiang
Mai è in presa diretta con Chiang Rai.
-
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“Le
donne giraffa di Chiang Rai. Perché ho boicottato”
By
Giulia Raciti:
«Ammetto
che ero venuta a Chiang Rai per potere vedere le famose “donne
giraffa”, ho fatto sali e scendi dalla
Thailandia per un totale di 30 ore di viaggio quasi ed
esclusivamente per poter partecipare a questa escursione.
A
Chiang Rai oltre infatti al trekking, gli elefanti e il
rafting, uno dei tour più quotati è quello alle tribù
Karen al confine con la Birmania.
Tribù
scappate dal regime birmano in cerca di asilo politico nella
speranza di trovare libertà.
Stamattina prima di prenotare il tour, visto che pare che
l’unico modo sia di andare con un tour organizzato, per
arrivare a questo incontro che aspettavo da qualche
settimana e che era uno degli “highlights” del mio
viaggio in Thailandia, mi sono informata un po’ sulla
storia di queste tribù, la loro cultura e le loro
tradizioni. cosa che in genere faccio prima di andare in
qualche posto o di fare un tour “culturale”.
Purtroppo
quello che ho scoperto è stato tutt’altro che piacevole.
Tutti
gli articoli che ho letto, in particolare una intervista
fatta a Zemen,
una ex-donna giraffa, e riportata nell’articolo “Burma’s
long-neck women struggle to break out of Thailand’s human
zoo”, mi hanno fatto
passare la voglia di andare e di spendere i miei soldi
sostenendo una politica contro i valori e il rispetto umano.
È
così che ho
deciso di rimanere in città un giorno in più, affittare un
motorino, andare al tempio bianco e godermi la tranquillità
della cittadina.
Ma
prima di scrivere del perché non voglio andare sarebbe bene
capire chi sono queste donne, quale è la tradizione e perché
sono entrate a fare parte di uno “zoo umano”.
La
tribù a cui appartengono le donne giraffa è conosciuta
come Karen
che fa in realtà parte di un sottogruppo chiamato Padaung.
Queste
tribù di origine birmana si sono rifugiate in Thailandia a
causa del regime militare nel Paese in cerca di un proprio
territorio, di asilo politico e di aiuto. Purtroppo gli
esiti non sono stati così fortunati come speravano.
Il
nome “donna
giraffa” è dovuto al fatto che attorno al
collo indossano degli anelli di ottone che si cominciano a
mettere all’età di 5 anni. A ogni anno compiuto se ne
aggiunge uno, sino, mi pare, a un massimo di 10 chili. Il
risultato è l’illusione di un collo lungo proprio come
quello della giraffa.
Dico
illusione perché a tal riguardo c’è da sfatare il falso
mito secondo cui con questi anelli si allunghi il collo, la
realtà è che questa non è altro che una sorta di
illusione ottica, l’allungamento del collo infatti
porterebbe alla paralisi o addirittura alla morte.
Quello che succede è che la pressione degli anelli spinge
giù la clavicola e le costole superiori così che dopo anni
sembra che la clavicola stessa faccia parte del collo e pare
che questo sia allungato.
Le
ragioni per cui la tribù Padaung pratica ciò sono diverse
o meglio, ci sono tante spiegazioni ma nessuna davvero è
stata mai confermata.
La
loro mitologia dice che lo si fa per evitare che le tigri le
aggrediscano (non chiedetemi il perché!).
Altri dicono che sia fatto per rendere le donne meno
attraenti così che non possano essere catturate da
eventuali procacciatori di schiavi.
La
spiegazione più plausibile e credibile è invece proprio
l’opposto di quest’ultima, un collo
lungo è considerato simbolo di bellezza
e prosperità. Un collo lungo attrae gli uomini e così
il futuro marito.
Di
fatto questa tradizione sarebbe estremamente interessante,
mi sarebbe piaciuto avere modo di vederle vivere in un
villaggio svolgendo una vita normale, dove io da esterna
magari non dovevo interferire ma potevo solo osservare.
Purtroppo
dopo avere letto le interviste fatte a Zember
che è stata costretta
a togliere gli anelli mi è passata la voglia e la curiosità.
Nell’intervista
citata, Zember racconta che li avrebbe voluti tenere per
portare avanti la tradizione, ma toglierli era l’unico
modo per potere andare in Nuova Zelanda, paese che le aveva
dato asilo politico, come lo aveva dato a molte altre donne
della tribù. Senza anelli non sarebbe più stata
un’attrazione turistica, quindi, per il Governo
Thailandese poteva andare via.
Inutile
dire il disappunto nel leggere tutto ciò, ma se questi
villaggi fossero caratteristici per una questione culturale
e tradizionale sarei stata la prima a volere prendere parte
a un tour del genere. Il problema è che queste tribù sono sfuggite
dalla Birmania in Thailandia sperando di
trovare un po’ di pace e qui invece sono diventati delle
attrazioni turistiche sulle quali un Governo specula.
La
tribù Padaung è immigrata in Thailandia non più di 10
anni fa e velocemente gli abitanti sono diventati l’attrazione
turistica più redditizia nel nord nel
Paese.
Sembra
infatti che la Thailandia non li lasci liberi di lavorare e
di farsi una propria vita, sono letteralmente tenuti come
animali in uno zoo, vendono i loro souvenirs ai turisti che
tutti i giorni accorrono con le loro macchine fotografiche e
li guardano come fenomeni da baraccone e devono sorridere a
chiunque facendosi riprendere e fotografare come scimmie in
una gabbia.
La maggior parte di queste donne viene relegata in una
stanza a tessere tutto il giorno e vendere questo
artigianato che il turista inconsapevole non sa essere una
via di guadagno per il governo piuttosto che per la
sorridente donna.
Una
vita da cliché che non rappresenta quella che è la realtà.
Per
i turisti è un’avventura salire su una gip e attraversare
la foresta infestata dai serpenti per vedere queste donne
con il lungo collo ma per gli abitati la realtà è
un’altra.
Hanno dovuto soffrire gli orrori del regine birmano e
rifugiandosi in Thailandia hanno creduto di potere trovare
una terra in cui potere vivere serenamente, qui invece sono
stati trasformati in oggetti turistici, sono letteralmente
forzati a vivere relegati nel villaggio e a portare avanti
questa scenetta facendo finta che tutto quello sia normale.
Zember
come altri rifugiati ha avuto offerta la possibilità di
andare a vivere in Nuova Zelanda e Finlandia ma le autorità
thailandesi non li lasciano andare non fornendo un visto di
uscita.
Purtroppo senza visto di uscita nessuno può lasciare il
Paese».
Home
» Melissa e Pierluigi » Le minoranze etniche del Triangolo
d’oro e lo zoo umano delle “donne giraffa”
«Siamo
arrivati a Chiang Mai, Thailandia settentrionale. Entriamo
nel villaggio delle Karen Long Neck. La prima
immagine è quella di un gruppo di uomini stravaccati su
amache e brandine (probabili “guardiani dello zoo”) che
giocano a carte bevendo cocacola. Il villaggio è una
piccola stradina, simile a quella di un mercatino. A destra
e sinistra si susseguono capanne di legno al cui interno ci
sono donne Karen. Le capanne sono piene di
abbigliamento e stoffe ricamate a mano dalle stesse “donne
giraffa” il cui unico fine sembra quello di vendere un
souvenir. Alcune hanno un gran telaio di legno e stanno
tessendo proprio in quel momento, altre sono già impegnate
in trattative con qualcuno del nostro gruppo desideroso di
acquistare una sciarpa ricamata da questi interessanti
fenomeni da baraccone (ovviamente alle Karen non
arriverà nulla di quella vendita ma al turista medio questo
non passa neanche per la mente, anzi magari credono davvero
che comprando qualcosa aiuteranno lo sviluppo della comunità
locale). Mi vergogno di essere lì. Con la nostra presenza e
i nostri soldi stiamo appoggiando quel sistema di schiavitù.
Senza farci notare ci fermiamo ad osservarle. Hanno occhi
tristi e rassegnati, alcune sono palesemente arrabbiate, a
dir poco infastidite specie le donne più adulte
probabilmente più consapevoli della loro condizione.
Se
per caso doveste andare in Thailandia, per favore, non
entrate in questo zoo, date una speranza alle Karen
dal collo lungo. L’unica speranza di libertà per queste
donne è che nessuno richieda più quel tour (per inciso, si
chiama “Hill Tribes”); rinunciate a quella
visita! E per quelli che credono che certe cose non
cambieranno mai, vi lascio con uno spunto di Gandhi: “
Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo”».
Scrive Francesco Tortora su “Frontiere”:
«Si
tratta di un vero e proprio Purgatorio in Terra: è quello
che regna al confine tra Thailandia e Myanmar (ex Birmania).
Tra le 140 e le 160mila anime che vagano tra i due
territori, varcando il fiume Moei alla ricerca di un
qualcosa che, il più delle volte, non c’è: servizi,
assistenza medica, cibo. E non si tratta di una congerie
umana dell’ultim’ora, visto che son profughi che cercano
di sopravvivere in quella zona del Mondo da circa
vent’anni. Sfuggono alla violenza spropositata e pervicace
delle forze di Polizia e dell’Esercito del Myanmar, quello
che ha tenuto in scacco ed in stato di detenzione l’esile
Premio Nobel per la Pace 1991 Aung San Suu Kyi per più di
quindici anni complessivi trattenuta in stato di detenzione
e liberata solo il 12 novembre 2010.
È una
condizione drammatica perché, in questa specie di
ventennale limbo, da una parte c’è l’Esercito del
Myanmar noto per i metodi alquanto spicci se non
dichiaratamente brutali, basti ricordare quanto attuato in
termini di apparato repressivo durante la cosiddetta
“rivolta dei monaci” del 19 Agosto 2009. Allo stesso
tempo, è sempre alta la pressione dell’Esercito birmano
con veri e propri attacchi verso i profughi nella stragrande
maggioranza dei casi di etnia Karen arroccati nei pressi del
Tempio di Noh Bo, non lontano dalla città di Mae Sot, in
territorio thailandese. Dall’altra parte c’è la
Thailandia che non ne vuole più sapere di queste anime
perse il cui destino è impossibile da perscrutare,
nonostante sia trascorso così tanto tempo finora. La
Thailandia, inoltre, vuole abbassare la quota di questioni
confinarie, stante la problematicissima conflittualità con
la Cambogia a proposito della disputa di confine nell’area
circostante il Tempio di Preah Vihea dove ci si alterna tra
colpi di mano militari e tentativi di approccio diplomatico.
Il
popolo Karen, un po’ come i Curdi (divisi tra Turchia,
Iraq e Iran), vive una diaspora perenne peregrinando senza
pace tra l’originario Myanmar e la Thailandia,
perfettamente cosciente di essere “merce di scambio”
diplomatica tra due nazioni che hanno relazioni commerciali
intense. Il punto d’incontro è il profitto comune,
giocato non tanto sulle spalle delle povere ragazze di
frontiera, che spesso capita di trovare nei bordelli delle
principali località turistiche e metropoli dell’intera
area sud est asiatica, ma principalmente nel commercio delle
armi e nel settore delle pietre preziose, in particolar modo
i rossi rubini per i quali il Myanmar è famoso in tutto il
mondo. Ma “Myanmar” non vuol dire solo questo. Nel
settore delle armi, il principale partner del Myanmar è
Israele, nella vendita del gas birmano, tra i primi
acquirenti a livello internazionale vi è l’India la quale
anch’essa in cambio vende armi, i
gasdotti birmani sono stati costruiti grazie all’apporto
sostanziale di alcune tra le più famose multinazionali del
settore energetico con prevalente capitale Usa
(Total, Unocal, etc…). Ma tra i marchi famosi ve ne
sarebbero tanti più da annoverare, comprese l’italiana
Oviesse, la tedesca Volkswagen o la giapponese Toyota. Cina
e Russia non stanno a guardare, visto il ruolo preminente a
livello mondiale nella perpetua caccia di fonti di energia
primaria. Il che
spiega ulteriormente le lentezze della diplomazia mondiale e
dell’ONU nel “caso” di Aung San Suu Kyi così come nel
caso delle sorti del popolo Karen e dei profughi di origine
birmana che vagano tra i confini del Myanmar e della
Thailandia.
Il
regime militare ha anche “usato” i Karen per alleggerire
l’attenzione del Mondo nei confronti della lunga
detenzione alla quale è stata sottoposta Aung San Suu Kyi
in modo intermittente. Nell’Aprile 2011 il Governo
thailandese aveva (ancora una volta) annunciato di voler
smantellare definitivamente i campi per i profughi birmani e
Karen nello specifico. Poi però ci son state le elezioni e
Abhisit Vejjajiva ha ceduto nel luglio 2011
il suo posto di Premier a Yingluck Shinawatra.
Quindi, è di nuovo tutto “in forse”. Vi è anche da
perscrutare le reali volontà delle autorità governative
birmane, sulla carta non più presentate col volto della
sola giunta militare ma con le fattezze di un Governo eletto
attraverso delle apposite elezioni democratiche.
I
Karen si sono
organizzati da tempo in un proprio apparato paramilitare, il
Karen National Liberation Army, che attualmente consta di
circa 8mila soldati volontari: la loro lotta contro i vari
governi centrali birmani dura da almeno 60 anni,
praticamente dal 1948, anno in cui il Myanmar conquistò
l’indipendenza dal Regno Unito. In realtà, proprio nella
Costituzione promulgata il 4 gennaio 1948 si prevedeva un
allargamento federativo delle varie etnie che insistono sul
territorio birmano, uno Stato federale che avrebbe dovuto
rivestire il ruolo di garante di tutte le minoranze ed i
popoli birmani. Ma il padre del premio Nobel
Aung San Suu Kyi, il Generale Aung San, venne assassinato
nel luglio 1947. Ora, organizzazioni umanitarie a parte,
alle quali viene frapposto ogni tipo di ostacolo possibile
formale, diplomatico e materiale, c’è praticamente la
sola Aung San Suu Kyi a ricordare le giuste aspirazioni di
quella parte del suo popolo così reietto e abbandonato da
tutti, in primis dallo stesso Myanmar.
Ma
i Karen non s’arrendono facilmente, sono un popolo tenace,
il sogno di una loro indipendenza dal Myanmar non è mai
morto, nonostante la repressione ed i ripetuti attacchi
dell’esercito birmano. Perché, in quanto sogno, il sogno
d’indipendenza del popolo Karen non lo si può uccidere
MAI».
Questo
popolo turco-mongolo è originario del Tibet e delle steppe
della Mongolia e giunse nelle attuali sedi verso il VI
secolo a.C. dopo una lunga migrazione durata centinaia di
anni.
“L’ecologia
ci insegna che la nostra patria è il mondo” (Danilo
Mainardi). La scoperta più interessante che ho fatto
incontrando i Karen in Thailandia è questa: I Karen
sostengono di conoscere benissimo i lupi, ma di non averli Mai tramutati in cani… Mai
mai mai mai mai? I cani non derivano dai lupi, ma
esistono con quelle modalità etnologiche che gli permettono
di avvicinare gli uomini e stabilire con loro un sodalizio
di collaborazione soddisfacente.
- “ Hinc nobis canis est, multis ex hostibus unus
- non
hostis neque mancipium neque verna, sed hospes “ .
- (
Giovanni Pascoli )
Traduzione
“Di qui viene il nostro cane: unico, di tanti nemici, non nemico; né
schiavo comprato né schiavo di casa, ma ospite“
-
Filippo Nibbi
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