FOGLIO LAPIS - APRILE - 2015

 
 

Indagini sulle ragioni che inducono le “donne giraffa” ad allungarsi il collo, come si dice (in realtà il collo sembra più lungo ma non lo è) - Una protezione contro le tigri? - Lo fanno per sembrare più belle, o magari più brutte? - Il loro popolo è passato per ragioni politiche dalla Thailandia alla Birmania, ma qui le considerano attrazioni turistiche - Infine una domanda intrigante: ma l'albero genealogico dei cani, davvero si dirama dal lupo?

 

Sono a Chiang Mai.
- Quando?
- Mai!
- Mai mai mai mai mai?
- Mai mai mai mai mai!
- Il legno verde non brucia. Vero?

Les mots changent de sens en fonction du ton employé. Il y en a cinq et ils sont les fondements du «parler» thaï. Un même mot pourra donc avoir cinq significations différentes pour une même écriture. On pourrait citer le célèbre «Mai mai mai mai mai?», qui signifie à peu de chose près «Le bois vert ne brûle pas, n’est-ce pas?». Ou le mot «khao» (colline) qui peut aussi bien vouloir dire «nouvelles», «riz», «entrée», voire «genoux»

Chiang Mai è in presa diretta con Chiang Rai.

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“Le donne giraffa di Chiang Rai. Perché ho boicottato”

By Giulia Raciti:

«Ammetto che ero venuta a Chiang Rai per potere vedere le famose “donne giraffa”, ho fatto sali e scendi dalla Thailandia per un totale di 30 ore di viaggio quasi ed esclusivamente per poter partecipare a questa escursione.

A Chiang Rai oltre infatti al trekking, gli elefanti e il rafting, uno dei tour più quotati è quello alle tribù Karen al confine con la Birmania.

Tribù scappate dal regime birmano in cerca di asilo politico nella speranza di trovare libertà.
Stamattina prima di prenotare il tour, visto che pare che l’unico modo sia di andare con un tour organizzato, per arrivare a questo incontro che aspettavo da qualche settimana e che era uno degli “highlights” del mio viaggio in Thailandia, mi sono informata un po’ sulla storia di queste tribù, la loro cultura e le loro tradizioni. cosa che in genere faccio prima di andare in qualche posto o di fare un tour “culturale”.

Purtroppo quello che ho scoperto è stato tutt’altro che piacevole.

Tutti gli articoli che ho letto, in particolare una intervista fatta a Zemen, una ex-donna giraffa, e riportata nell’articolo “Burma’s long-neck women struggle to break out of Thailand’s human zoo”, mi hanno fatto passare la voglia di andare e di spendere i miei soldi sostenendo una politica contro i valori e il rispetto umano.

È così che ho deciso di rimanere in città un giorno in più, affittare un motorino, andare al tempio bianco e godermi la tranquillità della cittadina.

Ma prima di scrivere del perché non voglio andare sarebbe bene capire chi sono queste donne, quale è la tradizione e perché sono entrate a fare parte di uno “zoo umano”.

La tribù a cui appartengono le donne giraffa è conosciuta come Karen che fa in realtà parte di un sottogruppo chiamato Padaung.

Queste tribù di origine birmana si sono rifugiate in Thailandia a causa del regime militare nel Paese in cerca di un proprio territorio, di asilo politico e di aiuto. Purtroppo gli esiti non sono stati così fortunati come speravano.

Il nome “donna giraffa” è dovuto al fatto che attorno al collo indossano degli anelli di ottone che si cominciano a mettere all’età di 5 anni. A ogni anno compiuto se ne aggiunge uno, sino, mi pare, a un massimo di 10 chili. Il risultato è l’illusione di un collo lungo proprio come quello della giraffa.

Dico illusione perché a tal riguardo c’è da sfatare il falso mito secondo cui con questi anelli si allunghi il collo, la realtà è che questa non è altro che una sorta di illusione ottica, l’allungamento del collo infatti porterebbe alla paralisi o addirittura alla morte.
Quello che succede è che la pressione degli anelli spinge giù la clavicola e le costole superiori così che dopo anni sembra che la clavicola stessa faccia parte del collo e pare che questo sia allungato.

Le ragioni per cui la tribù Padaung pratica ciò sono diverse o meglio, ci sono tante spiegazioni ma nessuna davvero è stata mai confermata.

La loro mitologia dice che lo si fa per evitare che le tigri le aggrediscano (non chiedetemi il perché!).
Altri dicono che sia fatto per rendere le donne meno attraenti così che non possano essere catturate da eventuali procacciatori di schiavi.

La spiegazione più plausibile e credibile è invece proprio l’opposto di quest’ultima, un collo lungo è considerato simbolo di bellezza e prosperità. Un collo lungo attrae gli uomini e così il futuro marito.

Di fatto questa tradizione sarebbe estremamente interessante, mi sarebbe piaciuto avere modo di vederle vivere in un villaggio svolgendo una vita normale, dove io da esterna magari non dovevo interferire ma potevo solo osservare.

Purtroppo dopo avere letto le interviste fatte a Zember che è stata costretta a togliere gli anelli mi è passata la voglia e la curiosità.

Nell’intervista citata, Zember racconta che li avrebbe voluti tenere per portare avanti la tradizione, ma toglierli era l’unico modo per potere andare in Nuova Zelanda, paese che le aveva dato asilo politico, come lo aveva dato a molte altre donne della tribù. Senza anelli non sarebbe più stata un’attrazione turistica, quindi, per il Governo Thailandese poteva andare via.

Inutile dire il disappunto nel leggere tutto ciò, ma se questi villaggi fossero caratteristici per una questione culturale e tradizionale sarei stata la prima a volere prendere parte a un tour del genere. Il problema è che queste tribù sono sfuggite dalla Birmania in Thailandia sperando di trovare un po’ di pace e qui invece sono diventati delle attrazioni turistiche sulle quali un Governo specula.

La tribù Padaung è immigrata in Thailandia non più di 10 anni fa e velocemente gli abitanti sono diventati l’attrazione turistica più redditizia nel nord nel Paese.

Sembra infatti che la Thailandia non li lasci liberi di lavorare e di farsi una propria vita, sono letteralmente tenuti come animali in uno zoo, vendono i loro souvenirs ai turisti che tutti i giorni accorrono con le loro macchine fotografiche e li guardano come fenomeni da baraccone e devono sorridere a chiunque facendosi riprendere e fotografare come scimmie in una gabbia.
La maggior parte di queste donne viene relegata in una stanza a tessere tutto il giorno e vendere questo artigianato che il turista inconsapevole non sa essere una via di guadagno per il governo piuttosto che per la sorridente donna.

Una vita da cliché che non rappresenta quella che è la realtà.

Per i turisti è un’avventura salire su una gip e attraversare la foresta infestata dai serpenti per vedere queste donne con il lungo collo ma per gli abitati la realtà è un’altra.
Hanno dovuto soffrire gli orrori del regine birmano e rifugiandosi in Thailandia hanno creduto di potere trovare una terra in cui potere vivere serenamente, qui invece sono stati trasformati in oggetti turistici, sono letteralmente forzati a vivere relegati nel villaggio e a portare avanti questa scenetta facendo finta che tutto quello sia normale.

Zember come altri rifugiati ha avuto offerta la possibilità di andare a vivere in Nuova Zelanda e Finlandia ma le autorità thailandesi non li lasciano andare non fornendo un visto di uscita.
Purtroppo senza visto di uscita nessuno può lasciare il Paese».

Home » Melissa e Pierluigi » Le minoranze etniche del Triangolo d’oro e lo zoo umano delle “donne giraffa”

«Siamo arrivati a Chiang Mai, Thailandia settentrionale. Entriamo nel villaggio delle Karen Long Neck. La prima immagine è quella di un gruppo di uomini stravaccati su amache e brandine (probabili “guardiani dello zoo”) che giocano a carte bevendo cocacola. Il villaggio è una piccola stradina, simile a quella di un mercatino. A destra e sinistra si susseguono capanne di legno al cui interno ci sono donne Karen. Le capanne sono piene di abbigliamento e stoffe ricamate a mano dalle stesse “donne giraffa” il cui unico fine sembra quello di vendere un souvenir. Alcune hanno un gran telaio di legno e stanno tessendo proprio in quel momento, altre sono già impegnate in trattative con qualcuno del nostro gruppo desideroso di acquistare una sciarpa ricamata da questi interessanti fenomeni da baraccone (ovviamente alle Karen non arriverà nulla di quella vendita ma al turista medio questo non passa neanche per la mente, anzi magari credono davvero che comprando qualcosa aiuteranno lo sviluppo della comunità locale). Mi vergogno di essere lì. Con la nostra presenza e i nostri soldi stiamo appoggiando quel sistema di schiavitù. Senza farci notare ci fermiamo ad osservarle. Hanno occhi tristi e rassegnati, alcune sono palesemente arrabbiate, a dir poco infastidite specie le donne più adulte probabilmente più consapevoli della loro condizione.

Se per caso doveste andare in Thailandia, per favore, non entrate in questo zoo, date una speranza alle Karen dal collo lungo. L’unica speranza di libertà per queste donne è che nessuno richieda più quel tour (per inciso, si chiama “Hill Tribes”); rinunciate a quella visita! E per quelli che credono che certe cose non cambieranno mai, vi lascio con uno spunto di Gandhi: “ Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo”».

Scrive Francesco Tortora su “Frontiere”:

«Si tratta di un vero e proprio Purgatorio in Terra: è quello che regna al confine tra Thailandia e Myanmar (ex Birmania). Tra le 140 e le 160mila anime che vagano tra i due territori, varcando il fiume Moei alla ricerca di un qualcosa che, il più delle volte, non c’è: servizi, assistenza medica, cibo. E non si tratta di una congerie umana dell’ultim’ora, visto che son profughi che cercano di sopravvivere in quella zona del Mondo da circa vent’anni. Sfuggono alla violenza spropositata e pervicace delle forze di Polizia e dell’Esercito del Myanmar, quello che ha tenuto in scacco ed in stato di detenzione l’esile Premio Nobel per la Pace 1991 Aung San Suu Kyi per più di quindici anni complessivi trattenuta in stato di detenzione e liberata solo il 12 novembre 2010.

È una condizione drammatica perché, in questa specie di ventennale limbo, da una parte c’è l’Esercito del Myanmar noto per i metodi alquanto spicci se non dichiaratamente brutali, basti ricordare quanto attuato in termini di apparato repressivo durante la cosiddetta “rivolta dei monaci” del 19 Agosto 2009. Allo stesso tempo, è sempre alta la pressione dell’Esercito birmano con veri e propri attacchi verso i profughi nella stragrande maggioranza dei casi di etnia Karen arroccati nei pressi del Tempio di Noh Bo, non lontano dalla città di Mae Sot, in territorio thailandese. Dall’altra parte c’è la Thailandia che non ne vuole più sapere di queste anime perse il cui destino è impossibile da perscrutare, nonostante sia trascorso così tanto tempo finora. La Thailandia, inoltre, vuole abbassare la quota di questioni confinarie, stante la problematicissima conflittualità con la Cambogia a proposito della disputa di confine nell’area circostante il Tempio di Preah Vihea dove ci si alterna tra colpi di mano militari e tentativi di approccio diplomatico.

Il popolo Karen, un po’ come i Curdi (divisi tra Turchia, Iraq e Iran), vive una diaspora perenne peregrinando senza pace tra l’originario Myanmar e la Thailandia, perfettamente cosciente di essere “merce di scambio” diplomatica tra due nazioni che hanno relazioni commerciali intense. Il punto d’incontro è il profitto comune, giocato non tanto sulle spalle delle povere ragazze di frontiera, che spesso capita di trovare nei bordelli delle principali località turistiche e metropoli dell’intera area sud est asiatica, ma principalmente nel commercio delle armi e nel settore delle pietre preziose, in particolar modo i rossi rubini per i quali il Myanmar è famoso in tutto il mondo. Ma “Myanmar” non vuol dire solo questo. Nel settore delle armi, il principale partner del Myanmar è Israele, nella vendita del gas birmano, tra i primi acquirenti a livello internazionale vi è l’India la quale anch’essa in cambio vende armi, i gasdotti birmani sono stati costruiti grazie all’apporto sostanziale di alcune tra le più famose multinazionali del settore energetico con prevalente capitale Usa (Total, Unocal, etc…). Ma tra i marchi famosi ve ne sarebbero tanti più da annoverare, comprese l’italiana Oviesse, la tedesca Volkswagen o la giapponese Toyota. Cina e Russia non stanno a guardare, visto il ruolo preminente a livello mondiale nella perpetua caccia di fonti di energia primaria. Il che spiega ulteriormente le lentezze della diplomazia mondiale e dell’ONU nel “caso” di Aung San Suu Kyi così come nel caso delle sorti del popolo Karen e dei profughi di origine birmana che vagano tra i confini del Myanmar e della Thailandia.

Il regime militare ha anche “usato” i Karen per alleggerire l’attenzione del Mondo nei confronti della lunga detenzione alla quale è stata sottoposta Aung San Suu Kyi in modo intermittente. Nell’Aprile 2011 il Governo thailandese aveva (ancora una volta) annunciato di voler smantellare definitivamente i campi per i profughi birmani e Karen nello specifico. Poi però ci son state le elezioni e Abhisit Vejjajiva ha ceduto nel luglio 2011 il suo posto di Premier a Yingluck Shinawatra. Quindi, è di nuovo tutto “in forse”. Vi è anche da perscrutare le reali volontà delle autorità governative birmane, sulla carta non più presentate col volto della sola giunta militare ma con le fattezze di un Governo eletto attraverso delle apposite elezioni democratiche.

I Karen si sono organizzati da tempo in un proprio apparato paramilitare, il Karen National Liberation Army, che attualmente consta di circa 8mila soldati volontari: la loro lotta contro i vari governi centrali birmani dura da almeno 60 anni, praticamente dal 1948, anno in cui il Myanmar conquistò l’indipendenza dal Regno Unito. In realtà, proprio nella Costituzione promulgata il 4 gennaio 1948 si prevedeva un allargamento federativo delle varie etnie che insistono sul territorio birmano, uno Stato federale che avrebbe dovuto rivestire il ruolo di garante di tutte le minoranze ed i popoli birmani. Ma il padre del premio Nobel Aung San Suu Kyi, il Generale Aung San, venne assassinato nel luglio 1947. Ora, organizzazioni umanitarie a parte, alle quali viene frapposto ogni tipo di ostacolo possibile formale, diplomatico e materiale, c’è praticamente la sola Aung San Suu Kyi a ricordare le giuste aspirazioni di quella parte del suo popolo così reietto e abbandonato da tutti, in primis dallo stesso Myanmar.

Ma i Karen non s’arrendono facilmente, sono un popolo tenace, il sogno di una loro indipendenza dal Myanmar non è mai morto, nonostante la repressione ed i ripetuti attacchi dell’esercito birmano. Perché, in quanto sogno, il sogno d’indipendenza del popolo Karen non lo si può uccidere MAI».

Questo popolo turco-mongolo è originario del Tibet e delle steppe della Mongolia e giunse nelle attuali sedi verso il VI secolo a.C. dopo una lunga migrazione durata centinaia di anni.

L’ecologia ci insegna che la nostra patria è il mondo” (Danilo Mainardi). La scoperta più interessante che ho fatto incontrando i Karen in Thailandia è questa: I Karen sostengono di conoscere benissimo i lupi, ma di non averli Mai tramutati in cani… Mai mai mai mai mai? I cani non derivano dai lupi, ma esistono con quelle modalità etnologiche che gli permettono di avvicinare gli uomini e stabilire con loro un sodalizio di collaborazione soddisfacente.

Hinc nobis canis est, multis ex hostibus unus
non hostis neque mancipium neque verna, sed hospes “ .
( Giovanni Pascoli )

 

Traduzione

“Di qui viene il nostro cane: unico, di tanti nemici, non nemico; né schiavo comprato né schiavo di casa, ma ospite“

                                           Filippo Nibbi 

    


                                                  

 
 

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