Che
vuol dire presidentessa? É la presidente o
la moglie di chi presiede? - La lingua risente di una
visione del mondo tipicamente maschile - Non a caso si
dice l'uomo per intendere l'umanità, mentre è
maschile il plurale di gruppi di parole di diverso genere
- Ora che le professioni non sono più riservate ai soli
uomini, si pone il problema di adeguare il linguaggio alla
nuova realtà - Potremmo intanto sostituire i diritti
umani ai diritti dell'uomo
Nel 1962 il filosofo e linguista John L. Austin intitolava la sua
ultima opera “Come fare cose con le parole”. Secondo la
sua tesi dire è
sempre anche fare e la funzione di un enunciato non è soltanto cognitiva ma
anche sociale, politica o perfino giuridica. Ogni enunciato
è sempre anche atto linguistico e non si esime dal prendere
una determinata posizione nel contesto delle convenzioni
sociali e culturali del parlante. Secondo linguisti come
Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf l'espressione linguistica
coinciderebbe addirittura con l'immagine del mondo del
parlante, le cui categorie mentali sono in gran parte
dettate dalle peculiarità della lingua della quale dispone.
Risalgono addirittura al VI secolo i primi testi che conosciamo che
si occupino della stretta relazione tra lingua e modo di
pensare, tra lingua e categorie immaginali disponibili per
l'interpretazione del mondo. Naturalmente, il rapporto è
reciproco e non è soltanto la lingua ad influenzare la
cultura ma è anche la cultura a produrre e a servirsi, più
o meno consapevolmente, della propria lingua. La lingua che
conosciamo e la storia del suo sviluppo sono tutt'uno con la
storia sociale, giuridica e politica dell'area geografica
nella quale è diffusa.
Molte filosofe del linguaggio femministe si sono occupate di
sottolineare come la lingua comunemente utilizzata veicoli
un'immagine maschile del mondo e come le peculiarità di
questa lingua impediscano anche solo di formulare immagini
alternative dello stesso. Nella lingua non c'è niente che
sia “naturale”, la lingua è una costruzione frutto di
relazioni di potere ben precise. L'esempio più lampante è
quello del plurale maschile utilizzato per includere la
forma plurale di entrambi i generi, o la scelta dell'uomo
come paradigma della specie umana “l'Uomo”, chiaramente
risultato di un sistema patriarcale.
Ambito che offre ampia occasione di dibattito è quello dei nomi dei
mestieri. Gli sconvolgimenti sociali degli ultimi decenni e
la nuova posizione della donna nella società moderna hanno
posto il problema dell'assenza della forma femminile di
alcune professioni. Inizialmente si è adottata la forma
maschile anche per le donne, poi si è iniziato a creare il
femminile di diversi mestieri, ma riguardo queste nuove
forme vi è ancora molta incertezza.
In un primo momento la pratica più diffusa è stata quella di
aggiungere il suffisso -essa,
ma questa modalità ha subito molte critiche in quanto la
derivazione dal maschile è evidente e le forme in -essa
venivano un tempo usate per designare la moglie di qualcuno
(es. presidentessa
come moglie del presidente).
In questo caso specifico l'italiano offre una buona
possibilità, in quanto i nomi di professione uscenti in
-ente sono in verità linguisticamente ambigenere e
l'articolo è sufficiente a definirne l'uso maschile o
femminile.
Che
fare? Attendere che il linguaggio si evolva ancora, questa
volta in una direzione più democratica o intervenire
attivamente su di esso, cambiare la grammatica, come
suggeriscono alcune femministe? Una buona soluzione è
quella di un uso più coscienzioso dell'italiano, secondo le
dritte contenute ne “Il sessismo nella lingua italiana”,
opuscolo a cura di Alma Sabatini pubblicato dalla Presidenza
del Consiglio dei ministri nel 1993. “Paternità di
un'opera” sarebbe da sostituirsi con “maternità di
un'opera”, “diritti dell'uomo” con “diritti
umani”, “i romani” o “gli inglesi” o “i
francesi” con “il popolo romano”, “il popolo
inglese”, “il popolo francese”.
- Laura
Venturi
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