FOGLIO LAPIS - APRILE - 2008

 
 

Bullismo e intolleranza s’intrecciano nel caso di un alunno di terza elementare, irriso e picchiato perché sua madre è napoletana – Ci si chiede dove questi persecutori abbiano assimilato il germe dell’odio nei confronti del diverso -  La gravissima responsabilità delle famiglie e della politica– L’episodio richiama un tragico precedente, quello del ragazzo indiano adottato da una famiglia fiorentina che fu indotto al suicidio dalle canzonature per il colore della pelle

 

Parliamoci chiaro: se un gruppo di alunni di terza elementare isola un compagno che ha di diverso soltanto la provenienza della madre, napoletana, lo sbeffeggia chiamandolo “monnezza” e lo picchia, sembra evidente che la responsabilità va cercata nei contesti ambientali e familiari. L’incredibile episodio è accaduto in una scuola di Loria, nei pressi di Castelfranco Veneto, ne ha parlato il sito web della Tribuna di Treviso. È stata proprio la madre a scoprire la vicenda, leggendo sul diario del suo bambino una frase che rivela un abisso di disperazione: “se mi mandi ancora in quella scuola mi uccido”. Naturalmente la minaccia non è stata sottovalutata: il piccolo frequenta ora un altro istituto in una provincia vicina. E speriamo che lì lo lascino in pace. La Tribuna di Treviso c’informa che il sindaco di Loria si è pubblicamente e civilmente scusato, a nome di tutti i cittadini, con la famiglia del bambino.

Lasciateci immaginare le circostanze in cui la vicenda è maturata. Il termine “monnezza”, associato a Napoli, significa che a quel bambino di otto anni veniva implicitamente rinfacciata la colpa dello scandalo della spazzatura ammucchiata nelle strade della metropoli meridionale e della regione circostante. Uno scandalo che come si sa ha fatto il giro del mondo attraverso la copertura televisiva, una vergogna che attende una soluzione giudiziaria ma anche politica, un esempio di cattiva amministrazione sullo sfondo di torbidi interessi criminali. I piccoli della terza elementare di Loria devono avere assorbito nelle rispettive case una sbrigativa interpretazione popolare di questa emergenza: napoletani uguale “monnezza”, dunque alla larga.

Non è nuovo, nelle frange meno evolute della società italiana, un atteggiamento che riduce semplicisticamente i grandi problemi sociali alla dimensione personale. A Napoli non si ripuliscono le strade e la spazzatura ammorba l’atmosfera? Vuol dire che i napoletani sono sporchi, brutti e cattivi: bisogna dare una lezione a quella gente. Giusto, una lezione: ecco la conclusione degli adulti riproposta sulla scala infantile. C’è a portata di mano un piccolo indifeso compagno di classe, eccolo etichettato con il nome infamante dello scandalo, eccolo perseguitato e percosso, eccolo confidare al suo diario disperati propositi di suicidio.

Il problema riguarda anche altri, in questa stagione storica di grandi migrazioni riguarda soprattutto gli stranieri. Le comunità immigrate portano con sé una partecipazione massiccia, dunque giustamente preoccupante, alle statistiche della criminalità? E allora isoliamo il rumeno, l’albanese, l’arabo, e soprattutto non permettiamo ai loro bambini, anche loro sporchi, brutti e cattivi, d’insudiciare i nostri. Non permettiamo che pretendano di sedere agli stessi banchi di scuola, di ottenere le stesse attenzioni, la stessa formazione. Altrimenti finiranno fra qualche generazione con il rinchiuderci nelle riserve, come è stato fatto con gli indiani d’America: quest’ultima forsennata considerazione ha campeggiato nelle piazze italiane durante la recente campagna elettorale, era una normale propaganda politica dei nostri tempi, di un normale partito politico che miete vasti consensi e fra l’altro si vanta di difendere le nostre “radici cristiane”. Lasciando da parte, a quanto pare, quel cristianissimo precetto che impone di amare il prossimo.

L’episodio di Loria richiama alla memoria un tragico precedente di alcuni anni or sono. Ce ne occupammo nel numero del Foglio Lapis del maggio 2002 (http://www.fogliolapis.it/maggio2002-2.htm): era la storia di Anthony, un ragazzo indiano adottato a otto anni da una famiglia italiana e inserito nel nostro sistema scolastico. Dopo altri otto anni, frequentava a Firenze un istituto tecnico agrario, e una mattina di primavera si uccise stringendosi un cappio attorno al collo. Anthony era un ragazzo intelligente, lo dimostra la lettera con cui si accomiatò dalla vita. Distingueva nettamente fra l’esperienza familiare (“quando rientravo a casa ero il ragazzo più felice del mondo”) e quella ambientale: “ogni volta che uscivo di casa la gente non faceva altro che insultarmi per il colore della mia pelle e mi sentivo un verme”.

E la scuola? C’era stato un incidente, all’inizio dell’anno scolastico: un compagno aveva alluso proprio al colore della sua pelle e Anthony aveva reagito scagliandosi contro di lui. Poi c’era stata un’assemblea di classe per esaminare il caso e tutto era andato a posto: era solo una battuta e non m’importa delle battute, aveva detto. Una stretta di mano aveva chiuso il caso. Ma evidentemente c’era dell’altro: dicono che il suo profitto era discreto ma non gli bastava, sentiva che la sua condizione gl’imponeva di dare di più. E forse non ce la faceva. Anche lui, come quel bambino di terza elementare, aveva minacciato il suicidio: ma non l’avevano preso sul serio. Meno male che hanno preso sul serio il piccolo emulo potenziale di Castelfranco Veneto.

 

                                                          Alfredo Venturi 
                                         

    


                                                  

 
 

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