Il
caso di un asilo piemontese, dal quale una maestra
musulmana è stata cacciata perché secondo alcuni
genitori il suo velo poteva spaventare i bambini - Alla
fine l'ha avuta vinta, ma soltanto in parte: potrà
infatti insegnare, ma in un'altra scuola - E il caso di un
istituto tecnico napoletano, dove nei corridoi dopo la
rissa
a pugni sono spuntate le lame: un ragazzo ferito,
cinque denunciati - Da una parte una intolleranza con
venature razziste, dall'altra la violenza del bullismo
Che cosa c'è di
spaventevole in un foulard che copre il collo della maestra
e le fascia il collo? É quanto si domanda Fatima Mouayche,
una donna originaria del Marocco che dopo avere seguito con
successo un corso per educatrici della prima infanzia si è
presentata per il tirocinio in un asilo nido di Samone, una
piccola località nei pressi di Ivrea. Immediata la protesta
di alcuni genitori: Fatima, che è di fede musulmana, si
presenta in pubblico con il velo tradizionale. E quel velo,
sentenziano i padri e le madri di Samone, potrebbe
spaventare i bambini, o almeno farli sentire a disagio. I
responsabili della scuola, un istituto privato, hanno preso
atto di queste riserve e le hanno fatte proprie. E così
Fatima si è vista negare il posto di tirocinante.
Non è finita
qui, per fortuna. La maestra infatti si è data da fare per
far valere i suoi diritti e si è rivolta
all'amministrazione municipale di Ivrea. Sindaco e consiglio
comunale le hanno dato ragione, con la sola eccezione dei
rappresentanti leghisti, e mentre il caso esplodeva sulla
stampa nazionale altra solidarietà le è venuta da Roma:
dai ministri dell'Istruzione e dell'Interno, da esponenti
dei partiti di opposizione di maggioranza, tranne la Lega
Nord. Intervistata dai giornali, Fatima ha dato prova di
pacata flessibilità: potrei anche togliermi il velo, ha
detto, ma non mi sembra giusto. E poi, non lo portavano
forse anche le vostre nonne? Spaventavano i bambini, le
vostre nonne? Finalmente la maestra di origine marocchina è
potuta entrare in classe: ma non nell'asilo nido di Samone,
in un altro istituto a Ivrea.
Negli stessi
giorni in cui un piccola frazione del Nord proponeva questa
fiammata di intolleranza, in una grande città del Sud una
rissa fra studenti nei corridoi di un istituto tecnico
finiva a coltellate. Un ragazzo ferito, cinque compagni
denunciati. É accaduto a Napoli, nell'istituto tecnico
"Alessandro Volta". C'è stata prima una rissa a
suon di pugni fra gruppi di ragazzi. Poi uno di questi,
Massimiliano, quello che le aveva buscate di più, ha deciso
la sua vendetta a freddo. Ha affrontato di nuovo il gruppo
dei rivali, e stavolta è spuntato il coltello. Massimiliano
ha colpito Giovanni, il ragazzo che a pugni lo aveva
umiliato. Ecco Giovanni a terra in mezzo al suo sangue,
l'ambulanza che lo porta via a sirene spiegate:
fortunatamente non è grave, se la caverà in una decina di
giorni.
Intanto la
polizia cerca il responsabile. Nessuno sa o vuole dire chi
è abbia vibrato il colpo. La presidenza dell'istituto fa
notare che un ragazzo, subito dopo l'episodio, ha chiesto di
potere rincasare per un improvviso malessere. Era proprio
Massimiliano: gli agenti lo sono andati a cercare a casa e
hanno rapidamente accertato la sua responsabilità. Assieme
a lui, hanno denunciato altri quattro ragazzi coinvolti
nella rissa. Intanto nella scuola si ricorda che non è
stata una primizia: altre volte c'erano state risse e
pestaggi, altre volte lo scintillio delle lame ha fatto
compiere al diverbio un minaccioso salto di qualità. E non
soltanto all'istituto tecnico "Volta", del resto,
quanto è accaduto conferma una realtà fra le più
inquietanti: non sono pochi i ragazzi che girano armati, per
strada e a scuola. Persino alle elementari.
Lo fanno a volte,
come rivela Anna La Rocca, coordinatrice a Napoli di un
progetto di educazione alla legalità, per affermarsi come
capi, per dare di sé un'immagine di forza e
spregiudicatezza; altre volte perché sono attanagliati
dalla paura, e con un coltello in tasca si sentono più
sicuri. Non è un fenomeno soltanto italiano, del resto: da
tempo il bullismo è considerato in molti paesi una delle
manifestazioni più allarmanti del disagio minorile. Come
venire a capo del problema? Con il dialogo, rispondono gli
esperti, con l'applicazione di una tenace strategia
destinata a farli ragionare, a smontare i loro miti fondati
sull'arroganza e sulla legge del più forte. Ma non è
facile, così come non è facile convincere certa gente che
non sarà certo il capo velato di una maestra a mettere in
pericolo i loro valori, e tanto meno a insidiare i loro
figli.
Di fronte a
questa duplice sfida, il bullismo anticamera della
criminalità minorile e l'intolleranza preludio alla
xenofobia, non sarà certo la Lapis a tirarsi indietro. Da
sempre puntiamo infatti verso due obiettivi che consideriamo
prioritari. Da una parte l'educazione alla legalità, basata
sul rilancio nell'universo giovanile dell'immagine fin
troppo sbiadita dello stato. Dall'altra l'offensiva contro i
pregiudizi a carico dei "diversi", siano essi
ragazzi disabili o alunni (e insegnanti, come nel caso di
Fatima) stranieri: nella prospettiva di una scuola radicata
nei valori della solidarietà. Un miraggio? No, una necessità,
tanto più evidente se si pensa all'evoluzione, in corso
nella nostra struttura sociale, verso un inarrestabile
pluralismo di culture
a.v.
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