Un
film cinese, un francese, un italiano esplorano
l’universo infantile – I primi due affrontano temi
connessi con l’istruzione: raccontando la fuga di un
alunno da una scuola rurale asiatica, e la vita quotidiana
in una classe unica sopravvissuta in pieno Occidente,
nella dimensione provinciale dell’Alvernia – L’opera
italiana tratta invece della fatica di crescere e di
venire a patti col mondo, della conoscenza del diverso
come via per superare la diversità
“Non uno di meno”: il titolo dell’ultima opera di
Zhang Yimou, il regista cinese che undici anni or sono
conquistò a Venezia il Leone d’oro per la sua “Storia
di Qiu Ju”, sembra tratto dalla “Lettera a una
professoressa” di Lorenzo Milani. Si tratta, in effetti,
della raccomandazione che un vecchio maestro lascia alla
giovane supplente, nel momento in cui le affida
temporaneamente la sua classe elementare. Non uno di meno,
cioè bada bene a non lasciarteli scappare, questi
ragazzini: al mio ritorno voglio ritrovarli tutti. Invece un
alunno scompare, e il film è la storia di un inseguimento.
Il piccolo ha lasciato l’angusto ambiente rurale attratto
dalla grande città: è qui che va cercato, e l’unico modo
per ritrovarlo è ovviamente affidarsi all’occhio
onnipresente della televisione. Dunque: contrasto città-campagna
e riscoperta dei sani valori contadini, il tutto affidato a
attori non professionisti e registrato con uno stile sobrio
in cui qualcuno ha scorto le tracce del neorealismo
italiano.
Quello che qui c’interessa è ovviamente il tema, più
ancora di come è stato trattato. Cioè la centralità della
questione infantile anche per una cultura cinematografica
così lontana dalla nostra. Nel paese che ospita oltre un
quinto della popolazione del pianeta, e che attualmente vive
una stagione di profondi mutamenti nell’assetto economico
e sociale, ci sembra degno di nota il fatto che il regista
nazionale di maggiore notorietà internazionale abbia visto
proprio nella scuola l’elemento con cui raccontare la sua
Cina in transizione. Una Cina che vive sulla sua scala
colossale esperienze per noi ormai storiche, come
l’urbanesimo e la perdita progressiva della dimensione
rurale.
Questa dimensione, nel segno di un’accorata
nostalgia, è al centro di un film francese, “Essere e
avere”, firmato dal regista Nicholas Philibert. Quando
circa un anno fa uscì in Francia, ebbe un successo
straordinario, e non mancammo di informarne i visitatori del
nostro sito nella rubrica delle notizie flash. “Essere e
avere” è un documentario che racconta la vita quotidiana
in una piccola scuola in Alvernia, nel profondo della
provincia francese. Una scuola a classe unica, che comprende
nella stessa aula asilo e classi elementari, con un maestro
di origine spagnola, Georges Lopez, alle prese con
interlocutori che vanno dall’infanzia prescolastica fino
all’adolescenza. Non è la prima volta che Philibert si
cimenta con l’universo dell’istruzione: lo fece già con
“Chissà?”, ambientato in una scuola di teatro. Questa
volta la molteplicità dei soggetti reali che ha di fronte
gli permette di illustrare le molte sfumature della vita in
campagna, e i molti risvolti di quella grande avventura
personale che è la crescita. Con un pizzico di rimpianto,
appunto, per la classe unica, palestra di confronto fra i
diversi stadi dell’infanzia.
Al singolare film cinese e al bel documentario
francese vorrei ora accostare un bellissimo film italiano,
“Io non ho paura”, che il regista Gabriele Salvatores ha
tratto dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti. Questa
volta non c’è la scuola al centro della scena, ma
l’infanzia sì. È la storia di due ragazzi di dieci anni,
l’uno vittima di un sequestro a scopo di estorsione,
l’altro figlio del rapitore. È il contrasto fra la buca
priva di luce e di colore in cui il bambino rapito è stato
rinchiuso, e la luminosa policromia dei campi intorno, in
cui libertà significa poter scorrazzare, anche a prezzo di
andare incontro a varie insidie, dai rovi agli insetti. Ma
la libertà si conquista appunto superando la paura delle
insidie.
Al centro del film il rapporto fra i due ragazzi,
Michele e Filippo, che vivono esperienze così diverse ma si
cercano e si trovano. C’è al momento dell’incontro una
battuta bellissima: “Ciao sono Michele, faccio la quinta
B, ho dieci anni. Anche tu? Allora siamo uguali”. Più
tardi Michele viene a sapere che proprio suo padre è tra i
responsabili del sequestro, deve dunque confrontarsi con una
realtà imprevista e angosciante. Anche questo fa parte
della fatica di crescere, il ragazzo ricorda le
raccomandazioni di sue madre: “non allontanarti di sera,
se no ti prende l’uomo nero”. Dunque “mio papà è
l’uomo nero, si vede che di giorno è buono e di notte è
cattivo”.
r.f.l.
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