FOGLIO LAPIS - APRILE 2003

 
 

Un film cinese, un francese, un italiano esplorano l’universo infantile – I primi due affrontano temi connessi con l’istruzione: raccontando la fuga di un alunno da una scuola rurale asiatica, e la vita quotidiana in una classe unica sopravvissuta in pieno Occidente, nella dimensione provinciale dell’Alvernia – L’opera italiana tratta invece della fatica di crescere e di venire a patti col mondo, della conoscenza del diverso come via per superare la diversità

 

Non uno di meno”: il titolo dell’ultima opera di Zhang Yimou, il regista cinese che undici anni or sono conquistò a Venezia il Leone d’oro per la sua “Storia di Qiu Ju”, sembra tratto dalla “Lettera a una professoressa” di Lorenzo Milani. Si tratta, in effetti, della raccomandazione che un vecchio maestro lascia alla giovane supplente, nel momento in cui le affida temporaneamente la sua classe elementare. Non uno di meno, cioè bada bene a non lasciarteli scappare, questi ragazzini: al mio ritorno voglio ritrovarli tutti. Invece un alunno scompare, e il film è la storia di un inseguimento. Il piccolo ha lasciato l’angusto ambiente rurale attratto dalla grande città: è qui che va cercato, e l’unico modo per ritrovarlo è ovviamente affidarsi all’occhio onnipresente della televisione. Dunque: contrasto città-campagna e riscoperta dei sani valori contadini, il tutto affidato a attori non professionisti e registrato con uno stile sobrio in cui qualcuno ha scorto le tracce del neorealismo italiano.

Quello che qui c’interessa è ovviamente il tema, più ancora di come è stato trattato. Cioè la centralità della questione infantile anche per una cultura cinematografica così lontana dalla nostra. Nel paese che ospita oltre un quinto della popolazione del pianeta, e che attualmente vive una stagione di profondi mutamenti nell’assetto economico e sociale, ci sembra degno di nota il fatto che il regista nazionale di maggiore notorietà internazionale abbia visto proprio nella scuola l’elemento con cui raccontare la sua Cina in transizione. Una Cina che vive sulla sua scala colossale esperienze per noi ormai storiche, come l’urbanesimo e la perdita progressiva della dimensione rurale.

Questa dimensione, nel segno di un’accorata nostalgia, è al centro di un film francese, “Essere e avere”, firmato dal regista Nicholas Philibert. Quando circa un anno fa uscì in Francia, ebbe un successo straordinario, e non mancammo di informarne i visitatori del nostro sito nella rubrica delle notizie flash. “Essere e avere” è un documentario che racconta la vita quotidiana in una piccola scuola in Alvernia, nel profondo della provincia francese. Una scuola a classe unica, che comprende nella stessa aula asilo e classi elementari, con un maestro di origine spagnola, Georges Lopez, alle prese con interlocutori che vanno dall’infanzia prescolastica fino all’adolescenza. Non è la prima volta che Philibert si cimenta con l’universo dell’istruzione: lo fece già con “Chissà?”, ambientato in una scuola di teatro. Questa volta la molteplicità dei soggetti reali che ha di fronte gli permette di illustrare le molte sfumature della vita in campagna, e i molti risvolti di quella grande avventura personale che è la crescita. Con un pizzico di rimpianto, appunto, per la classe unica, palestra di confronto fra i diversi stadi dell’infanzia.

Al singolare film cinese e al bel documentario francese vorrei ora accostare un bellissimo film italiano, “Io non ho paura”, che il regista Gabriele Salvatores ha tratto dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti. Questa volta non c’è la scuola al centro della scena, ma l’infanzia sì. È la storia di due ragazzi di dieci anni, l’uno vittima di un sequestro a scopo di estorsione, l’altro figlio del rapitore. È il contrasto fra la buca priva di luce e di colore in cui il bambino rapito è stato rinchiuso, e la luminosa policromia dei campi intorno, in cui libertà significa poter scorrazzare, anche a prezzo di andare incontro a varie insidie, dai rovi agli insetti. Ma la libertà si conquista appunto superando la paura delle insidie.

Al centro del film il rapporto fra i due ragazzi, Michele e Filippo, che vivono esperienze così diverse ma si cercano e si trovano. C’è al momento dell’incontro una battuta bellissima: “Ciao sono Michele, faccio la quinta B, ho dieci anni. Anche tu? Allora siamo uguali”. Più tardi Michele viene a sapere che proprio suo padre è tra i responsabili del sequestro, deve dunque confrontarsi con una realtà imprevista e angosciante. Anche questo fa parte della fatica di crescere, il ragazzo ricorda le raccomandazioni di sue madre: “non allontanarti di sera, se no ti prende l’uomo nero”. Dunque “mio papà è l’uomo nero, si vede che di giorno è buono e di notte è cattivo”.

                                                              r.f.l.

                                                                                                   

 

                            

 

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